giovedì 9 maggio 2019

Agitata e immobile. L’Europa di Melville.


time-3769879_960_720‘Benito Cereno’ è un racconto scritto da Herman Melville nel 1855. Una nave spagnola ha perso le vele, i rifornimenti e la rotta dopo aver doppiato Capo Horn, ha un equipaggio decimato e un carico di schiavi neri irrequieti, sotto il comando di un capitano – Benito Cereno – malconcio e sfortunato, strettamente sorvegliato dal suo servo nero. Quando il capitano di una nave britannica porta cibo e acqua al veliero in difficoltà, in un mare immobile, trova un’apparenza di quiete rassegnata, che nasconde una verità ben più oscura.
Capo Horn è lontano da Bruxelles, ma il racconto di Melville offre qualche lezione all’Europa. L’economia europea è ristagnata per un decennio, ha perduto il vento che ne alimentava la crescita. Nel Sud Europa – Italia compresa – il reddito pro capite è tornato al livello di vent’anni fa; nel ‘Centro’ dell’Europa la metà più povera della popolazione non ha avuto praticamente alcun miglioramento nei redditi reali; la povertà si allarga ovunque.

Anche l’Europa ha perso la rotta. Dopo la crisi finanziaria del 2008, gli alti comandi della politica e dell’economia hanno aperto la strada alla crisi del debito pubblico e alle politiche di austerità che sono costati un un tragico impoverimento alla Grecia e al Sud Europa, e un’irreversibile perdita di legittimità all’Europa. Quando le onde si sono calmate, Bruxelles, Berlino e Francoforte non hanno cambiato direzione, scegliendo l’immobilità politica ed economica. Senza vele e senza rotta, una nuova tempesta finanziaria potrebbe far naufragare il veliero dell’Europa.
E però, un visitatore che sbarchi a Bruxelles potrebbe trovare un’apparenza di calma. Perfino alla vigilia delle elezioni europee non succede quasi nulla, non c’è un dibattito su ciò che è avvenuto, non c’è un piano di riforme economiche e politiche, nessuna intenzione di cambiare rotta. Si potrebbe restare sorpresi nel trovar vuota la cabina del capitano, e il comando esercitato da postazioni diverse, spesso in conflitto.
Angela Merkel guida il Consiglio europeo dove 27 governi indisciplinati si inchinano allo status quo tedesco. Logorata e vicina alla fine del suo potere a Berlino, la Merkel – in linea con la storia politica tedesca – chiede a tutti i paesi di comportarsi come la Germania, riesce a prevalere usando regole di ogni tipo per le politiche nazionali e bracci di ferro bilaterali, ma non ha imparato la differenza tra comando ed egemonia. I progetti per riportare la nave europea nel mare tempestoso del liberismo vengono dall’aspirante vice comandante, il tecnocrate Emmanuel Macron, ma le sue proposte di ‘riforma’ non riescono ad arrivare nemmeno al tavolo del Consiglio europeo. E il suo dinamismo in Francia si è inceppato con la lunga e inaspettata rivolta dei ‘gilet gialli’.
L’altro ruolo di comando in Europa è di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea a Bruxelles, un personaggio affaticato e senza speranza che sembra davvero uscito dal racconto di Melville. La Commissione è il portabandiera dello status quo burocratico dell’Europa, cerca di far rispettare regole economiche che sono per lo più sbagliate e viene regolarmente ignorata da Berlino.
Un quarto uomo, Mario Draghi, nell’avamposto della Banca centrale europea, è stato l’unico a intervenire; il suo Quantitative Easing è stato il solo vento che ha gonfiato le vele economiche europee, ma la rotta che si traccia da Francoforte protegge rigorosamente l’ordine finanziario che è all’origine dei guai dell’Europa.
Intorno a questi attori principali c’è un gran numero di secondi ufficiali che si arrampicano su e giù dall’albero maestro per ottenere visibilità e urlare ordini a cui pochi obbediscono. Tutti insieme hanno portato l’Europa alla paralisi: una rotta sbagliata all’insegna del neoliberismo e della finanza, l’incapacità di agire di fronte alla bufera come alla calma piatta, iniziative contrastanti che alimentano divisioni, il risultato dell’immobilità.
Sotto il ponte di comando europeo, tuttavia, la politica nazionale è diventata inquieta, il tumulto è ovunque. Senza benefici economici da offrire, i governi praticano il divide et impera e si appellano al bisogno d’ordine. Nuovi partiti populisti hanno moltiplicato i consensi denunciando l’élite europea, sventolando la bandiera della sovranità nazionale, alimentando l’odio contro i migranti; in questo modo hanno vinto le elezioni e sono al governo in molte capitali. I partiti di estrema destra hanno ora tra il 10 e il 30% di voti nella maggior parte dei paesi e la retorica populista è diventata dominante. Sull’altro fronte, la sinistra è muta, le richieste di riforme o cambiamenti radicali non sono state ascoltate, i sindacati sono sulla difensiva, le mobilitazioni contro disuguaglianze, violenza sulle donne, razzismo e cambiamenti climatici appaiono deboli voci contro i forti venti della conservazione.
Un intero paese – il Regno Unito – ha deciso di saltar giù dalla nave con la Brexit, ma sta scoprendo che le scialuppe di salvataggio della sovranità nazionale non funzionano come previsto, e un’intera classe politica resta appesa a metà tra la nave europea e le onde del Mare del Nord, incapace di decidere dove andare. In effetti, il gruppo di marinai che aveva tentato di scappare dalla nave di Benito Cereno era finito annegato. Forse la lezione principale della Brexit è che è molto difficile scendere dalla nave, anche quando è in avaria.
Questa combinazione di immobilità, vuoto d’azione politica e confuse agitazioni sociali è il paradosso dell’Europa. Così, vista dal ponte di comando di Bruxelles, la calma piatta non è affatto una cattiva opzione. La cooptazione al potere sta funzionando bene per i governi guidati da forze di estrema destra e populiste, dall’Italia all’Austria. Hanno iniziato con un’agenda anti-Europa e anti-euro e si sono rapidamente adattati alle realtà europee; nei programmi per le elezioni del maggio 2019 le richieste di uscita dall’euro sono state dimenticate.
La calma piatta non è una cattiva opzione nemmeno se confrontiamo l’Europa con la nave degli Stati Uniti, il cui comandante Donald Trump smantella pezzi delle istituzioni, licenzia l’equipaggio, infrange le regole del mare, sperando che i venti degli affari e della finanza possano sostenere il paese per sempre. E’ qui che in vista delle elezioni presidenziali del 2020, sembra prepararsi una ‘rivolta degli schiavi’ con richiami al socialismo anche dentro il Partito Democratico.
Sulla nave di Benito Cereno, tuttavia, le cose erano andate molto più in là. Gli schiavi si erano ribellati e avevano preso il comando della nave, anche se non erano in grado di guidarla; alla fine furono sconfitti dai marinai britannici e portati in giudizio; l’ordine sociale della schiavitù venne, per poco ancora, ricostituito.
I cittadini europei hanno molto di cui ribellarsi, ma hanno anche privilegi e diritti da perdere. Moltissimi accusano le élites, molti si sentono minacciati dai più poveri e dai migranti. Le richieste di protezione della società dal lato più oscuro del capitalismo non hanno ancora trovato risposte in un’agenda progressista, non c’è in vista un New Deal per l’Europa. E il ‘Vecchio Deal’ del nazionalismo torna ovunque nelle pericolose fantasie dell’estrema destra. Le elezioni europee del maggio 2019 e le loro conseguenze politiche faranno emergere questo tumulto, riveleranno un continente diviso, indisciplinato ma non in rivolta, giocheranno un’agitazione sociale contro l’altra. Alla fine, l’attuale ordine europeo potrebbe non essere messo seriamente in discussione e l’immobilità potrebbe essere l’opzione vincente per i comandanti, presenti e futuri. Almeno fino a quando una versione europea della ‘rivolta degli schiavi’ non diventerà possibile.

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