giovedì 16 maggio 2019

IMPERIALISMO CINESE IN AFRICA.

Il continente africano è stato da secoli terra di saccheggio e di sfruttamento per le potenze capitalistiche. Oggi a queste si è aggiunta la Cina che ha avuto nel giro di due decenni una tale crescita della sua presenza in Africa da diventare il principale partner economico di molti paesi.

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Risultati immagini per cinaIl capitalismo cinese, con tassi di crescita del Pil attestati intorno al 9% annuo dagli anni Ottanta del secolo scorso, è diventato una grande potenza che rivendica un’influenza nella politica internazionale proporzionata alla sua dimensione economica, finanziaria e militare.

Il primo Forum triennale on China-Africa Cooperation (FoCAC) si tenne nel 2000 per sancire l’influenza cinese sul continente. In quello svoltosi a Pechino dal 3 al 4 settembre scorso, alla presenza di oltre 50 capi di Stato e di governo africani, il presidente Xi Jinping ha “offerto” 60 miliardi di dollari in finanziamenti, annunciando anche la cancellazione del debito per alcuni paesi più poveri o in difficoltà. Di questi 60 miliardi, promessi per i prossimi tre anni, 15 saranno di aiuti e prestiti a interessi zero, 20 in linee di credito, 10 per un fondo speciale per lo sviluppo, 5 per sostenere le importazioni cinesi dal continente nero ed altri 10 serviranno da incentivi alle aziende cinesi ad investire nei vari paesi africani. Questi finanziamenti si andranno ad aggiungere a quelli erogati negli anni precedenti, l’aumento degli impegni finanziari cinesi verso l’Africa è stato infatti esponenziale: 5 miliardi nel 2006, 10 nel 2009, 20 nel 2012, 60 nel 2015 e ancora 60 miliardi nel 2018.

Retorica cinese e occidentale

Le relazioni sino-africane, che vantano radici lontane, hanno subìto un’evoluzione nel tempo strettamente collegata alla fase dello sviluppo capitalistico in Cina. Possiamo così individuare due fasi distinte che scandiscono i rapporti tra la Repubblica Popolare Cinese e l’Africa.

Nella prima fase, da quando la Cina, con la vittoria del Partito Comunista nel 1949, aveva conquistato l’indipendenza e l’unità nazionale, il compito principale per la sua borghesia era quello di trasformare un paese quasi esclusivamente agricolo e arretrato in un moderno paese industriale, attraverso una difficile accumulazione del capitale. Nello stesso periodo gran parte dell’Africa era ancora sotto il dominio coloniale e cominciavano le lotte per l’indipendenza nazionale, indispensabile premessa per qualunque progetto di sviluppo economico. In questo contesto nell’aprile del 1955, durante la prima Conferenza afro-asiatica tenutasi a Bandung, il premier cinese Zhou Enlai incontrò il presidente egiziano Nasser, e nel maggio del 1956 l’Egitto fu il primo Stato africano a stabilire relazioni diplomatiche con Pechino.

Un grande passo in avanti in politica estera per la Cina fu la visita di Zhou Enlai a dieci paesi africani tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964. Scopo dichiarato del viaggio era esprimere il sostegno ai movimenti di liberazione nazionale e ai giovani governi “socialisti” usciti dalla decolonizzazione, nella ricerca di alleati del cosiddetto Terzo Mondo per rompere l’isolamento diplomatico della Cina. Nove dei paesi visitati istituirono relazioni formali con la Repubblica Popolare. L’avvicinamento politico era sempre accompagnato da piccoli finanziamenti economici, quasi simbolici, impiegati per costruire stadi, palazzi presidenziali e di governo, ma anche infrastrutture come la ferrovia Tanzania-Zambia, oppure investimenti socialmente utili, come ospedali, forniti di competente personale medico cinese, oltre che ideologicamente indirizzati, con borse di studio offerte a studenti africani che divenivano membri influenti delle classi politiche locali. Alla fine del 1978, la Cina aveva stabilito relazioni diplomatiche con 43 paesi africani.

La seconda fase è iniziata alla fine degli anni Settanta e si è protratta sino agli inizi del nuovo millennio. Per sostenere la crescita impetuosa del capitalismo in Cina, che si ha dal 1978 in poi, il pragmatismo in politica economica interna di Deng Xiaoping (il capitalismo è sempre “pragmatico”) esigeva che Pechino indirizzasse anche i rapporti politici con l’estero verso più concrete relazioni economiche e commerciali. Le tappe principali furono: il 1978, quando iniziarono le politiche “di apertura e di riforma” di Pechino; il 1993, quando la Cina divenne un paese importatore di petrolio; il 1995, quando il Consiglio di Stato decretò che gli aiuti, i prestiti commerciali e il finanziamento “allo sviluppo” in Africa fossero legati a interessi commerciali cinesi.

L’ultima tappa si è aperta nel 2000 con la creazione del FoCAC. Con una accelerazione delle relazioni Cina-Africa frutto della necessità cinese di dare sfogo all’estero all’enorme crescita del suo apparato produttivo e finanziario, e si completa la discesa anche della Cina nel girone infernale dell’imperialismo. Era quindi necessaria una sottomissione maggiore alla Cina dei paesi africani, in concorrenza con i vecchi padroni coloniali e imperiali d’Europa, d’America, di Russia.

Nel 2013, la Cina aveva stabilito relazioni diplomatiche con 50 paesi africani, praticamente con tutti. Oggi solo lo Swaziland continua a mantenere rapporti con Taiwan. La Repubblica Popolare Cinese ha sempre preteso il riconoscimento dell’esistenza di un’unica Cina, con Taiwan sua parte integrante, e come unico legittimo governo quello dei Pechino.

Sono anche cambiati i principi che il governo cinese proclamava avrebbero dovuto informare le relazioni con gli Stati africani, principi definiti nel corso del tempo attraverso una numerosa serie di rapporti ufficiali.

Nella prima fase le relazioni della Cina con l’Africa furono basate sui “Cinque Principi” della pacifica coesistenza del 1953 e sugli Otto Principi per gli aiuti stranieri enunciati dal premier Zhou nel corso della sua visita in Africa del 1964. I Cinque Principi proponevano: il rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale; la non aggressione reciproca; la non ingerenza negli affari interni; l’uguaglianza, il reciproco vantaggio e la coesistenza pacifica.

Mentre gli “Otto Principi” sostenevano: l’assistenza ai paesi stranieri secondo il principio di uguaglianza e di reciproco vantaggio; il rispetto per la sovranità dei paesi beneficiari, nessun vincolo e nessun privilegio imposto; la fornitura di prestiti a basso interesse o ad interesse zero; aiuto ai beneficiari per avviare uno sviluppo economico autonomo e indipendente; il raggiungimento di risultati rapidi attraverso piccoli investimenti; la fornitura di attrezzature, beni e materiali cinesi di alta qualità; aiuto per la formazione tecnica e lo stesso trattamento per gli esperti dei paesi beneficiari e per quelli cinesi.

Inoltre in questa prima fase veniva rimarcata la vicinanza di interessi tra la Cina e i paesi africani, con una storia condivisa in quanto nazioni oppresse dal colonialismo e comune “modello” economico e sociale (il “socialismo”) in quanto paesi in via di sviluppo. In questo modo Pechino puntava a differenziarsi sia dall’Occidente sia dalla politica di Mosca.

Dopo il 1978 invece, sull’onda della modernizzazione economica, l’attenzione cinese si spostò dai programmi di aiuto all’Africa a legami commerciali più stretti e proficui: Pechino decise uno sviluppo della politica africana in direzione del “mutuo vantaggio” e della “cooperazione win‑win” (vinci‑vinci), ove si scambiava la realizzazione di infrastrutture con la fornitura alla Cina delle risorse naturali africane. Dalle enunciazioni di principi politici ed ideologici si passò a far leva su comuni interessi economici e su benefici reciproci.

La Cina però – come fanno tutti gli imperialismi – ancora nasconde il volto predatorio dietro la maschera della cooperazione e dei vantaggi che i paesi africani ricaverebbero da stretti legami col gigante asiatico. Anche in occasione del vertice FoCAC la Cina ha nascosto le sue mire predatrici sotto la fraseologia della cooperazione e dello sviluppo: «L’obiettivo delle relazioni sino-africane è il miglioramento delle condizioni di vita delle persone», ha dichiarato Xi Jinping.

Il presidente cinese al Forum ha elencato otto importanti terreni di cooperazione tra la Cina e i paesi africani: promozione industriale, infrastrutture, facilità degli scambi, sviluppo ambientale, sviluppo del know‑how, assistenza sanitaria, scambi interpersonali, pace e sicurezza. I media cinesi scrivono che «la cooperazione fra Cina e Africa è fra due fratelli».

I cinesi opporrebbero alle pratiche degli occidentali una politica basata su “Cinque No”: no all’ingerenza negli affari interni, no all’imposizione dei voleri di Pechino, no alla ricerca di vantaggi politici tramite finanziamenti o investimenti, no a legami finanziari di assistenza, no ad interferenze nel modello di sviluppo, che deve restare in linea con le rispettive condizioni nazionali.

Da parte occidentale la crescente influenza della Cina sul continente africano ha scatenato critiche e reazioni di politici e pennivendoli. In Occidente, ove si esibisce il culto della putrefatta democrazia e della libertà di parola, cioè di imbonimento dei cranii, le critiche all’espansionismo cinese in Africa accomunano tutte le sfumature politiche, dalla “destra” alla “sinistra”. Si accusa Pechino di “neocolonialismo”, di attirare gli africani nella trappola del debito, di mirare esclusivamente allo sfruttamento delle risorse minerarie. Altri, con toni moralistici, rimproverano ai cinesi di non curarsi ovunque del rispetto della democrazia e dei “diritti umani”. Infine c’è chi rimprovera i propri governi di disinteressarsi del continente africano: l’espansione cinese in Africa avrebbe colto l’Occidente “impreparato”, con gli Stati Uniti di Trump che hanno “dimenticato” l’Africa e l’Europa che la vede solo come la fonte del problema migratorio.

Tutta questa retorica, di cinesi ed anti-cinesi, sta solo a nascondere la vera natura dello scontro in atto nel continente africano, che vede il nuovo arrivato, la Cina, farsi spazio, con gli stessi strumenti di forza finanziaria e con le stesse infami e menzognere giustificazioni ideologiche, nelle sfere d’influenza degli altri imperialismi. Una vera guerra che, come tutte le guerre, si risolve solo, almeno temporaneamente, con la vittoria, militare, di uno dei contendenti.


I cinesi in Africa

Dall’inizio del XXI secolo l’interscambio commerciale tra la Cina e il continente africano è aumentato annualmente di circa il 20%. Con un volume di scambi di circa 170 miliardi di dollari, da 9 anni la Cina è il principale partner commerciale dell’Africa, davanti a Stati Uniti e Francia. Parallelamente c’è stata una enorme crescita degli investimenti cinesi. I 60 miliardi promessi recentemente si vanno infatti ad aggiungere a quelli impiegati negli ultimi 17 anni: tra il 2000 e il 2017 il governo cinese, le banche e vari fondi hanno portato in Africa circa 143 miliardi di dollari.

La Cina iniziò ad interessarsi più attivamente del continente africano negli anni Duemila, nel periodo in cui la forte crescita della sua economia richiedeva una quantità sempre maggiore di materie prime. I primi rapporti che i cinesi stabilivano con i paesi africani avevano infatti il chiaro obiettivo di rifornire le fabbriche della madrepatria di petrolio, rame e altri minerali, insomma tutto il necessario per sostenere l’elevata espansione industriale.

Negli ultimi anni la Cina, diventata la fabbrica del mondo, non solo si trova nella necessità di garantire sempre nuovi sbocchi alla sua produzione manifatturiera, ma è alla ricerca di investimento per i suoi capitali in eccesso.

Per far fronte a questa necessità del capitale, i dirigenti cinesi stanno provando ad attuare il grande progetto della Belt and Road Initiative (BRI), la cosiddetta Nuova Via della Seta: diverse rotte commerciali marittime e terrestri che dalla Cina si snodano verso Occidente. L’estensione complessiva del progetto è difficilmente quantificabile trattandosi di una miriade di opere infrastrutturali che attraversano tutta l’Asia per approdare in Europa. Ma anche l’Africa vi è stata inclusa. Ancora più che per le altre regioni interessate, il fronte africano del progetto è costituito da un sistema complesso e stratificato di accordi tra la Cina e i vari paesi africani. In ogni caso il focus è sulle infrastrutture: aprendo cantieri in tutta l’Africa Pechino sta integrando il continente africano nel grande progetto della Nuova Via della Seta.

Le più importanti infrastrutture già realizzate dalla Cina in Africa riguardano sicuramente i collegamenti ferroviari. La Cina negli ultimi dieci anni ha contribuito alla costruzione di oltre 5.700 km di ferrovie. Nell’Africa orientale le infrastrutture cinesi già esistenti possono essere considerate parte di una rete più ampia che dai porti sulla costa si ramifica nell’entroterra. In questa regione i cinesi hanno realizzato due importanti collegamenti su ferro che danno bene l’idea degli ingenti investimenti cinesi. La nuova linea ferroviaria Gibuti-Addis Abeba è la più lunga tratta elettrificata in Africa, 800 chilometri, che permette ai treni merci di percorrerla in meno di 10 ore, rispetto ai tre giorni di strade sterrate che prima dovevano affrontare i camion. È costata 3,4 miliardi di dollari, ed è la prima parte di un progetto che mira a costruire in Etiopia 5.000 chilometri di ferrovie entro il 2020. Quella Mombasa-Nairobi è invece una ferrovia veloce che percorre i 450 chilometri che dividono la capitale del Kenya dalla costa in 4 ore e mezzo. Questa, costata 3,2 miliardi di dollari, ha creato 50 mila posti di lavoro e contribuito a far crescere il Pil nazionale del 2%. Lo sviluppo di questa ferrovia è anche la premessa del collegamento di paesi privi di sbocco sul mare, come Uganda o Ruanda, ai porti sull’oceano Indiano.

Un altro fondamentale settore verso il quale sono diretti gli investimenti cinesi in Africa riguarda l’ammodernamento di porti, come quello di Gibuti, quello di Porto Said in Egitto e di Lagos in Nigeria. In Tanzania grazie ai finanziamenti cinesi è in costruzione il porto di Bagamoyo, che dovrebbe diventare uno dei più importanti scali del continente in grado di gestire mega‑navi. L’importanza di investimenti in installazioni portuali è data dal fatto che circa il 90% delle importazioni e delle esportazioni africane si svolgono via mare. In questo modo, secondo alcuni analisti, la Cina vorrebbe mettere in atto una sorta di accerchiamento del continente africano attraverso il controllo di una decina di porti da essa finanziati.

Oltre ad essere investiti nella costruzione e ammodernamento di ferrovie e porti, i capitali cinesi finora hanno finanziato la realizzazione di oltre 4.300 km di autostrade, 14 aeroporti, 34 centrali elettriche e circa 1.000 piccole centrali idroelettriche. In generale i capitali cinesi sono stati impiegati principalmente in tre settori: i trasporti (38 miliardi), l’energia (30 miliardi) e le attività estrattive (19 miliardi).

La Cina ha una crescente fame di materie prime che l’Africa è in grado di soddisfare, una terra ricca di risorse da depredare. Assicurarsi l’accesso alle sue materie prime, soprattutto al petrolio, rappresenta una priorità fondamentale per Pechino. L’estrazione, la trasformazione e il trasporto delle materie prime africane in molti casi sono possibili solo attraverso la costruzione di nuove infrastrutture. Le importazioni della Cina dall’Africa riguardano per il 75% materie prime. I pagamenti dei prestiti contratti con la Cina sono spesso effettuati con la fornitura di materie prime. Ad esempio negli ultimi 14 anni l’Angola ha contratto con la Cina debiti per oltre 19 miliardi di dollari da ripagarsi, per lo più, con forniture di petrolio.

Infine, va notato che la Cina sta delocalizzando in Africa tutta una serie di produzioni industriali. Secondo alcuni studi operano in Africa più di 10.000 imprese cinesi, il 90% delle quali è posseduto da privati; secondo l’African Development Bank, i cinesi in Africa sono circa 1.300.000. Uno dei principali paesi individuati dai cinesi per la produzione industriale è l’Etiopia. In questo paese con gli investimenti cinesi è stato realizzato il parco industriale di Hawassa che ha attratto decine di industrie per la produzione di abbigliamento. Simili parchi industriali sono in corso di realizzazione anche in Kenya e in Egitto.

Alla fonte di questa strategia ci sono una serie di fattori. Prima di tutto il trasferimento delle produzioni industriali in Africa permette di ridurre i costi di trasporto della materie prime; infatti, essendo queste materie prime disponibili in loco, il loro costo di trasporto verso i centri di produzione in Africa, anche grazie alle infrastrutture costruite dalla Cina, è estremamente basso, aumentando in questo modo il margine di profitto per le aziende. A ciò si aggiunge il fatto che le aziende cinesi che producono direttamente in Africa hanno a disposizione un vasto mercato interno in espansione dove collocare i loro prodotti.

Ma un fattore determinante alla base di questa tendenza a delocalizzare riguarda l’aumento dei salari in Cina. Sono oramai lontani i tempi in cui il capitalismo cinese aveva a disposizione uno sterminato esercito di miserabili disposti a lavorare per salari bassissimi. Nell’ultimo decennio i lavoratori cinesi hanno ottenuto aumenti salariali annui di circa il 12%. D’altra parte, mentre la Cina registra una tendenza al calo della popolazione in seguito alla politica del figlio unico, la popolazione africana è in piena espansione demografica e può fornire giovane manodopera a volontà. È stato calcolato che l’Africa permetterebbe salari inferiori del 45% rispetto a quelli praticati in Cina. Il continente africano diventa, quindi, un serbatoio stracolmo di manodopera da sfruttare, milioni di giovani braccia a disposizione del capitale.

Da questo punto di vista, gli investimenti cinesi in Africa contribuiscono ad irrobustire la classe operaia africana, che viene impiegata nelle costruzioni finanziate dai capitali cinesi e nelle fabbriche. Ma, per il resto, l’espansione del capitalismo cinese in Africa non può avere nulla di positivo da offrire ai proletari africani perché avviene in un contesto internazionale di aspra contesa imperialistica che inevitabilmente porterà a crisi e a guerre sempre più disastrose.


Il “land grabbing”

La Cina e gli altri imperialismi sono in competizione in Africa anche per quanto riguarda il cosiddetto land grabbing, l’accaparramento di terra, la progressiva acquisizione di vasti appezzamenti da parte di Stati e grandi compagnie in paesi stranieri, per lo più poveri.

I pennivendoli occidentali al servizio della propria borghesia arrivano a dipingere in termini isterici l’acquisizione cinese di terre in Africa, con la retorica ipocrita sui miseri contadini cacciati dal podere. Vanno qui evidenziati due importanti aspetti. Primo: anche se non ci sono dei dati precisi, il rapporto del Focsiv “I padroni della Terra” valuta che, fra gli 88 milioni di ettari di terra fertile accaparrata da Stati e aziende multinazionali, i principali di questi risultano ancora essere gli statunitensi col primato di 10 milioni di ettari dal 2000 ad oggi, superando di gran lunga la Cina con i suoi 3 milioni di ettari. Secondo: la metà dei terreni acquisiti dalla Cina all’estero riguarda non l’Africa ma alcuni paesi dell’Asia sud‑orientale, Myanmar, Laos e Cambogia.

Gli eventi del biennio 2007‑2008, con l’esplodere della crisi economico-finanziaria e di quella alimentare, sono alla base di questa “corsa alla terra”, di cui l’Africa è la principale vittima. A partire dall’inizio del 2007 ci fu un vertiginoso aumento dei prezzi dei beni alimentari, che raggiunsero il picco nella primavera dell’anno successivo, con grano e riso che arrivarono a costare anche il 150% in più. Da qui l’interesse ad investire capitali nell’agricoltura, tanto che l’acquisizione di terre all’estero crebbero rapidamente: nel 2008 interessavano 4 milioni di ettari e nel 2009 erano già 56 milioni.

A subire maggiormente gli effetti di questo aumento dei prezzi delle derrate alimentari erano state soprattutto le popolazioni dei Paesi più poveri, dove l’aumento della fame provocò pesanti disordini sociali e rivolte, ad esempio in Egitto. La crisi alimentare divenne così una minaccia per le ben pasciute classi dominanti, e mostrò la fragilità di quegli Stati che, disponendo di limitate risorse interne, dipendono dagli approvvigionamenti dall’estero.

Quello alimentare è stato sempre un fattore critico nella storia della Repubblica Popolare. Milioni di morti furono provocati dal fallimento del Grande balzo in avanti; ancora fino agli anni Ottanta il cibo nel Paese era razionato e la carne si mangiava solo in occasioni speciali.

La Cina, con circa il 20% per cento della popolazione mondiale, dispone appena dell’8‑9% delle terre arabili. Inoltre, secondo le statistiche ufficiali, gran parte delle sue terre, circa il 40%, è progressivamente reso meno fertile dall’erosione del suolo e dall’inquinamento. L’impetuosa crescita industriale ha gravemente danneggiato buona parte delle terre coltivabili e compromesso le risorse idriche per l’inquinamento di falde, fiumi e laghi.

Un cambiamento si ebbe solo con le riforme degli anni Ottanta. Dal 1978 si è registrata una crescita notevole della produzione agricola, circa il 4,6% annuo. L’assunzione totale di calorie per persona al giorno in Cina è cresciuta notevolmente, da 2.163 kcal nel 1980 a 3.102 nel 2014. Se nelle aree rurali la dieta continua a basarsi essenzialmente sul consumo, e autoconsumo, di prodotti vegetali quali cereali (riso al Sud, grano al Nord) e ortaggi, la dieta della popolazione urbana (che gode di un reddito pro‑capite tre volte più alto di quello delle aree rurali) si caratterizza per un consumo significativo di proteine di origine animale. L’aumento del consumo di prodotti animali è stato notevole, tra il 1985 e il 2005 il consumo di carne è quadruplicato, e continuerà poi a crescere.

Il divario tra la capacità produttiva e la necessità di sfamare la popolazione, unita all’abbondante disponibilità di capitali, ha inoltre spinto la Cina, dalla metà degli anni 2000, a prendere in affitto o comprare appezzamenti all’estero. Ha cominciato nei Paesi limitrofi ma presto si è rivolta all’Africa, che dispone di terre di ottima qualità a prezzi bassi e regimi politici ben disposti. Così coltiva riso e altri prodotti alimentari nelle terre africane.

Vani tentativi che poco possono di fronte ad un modo di produzione incapace di soddisfare i bisogni umani più essenziali.


La base di Gibuti

L’esportazione di capitali cinesi in Africa necessita del sostegno dello strumento militare. Ovviamente i cinesi devono coprire la loro espansione militare con la retorica umanitaria, accodandosi anche in questo caso alle luride ipocrisie degli occidentali, che da buoni democratici restano i maestri nel parlare di pace quando si tratta di portare morte e distruzione.

Quindi anche i cinesi partecipano con soldati e mezzi militari alle cosiddette operazioni di “peacekeeping”. Secondo i dati dell’European Council on Foreign Relations, la presenza militare della Cina nel continente africano è di circa 2.500 soldati, che sarebbero impegnati in missioni con il mandato delle Nazioni Unite. Di questi militari, ben 1.051 sono schierati in Sud Sudan, 666 in Liberia, 402 in Mali e gli altri nella Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana e Sudan. A questi bisogna aggiungere le migliaia di cosiddetti “contractors”, che sono dipendenti di compagnie private, mercenari, ai quali viene delegata tutta una serie di operazioni militari e di sicurezza che non sono gestite direttamente dall’esercito statale. Siamo quindi di fronte a numeri esigui, ma che sono destinati a crescere con l’ulteriore penetrazione cinese nel continente. Negli ultimi anni l’influenza cinese in Africa si ha richiesto sempre più dello strumento militare per proteggere i suoi interessi nel continente e per rafforzare la sua posizione geopolitica; la presenza militare cinese è necessaria a salvaguardare gli ingenti investimenti fatti dalle aziende e dal governo, per proteggere le infrastrutture e le unità produttive.

Ben presto la Cina potrà schierare in Africa altri soldati in seguito all’apertura a Gibuti della prima base militare permanente all’estero che può arrivare ad ospitare fino a 10.000 soldati.

La base a Gibuti, inaugurata lo scorso anno, si trova in una importante posizione strategica. Piccolo Stato del Corno d’Africa con poco più di 900.000 abitanti, si affaccia sullo Stretto di Bab el‑Mandeb, fra il Mar Rosso e il Golfo di Aden nell’Oceano Indiano. Come quello di Hormuz e delle Molucche, riveste una fondamentale importanza per l’economia cinese, sulla rotta per il Canale di Suez; su di essa transita il flusso di petrolio per la Cina e le sue esportazioni per l’Europa, rientrando a pieno nel progetto cinese della Belt and Road Initiative.

La nuova base militare dunque garantisce la sicurezza alla via marittima della Via della Seta, e nello stesso tempo rappresenta un buon punto da cui consolidare ed estendere la penetrazione nel mercato etiope e in generale in tutto il Corno d’Africa. Con Gibuti, la prima base militare all’estero per la RPC, Pechino consolida la sua presenza in Africa, e, in potenza, viene ad aggiungere un nuovo contendente ai gendarmi armati imperialisti nel continente.

Il “modello Gibuti” sarà riprodotto dalla Cina nello sviluppo delle sue basi all’estero, come quella che si profila a Walvis Bay, in Namibia.

Infine, un altro fattore indice del crescente peso che la Cina sta acquisendo in Africa e che la lega ai paesi africani è dato dall’esportazione di armi. Negli ultimi anni la Cina ha superato gli Stati Uniti nella vendita di armi in Africa. Secondo l’ultimo rapporto del SIPRI la Cina è il secondo fornitore di armi dell’Africa dopo la Russia. Nonostante che nel periodo 2013‑17 le importazioni complessive di armi da parte dell’Africa siano diminuite del 22% rispetto al quinquennio precedente, quelle dalla Cina sono aumentate del 55%, raggiungendo il 17% del totale.

Questa espansione dell’imperialismo cinese in Africa, sul piano economico, industriale, militare, preoccupa le altre potenze imperialiste che stanno cercando di reagire aumentando anch’esse la loro presenza militare nel continente, la cui importanza strategica sta crescendo di anno in anno.

I sempre più frequenti episodi di scontri sanguinosi tra milizie guerrigliere ed eserciti regolari, spesso contrabbandati come causati da ragioni etniche o religiose, sono invece provocati da questo scontro sotterraneo tra i maggiori imperialismi mondiali.

Il proletariato africano, spesso oppresso oltre che dallo sfruttamento del suo lavoro nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere, anche dalla guerra, dalla fame, dalle malattie causate da condizioni di vita insostenibili, deve ritrovare la sua unità e la sua forza di classe per opporsi ai fuochi di guerra accesi dall’imperialismo, proclamando la sua guerra, quella contro la classe borghese e i suoi manutengoli, d’Occidente o d’Oriente che siano, e prima di tutto, contro le proprie borghesie nazionali e il proprio padronato.

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