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Son durate un batter di ciglia le buone intenzioni che
lenivano le polemiche del dopo voto in Turchia. Per due settimane i
rappresentanti dell’Akp, sconfitti, soprattutto a Istanbul e Ankara avevano
ripetuto il mantra di necessari riconteggi dei voti, di ricorsi peraltro
inoltrati dal partito alla Commissione elettorale. Poi d’incanto il 20 aprile
era giunto un discorso conciliatore di Erdoğan: “… E’ tempo di pensare al futuro della nazione, di raffreddare i bollori
elettorali, di stringerci le mani e collaborare sui temi dell’economia e
sicurezza” dichiarava il presidentissimo. “Abbiamo completato una maratona elettorale, le consultazioni si sono
svolte nello spirito della democrazia e della legge. Ci sono state discussioni
politiche, ma queste non gettano ombre sul funzionamento democratico”. Pur
riferendosi ai ricorsi, evidenziava la necessità di rimettersi alle decisioni
supreme, come a voler parlare all’intera classe politica volta agli interessi
del popolo rispetto a quelli di parte. Faceva intendere che l’intero
establishment ha di fronte quattro anni sino alla prossima scadenza elettorale,
dovrà utilizzarli per la stabilità nazionale. Il fulcro della ricetta dettata è
esplicito: per eliminare il terrorismo e rilanciare una crescita economica
servono i segmenti di tutta la società, perciò gli addetti ai lavori devono
occuparsi degli 82 milioni di turchi, superando le differenze pur esistenti. “Vista la campagna della stampa occidentale
contro la nostra economia, qualunque siano i titoli dei giornali noi continueremo
il nostro percorso”. In coda all’intervento attaccava il Financial Times, reo di giudicare
l’economia turca collassata. “Hey, sei a conoscenza che la Turchia ospita
quattro milioni di siriani?” chiedeva alla prestigiosa testata con la
spocchia di chi si sente al sicuro. Questo il recentissimo Erdoğan-pensiero. Ai
vertici del Chp non pareva vero. Sostenitori, come si dichiarano, del bisogno di
accantonare polemiche e soprattutto vincitori delle amministrative erano lieti
della distensione.
Non avevano fatto i conti con la base dura e pura dell’Akp. Così
quando il 21 aprile il leader Kılıçdaroğlu s’è recato in un momento caldo, in una
zona ancora più calda (Çubuk nel distretto della capitale), è stato preso a
pugni da un gruppo di uomini. Erano i
partecipanti al funerale d’un soldato morto nei giorni precedenti sul
confine iracheno, durante un conflitto a fuoco con guerriglieri del Pkk. Il
leader repubblicano scosso è stato portato via dalle guardie del corpo che
l’hanno tenuto in una casa nelle vicinanze, dove comunque la folla s’è radunata
minacciosa. Per sbrogliare la situazione sono giunti reparti di polizia e
squadre speciali. Il ministro dell’Interno dell’attuale governo (Akp più Mhp)
Soylu e anche altri esponenti della maggioranza si sono immediatamente attivati
per tamponare e giustificare il buco della sicurezza che riportava alla mente
le scazzottate istituzionali avvenute nell’aula parlamentare durante le
accesissime sedute per l’approvazione della riforma costituzionale che ha
trasformato la Turchia in Repubblica presidenziale, con gli attuali superpoteri
al presidente. Allora a darsele erano focosi onorevoli (dell’Akp e del Chp).
Stavolta il mite Kılıçdaroğlu risulta bersaglio, mentre fra gli aggressori,
inizialmente indicati quali familiari e amici della vittima, c’è un leader
locale dell’Akp. La faccenda ha messo imbarazzo al partito di governo che ha repentinamente
riunito i probiviri annunciando l’espulsione di quell’elemento, visto che lo
statuto Akp bandisce ogni violenza pubblica e privata. Ma è bastata la giornata
di ieri a rinfocolare accese dichiarazioni dei vertici dei due partiti. Il
segretario repubblicano afferma: l’aggressione non è stata casuale, bensì pianificata.
Il ministro dell’Interno rinfaccia a Kılıçdaroğlu un intento provocatorio: in
campagna elettorale in varie località aveva accettato sostegno e voto degli
attivisti del Partito democratico dei popoli, considerati dal governo
fiancheggiatore del Pkk. Dunque, in cinque giorni, il Paese si ritrova a
fronteggiarsi e la volontà di collaborare appare già archiviata.
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