mercoledì 17 aprile 2019

Scuola. Le politiche europee per l'istruzione stanno distruggendo la scuola italiana.

Una sinistra degna di questo nome, tra le tante cose, dovrà, dopo il voto di maggio, riflettere criticamente sulle politiche europee dell’istruzione. Adottate negli ultimi vent’anni tra gli ambiti di competenza dell’Unione europea, e tradotte attraverso leggi e riforme all’interno del nostro sistema di istruzione nazionale, esse configurano uno stravolgimento epocale dei principi fondativi della formazione e dell’educazione, così come si sono declinati nei secoli attraverso le forme della paideia.



micromega Anna Angelucci

A partire dal Trattato di Maastricht del 1992, la Commissione europea ha assunto formalmente competenze in materia di istruzione, dandole fin da subito quell’impronta fortemente economicistica richiesta dai gruppi industriali nazionali, europei e multinazionali, dai loro gruppi di pressione e dai loro numerosi think tank. Nel Libro Bianco «Insegnare e apprendere: verso la società conoscitiva», pubblicato dalla Commissione europea nel 1996, si legge che «è adattandosi alle caratteristiche dell’impresa dell’anno 2000 che i sistemi d’educazione e di formazione potrebbero contribuire alla competitività europea e al mantenimento dell’occupazione».
Il modo che si è scelto per realizzare rapidamente questo obiettivo è stata la progressiva omologazione - attraverso processi di standardizzazione - dei sistemi di governance delle scuole nei diversi Paesi e delle attività educative e didattiche, ma soprattutto la torsione dei principi pedagogici e culturali su cui il lavoro a scuola si istituisce e si fonda.

In nome di un’idea di ‘sviluppo’ dai tratti marcatamente neoliberisti - e che nega alla radice qualunque dimensione di ‘progresso’ inteso come crescita sostenibile del benessere e della qualità della vita di tutti - le logiche che hanno alimentato costantemente le politiche comunitarie nel campo dell’istruzione sono state quelle della competitività economica, intesa come unica dimensione delle attività umane, qualsiasi esse siano.

Se analizziamo i documenti della Commissione e del Parlamento, ci accorgiamo che i cardini principali del discorso e degli interventi europei sono i seguenti: competenze chiave di cittadinanza, formazione permanente, nuove tecnologie digitali, deregolamentazione, rapporti con le imprese. Da vent’anni, è un’istituzione economica, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), che governa le politiche dell’Unione europea sui sistemi d’istruzione, attraverso un monitoraggio e un’azione costanti e ad ampio raggio.

Come si è tradotto tutto questo in Italia? In un arco temporale che va dalla legge sull’autonomia scolastica di Berlinguer del 1997 alla legge sull’autonomia scolastica di Renzi del 2015, abbiamo assistito all’implementazione sempre più cogente della ‘didattica per competenze’; del life long learning, ovvero di una riqualificazione incessante; della deregolamentazione attuata attraverso l’autonomia scolastica, cui si aggiunge il progressivo definanziamento delle scuole, che le ha spinte verso i rapporti con le imprese e col territorio, alla ricerca di partenariati e di fondi.

Oggi in Italia abbiamo l’alternanza scuola-lavoro, come strumento di formazione alla precarietà e allo sfruttamento; abbiamo i test Invalsi che omologano e standardizzano l’attività di insegnamento/apprendimento, agendo retroattivamente sulla didattica attraverso il teaching to test; abbiamo la progressiva marginalizzazione delle discipline e dei contenuti in nome del problem solving; abbiamo la spinta all’autoimprenditorialità dei bambini e degli adolescenti come soluzione del problema della flessibilità, della mobilità e dunque della precarietà sempre più diffuse e sempre più ‘naturalizzate’ nel mercato del lavoro (‘there is no alternative’ è lo slogan incessante); infine, apprendistato, tirocinii e didattica informatizzata a scuola fin dall’asilo, per nutrire l’industria globalizzata 4.0.

Lo slittamento dei saperi dalle ‘conoscenze’ (teoriche e pratiche, dichiarative e procedurali) alle ‘competenze’ (basiche, trasversali e generiche) imposto alla scuola italiana in forme sempre più prescrittive, non nasce dunque dalla ricerca pedagogica, ma da una precisa volontà d’adattamento dello studente, poi lavoratore, alle esigenze del mondo produttivo, che ha trovato il suo strumento di applicazione nel Sistema Nazionale di Valutazione, l’Invalsi. I quadri di riferimento (framework) attraverso cui Invalsi opera sono europei, in un’ottica di ‘referenziazione’. Come spiega bene Renata Puleo nel suo ultimo libro[1], l’elenco dei descrittori delle certificazioni di competenze dei nostri studenti e dei rapporti di autovalutazione delle scuole (RAV) “confluiscono nelle definizioni contenute nel Quadro Europeo delle Qualifiche Professionali (EQF EU 2009), oggi tradotto, con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in Quadro Nazionale delle Qualifiche (QNQ 2018). A tali quadri si accompagnano le Raccomandazioni del Parlamento e del Consiglio europei”

Una sinistra degna di questo nome, tra le tante cose, dovrà, dopo il voto di maggio, riflettere criticamente sulle politiche europee dell’istruzione. Ma soprattutto - se non vogliamo definitivamente rinunciare ad un’idea di educazione come processo di soggettivazione, come occasione trasformativa, come opportunità di acquisizione della nostra, irrinunciabile dimensione umana e non, semplicemente, come strumento di adattamento acritico al lavoro e al mondo - dovrà cambiarle.

[1] Renata Puleo, Valutare senza Invalsi si può. Muri a secco e colate di cemento, Anicia, Roma, 2019, pp. 36-37

(15 aprile 2019)

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