contropiano
Dopo
i fatti del 23 maggio a Genova e il massacro del giornalista Stefano
Origone, Roberto Settembre, giudice che ha scritto la sentenza di
appello sui fatti del G8-Bolzaneto, risponde a una domanda “necessaria”.
“Senza provvedimenti di riforma radicali è a rischio la libertà di
tutti”. Ecco perché.
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La
Polizia di Stato è un’istituzione democratica e repubblicana? Questa è
una domanda necessaria dopo i fatti del 23 maggio 2019 a Genova, in
piazza Marsala, dove il giornalista Stefano Origone è stato massacrato
da un gruppo di agenti del VI Reparto Mobile di Genova Bolzaneto,
comandato dal vice questore Vincenzo Bove.
I
fatti sono noti: concessa la piazza a un comizio elettorale di
CasaPound e mandato il citato reparto di Polizia a presidiare la piazza
per impedire i contatti tra i manifestanti oppositori di Casa Pound e i
sostenitori di questa, dopo un susseguirsi di episodi di vivacissima
contestazione, compreso il lancio di oggetti, la Polizia in tenuta
antisommossa ha caricato i manifestanti che si sono dati alla fuga.
Presente in piazza il giornalista, che, trovatosi isolato, è stato
brutalmente bastonato e calciato dagli agenti, fino all’intervento
risolutore del vice Questore Bove che si è catapultato tra gli agenti
inferociti e il giornalista per fermare il pestaggio.
Gli effetti della violenza sono stati così descritti su un importante quotidiano nazionale: “Il
segno dello scarpone del poliziotto sul fianco sinistro sotto
l’ascella… è con quella pedata che gli hanno rotto la costola. Le due
dita della mano sinistra, indice e medio, frantumate a colpi di
manganello… Stefano era rannicchiato, con le mani cercava di proteggersi
il capo, e meno male – ha detto il primario del P.S. Ospedaliero dr
Cremonesi – altrimenti gli avrebbero sfondato la testa a bastonate. Sono
stati dei selvaggi. Il resto del corpo è tutto una piaga che tende al
viola: sulle reni, la spalla sinistra, la scapola sinistra, il petto,
una coscia, entrambe le tibie, una caviglia. Un grosso bozzo sopra
l’orecchio destro… le ossa delle mani sbriciolate”.
Ora vediamo come commenta la cosa il vicequestore Vincenzo Bove: “Al
di là delle immagini, i colleghi non sono così folli. È stato
sicuramente un momento brutto, la magistratura chiarirà, ma i colpi non
erano dati per uccidere. Ho sentito urlare ‘Sono un giornalista’ e
siccome avevo visto Stefano Origone qualche secondo prima mi sono
catapultato per allontanare gli agenti”.
Per rispondere alla domanda iniziale è necessario ragionare su queste parole. Vediamole. “I colleghi non sono così folli”.
Dobbiamo
crederci. Il vicequestore Bove conosce i suoi uomini (li comandava lui)
e se afferma che non sono folli (“Selvaggi” li ha definiti il dottor
Cremonesi), dobbiamo convenire che si tratta appunto di selvaggi
consapevoli e senzienti, che massacrano un uomo inerme in piena
consapevolezza.
Il
che non deve sorprendere, poiché gli agenti della Polizia di Stato non
sono folli, sono invece addestrati, armati e capaci, molto capaci,
avendo, come tutte le Forze dell’Ordine, l’esclusivo monopolio della
violenza, e come abbiamo visto la sanno esercitare. Ma il punto è: a quale fine e come. Allora le parole del Vice Questore Bove sono illuminanti:
“Siccome avevo visto Stefano Origone qualche secondo prima, mi sono catapultato per allontanare gli agenti”.
Che cosa significa “Siccome” ho riconosciuto la vittima ho fermato gli
agenti? Forse che, se non l’avesse riconosciuta, non avrebbe fermato gli
agenti? Forse perché, come ha precisato il vicequestore, “i colpi non erano dati per uccidere”?
È questo il discrimine interiorizzato dal comandante di un reparto di
Polizia mobile tra il decidere di lasciar massacrare una persona inerme a
terra e no? È questo il fine dell’esercizio del monopolio della
violenza da parte della Polizia di Stato?
E
se invece di “sbriciolare le ossa delle dita” (come ha detto il dottor
Cremonesi) gli agenti avessero sfondato la testa della vittima e
l’avessero uccisa, cosa avrebbe detto il comandante del Reparto?
Dobbiamo supporre che il vicequestore avrebbe parlato di un tragico
errore, per cui bisognerebbe dire che il fine dell’esercizio del
monopolio della violenza da parte della Polizia di Stato, dopo aver
disperso una manifestazione che ha superato i limiti consentiti,
consiste nel massacrare selvaggiamente i manifestanti inermi, ormai
caduti a terra e incapaci di difendersi, ma senza ucciderli.
Ora,
poiché la nostra Costituzione repubblicana, che all’Articolo 21
sancisce il diritto di manifestare, ed è stata invocata anche da chi non
riconosce i valori di questa Costituzione, come appunto dicono i
sostenitori di CasaPound, è indispensabile evidenziare che la Polizia di
Stato questi valori deve non solo conoscere, ma anche interiorizzare.
Sia perché “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno
il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei
casi stabiliti dalla legge” (Art. 54 Cost.), sia perché tra i principi fondamentali della nostra Costituzione l’Articolo 2 afferma che “La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità” ed “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (Art. 13).
Concetto,
quest’ultimo, che la Suprema Corte e la Corte europea dei diritti
dell’uomo (CEDU) ha esteso ai manifestanti quando non siano più in grado
di commettere azioni illegittime o illecite, come quando siano ridotti
inermi a terra alla mercé degli agenti di polizia.
Ma
se questo non accade, e accade proprio il contrario, se il fine
dell’esercizio del monopolio della violenza e il modo di esercitarla è
quello che i fatti hanno dimostrato, allora la risposta alla domanda con
cui inizia questo breve lavoro è negativa. Purtroppo.
E
sopratutto purtroppo dopo i fatti nefasti del G8 2001, dopo le sentenze
della Giustizia italiana contro le Forze dell’Ordine ree dei massacri
dei manifestanti per le strade, alla scuola Diaz e nella Caserma di
Bolzaneto, e quelle della Corte EDU che hanno condannato l’Italia per la
pratica della tortura, dopo il soffertissimo iter legislativo che ha
condotto alla monca e inefficace legge sulla tortura, e dopo che, ormai
da qualche tempo, la Polizia di Stato ha ripreso a usare pesantemente
il manganello per reprimere le manifestazioni quando le ritiene
illegittime, come il 19 maggio a Firenze e il 20 maggio a Bologna.
Queste
considerazioni paiono, a chi scrive, così pacifiche da non aver bisogno
di ulteriori commenti. Tuttavia si impone una riflessione ulteriore.
È stato scritto su un importante quotidiano nazionale che
quanto accaduto il 23 maggio a Genova è da ascriversi all’aver
scaricato sugli uomini in divisa della Polizia di Stato, che ne
costituiscono la pancia incapace di immaginare la Polizia come
un’istituzione democratica e repubblicana, una pressione impossibile da
sopportare, che invita all’obbedienza allo spirito dei tempi, mentre
sarebbe sufficiente, per rispondere positivamente alla domanda iniziale,
la visita del Capo della Polizia al giornalista ferito e la promessa di
cooperazione con l’autorità giudiziaria da parte dei vertici della
Questura genovese.
Dissentiamo,
perché un’istituzione democratica e repubblicana non può essere formata
da una pancia di selvaggi suscettibili di richiami primitivi a un
eventuale mainstream politico antitetico ai valori costituzionali. La
Polizia di Stato di un Paese rispettoso dei principi costituzionali,
deve tutta, compresa la sua pancia, conoscere come e perché le è stato
affidato l’altissimo compito di difendere la Repubblica e i principi che
la informano.
Quando ciò non avviene urgono provvedimenti di riforma radicali.
In caso contrario è a rischio la libertà di tutti.
* magistrato
dal 1979 al 2012, ha redatto la sentenza di appello sui fatti del G8 di
Genova a Bolzaneto, a riposo come presidente di sezione di Cassazione.
da Altreconomia
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