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«La migrazione può essere utile per tutti nella costruzione di
società più inclusive e sostenibili. Globalmente, il numero di migranti
internazionali ha raggiunto circa 258 milioni nel 2017, rispetto ai 173
milioni del 2000. La migrazione contribuisce alla crescita e allo
sviluppo economico inclusivo e sostenibile sia nei paesi di origine che
di destinazione. Nel 2017, i flussi di rimesse verso paesi a basso e
medio reddito hanno raggiunto i 466 miliardi di dollari, oltre tre volte
l’importo di Aps (Aiuti pubblici allo sviluppo) ricevuto nello stesso
anno. Le rimesse costituiscono una fonte significativa del reddito
familiare, migliorando la situazione delle famiglie e delle comunità
attraverso investimenti in educazione, sanità, servizi
igienico-sanitari, alloggi e infrastrutture. Anche i paesi di
destinazione ne traggono beneficio, poiché i migranti spesso colmano le
lacune del lavoro, creano posti di lavoro
come imprenditori e pagano tasse e contributi di sicurezza sociale.
Superando le avversità, molti migranti diventano i membri più dinamici
della società, contribuendo allo sviluppo della scienza e della
tecnologia e arricchendo le loro comunità di accoglienza attraverso la
diversità culturale». E’ quanto si legge nell’Agenda 2030 per lo
Sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, a firma del cinese Liu
Zhenmin, sottosegretario generale per gli affari economici e sociali
Onu.
Dunque, rispetto al 2000 le persone che hanno lasciato il proprio
paese di nascita e ora vivono in altre nazioni sono aumentate di circa
il 50% per cento (il 49% per l’esattezza) con un trend di continua
crescita. Al di là dei toni ottimistici e irrealistici usati nel
documento programmatico, possiamo estrapolare il presunto modello
economico di sviluppo sostenuto dai fautori delle attuali migrazioni,
che, a differenza di quelle passate, hanno raggiunto livelli massivi e
seguono nuove direttrici. A innescare un ipotizzato circolo virtuoso di
crescita sarebbero da un lato l’offerta da parte dei migranti di forza lavoro
per richieste non soddisfatte da parte dei lavoratori locali,
dell’altro il flusso di denaro inviato ai paesi di origine, che verrebbe
utilizzato non solo per alleviare la povertà familiare, ma per
investimenti produttivi nel tessuto economico nazionale. Un modello
virtuoso e foriero di crescita, accompagnato da una convivenza felice,
quasi simbiotica, tra migranti e cittadini dei paesi d’accoglienza. La
realtà, purtroppo, si rivela tutt’altra e, come spesso accade in economia,
non rispetta le condizioni ideali (o forse idealistiche) dei modelli
adottati. Gran parte dei paesi di destinazione dei flussi migratori si
trova a far fronte a una situazione di crisi duratura, che ha un notevole impatto sul lato della domanda e dell’occupazione.
Inoltre, a fronte di un sistema di produzione sempre più automatizzato, la domanda di lavoro,
soprattutto per profili non qualificati, è sempre più contratta. A
seguito di un processo di iperglobalizzazione non governata, che in Europa ha trovato massima espressione nell’Eurozona, cresce la concorrenza tra lavoratori, mentre i salari e i diritti del lavoro
sono in continuo ribasso. Non deve quindi stupirci se, in una simile
contingenza, i flussi massivi di immigrati vadano a ingrossare la
schiera dei disoccupati locali. Per quanto riguarda invece le rimesse, è
provato come esse, che pure sono molto consistenti e in continua
crescita, vengano utilizzate, soprattutto nel caso dell’Africa, per
consumi primari da parte delle famiglie. In un continente dove permane
l’ingerenza da parte di potenze (ex?) coloniali – come la Francia
– e postcoloniali – come la Cina – le opportunità di investimento sono
alquanto limitate, considerata la ricetta letale neoliberista imposta da
decenni dal Fondo Monetario e dalla Banca Mondiale (cfr “I coloni
dell’austerity – Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”). In
compenso, però, le rimesse rappresentano
un business fiorente per le agenzie di trasferimento di denaro, che per
quello inviato in Africa, ad esempio, applicano commissioni che
arrivano al 10%.
Dunque la situazione idilliaca di cui parla l’Onu non solo non
esiste, ma è assolutamente irrealizzabile date le attuali condizioni
dell’economia
mondiale, destinate peraltro ad aggravarsi. Eppure lo stesso entusiasmo
per i flussi migratori proviene da un’altra organizzazione
internazionale, l’Ocse, che in un suo documento, “Le sfide politiche per
i prossimi 50 anni” (2014), auspica che l’Europa
e gli Stati Uniti accolgano da qui al 2060 la considerevole cifra di 50
milioni di migranti per soddisfare le richieste di forza lavoro
necessaria (di nuovo!). Nello stesso documento l’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo prospetta gli scenari economici futuri. Da
qui al 2060, la crescita mondiale considerata a livello aggregato, ossia
di paesi Ocse (nei quali rientrano le cosiddette economie occidentali) e
non Ocse, subirà un rallentamento e si attesterà a livelli di gran
lunga inferiori a quelli pre-crisi. Gli scenari previsti dagli economisti per il mercato del lavoro sono piuttosto drammatici. Essendo il modello economico futuro sempre più “technology oriented”,
l’automazione ridurrà la domanda di lavoratori mediamente qualificati,
mentre sopravviveranno quelli ad alto e basso livello di qualifica e
responsabilità, cui corrisponde un correlato livello di salario.
Ne conseguirà un inevitabile e inarrestabile aumento del tasso di
disuguaglianza della popolazione: è il fenomeno già in atto della
distruzione del ceto medio, elemento fondante e prerogativa del
benessere delle economie occidentali. Su scala mondiale il livello di
disuguaglianza (indice di Gini) da qui al 2060, mantenendo inalterato
l’attuale modello economico, potrebbe riscontrare, secondo gli studi
condotti, un’impennata addirittura del 40%. Dunque l’attuale e
fallimentare modello economico che si vuole continuare ad applicare, di
cui i flussi migratori sono un elemento portante, arrecherà un aumento
della povertà e della disuguaglianza, per dimostrazione degli stessi
suoi fautori. Tuttavia si persevera con miopia e ostinazione
masochistica a somministrare la medesima letale ricetta a un paziente
morente, intrappolati ormai nella logica neoliberista del Tina (“there
is no alternative”). Eppure non solo esistono alternative, ma quella
attuale è la peggiore tra le possibili. E’ giunta l’ora di cambiare
rotta, e anche condottieri!
(Ilaria Bifarini, “Un mondo di migranti: la ricetta che piace alle organizzazioni internazionali”, dal blog della Bifarini del 13 maggio 2019).
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domenica 26 maggio 2019
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