Acea
ha inaugurato il primo “potabilizzatore” del Tevere con una procedura
tanto rapida quanto ambigua. Intanto milioni di litri di acqua di
sorgente si perdono lungo la rete idrica. Per chiarire i punti critici
di quest’ultima opera di Acea, e mettere azienda e amministrazioni
pubbliche davanti alle loro responsabilità nella gestione di una risorsa
scarsa e preziosa come l’acqua potabile, il Coordinamento Romano Acqua
Pubblica invita tutte e tutti alla riunione tematica “Il Tevere non ce
lo beviamo!” il 7 maggio a Scup
In quanti sanno che a dicembre scorso Acea ha inaugurato in gran segreto il potabilizzatore dell’acqua del Tevere?
Un impianto da milioni di euro (7,5 secondo l’azienda, 12 secondo altre
fonti) che preleverà l’acqua del Tevere in zona Fidene-Castel Giubileo,
subito a valle del depuratore di Roma-Nord che fu sequestrato nel 2011 a
causa di gravi sversamenti nel Tevere di fanghi non depurati.
L’impianto, una volta in funzione, immetterà nella rete potabile di Roma
500/lt al secondo di acqua del “Tevere da bere”.
Secondo Acea si tratta di una riserva “emergenziale”, proprio come lo era il Lago di Bracciano, che però è diventato una fonte strutturale, finché all’azienda non è stato imposto lo stop ai prelievi a causa del grave abbassamento del livello del lago. Come strutturali sono ormai da anni le perdite sulla rete idrica di AceaAto2, la controllata di Acea che distribuisce l’acqua a Roma e provincia: 38% nella capitale (percentuale festeggiata da Acea come una vittoria), ben più alte in altri comuni della provincia. In pratica Acea ha investito in un’opera che preleverà 500lt/sec di acqua sporca da trattare, quando sulla rete si perdono circa 9000 lt/sec di acqua quasi interamente proveniente da sorgenti.
Questa è infatti una delle differenze tra Roma e le molte città di tutto il mondo in cui da anni si usa l’acqua dei fiumi a fini potabili: Roma, non a caso città degli acquedotti famosi in tutto il mondo, è una delle pochissime grandi città a poter bere acqua di sorgente. Ma non per sempre, come ha ben evidenziato la “crisi idrica” dell’estate 2017: le portate delle sorgenti che alimentano Roma rischiano di ridursi, come già avvenuto, in periodi di prolungata siccità.
Ciò ha due effetti negativi: una minore disponibilità idrica ad uso umano, e una minore disponibilità per l’ambiente, non a caso diversi fiumi alimentati dalle sorgenti captate da Acea stanno vedendo il loro flusso ridursi drasticamente, soprattutto nella stagione estiva, con tutti i danni che ne conseguono agli ecosistemi e alle attività locali. Non che questo secondo effetto sembri preoccupare molto l’azienda, che nell’ultimo rapporto di sostenibilità ambientale scrive: «pur nella evidenza delle ragioni di ordine ambientale che giustificherebbero interventi di riduzione degli attuali livelli di perdite qualunque sia il costo da pagare, l’approccio ingegneristico orientato al massimo contenimento degli sprechi senza se e senza ma non è condiviso perché irragionevole (…) è invece ritenuto necessario stabilire fino a che punto conviene ridurre i livelli delle perdite, cercando una risposta che, è bene sottolinearlo, non è un valore a caso ma è il frutto di un’analisi approfondita dei costi e dei benefici».
Nelle domande che, come attivisti critici, abbiamo posto all’ultima assemblea dei soci di Acea, abbiamo chiesto proprio se fosse stata fatta questa analisi costi-benefici e a quale percentuale di perdita “ragionevole” avesse condotto. L’ad Donnarumma ha risposto stizzito senza rispondere nulla, come al resto delle domande da noi poste anche in forma scritta. È possibile fosse nervoso per la sua condizione di indagato per corruzione o perché la stessa assemblea dei soci è stata l’occasione per sostituire un altro membro del consiglio di amministrazione di Acea arrestato nell’ambito dell’inchiesta sullo stadio della Roma, l’ex presidente Luca Lanzalone. È chiaro come i vertici dell’azienda siano presi da problemi ben più seri della questione ambientale o dello stato della rete idrica capitolina.
Ma in realtà la vicenda del potabilizzatore del Tevere presenta anche una serie di “interessanti” questioni procedurali, che citiamo solo in parte. Innanzitutto un’opera così delicata è stata approvata e realizzata con una procedura lampo: approvato in via preliminare a dicembre 2017 è stato inaugurato, da pochi intimi, 12 mesi dopo.
127 giorni è durato l’iter del progetto, dopo un’istruttoria di soli 50 giorni, a fronte di tempi medi di oltre due anni. Sette giorni sono bastati per il 1° ok dei sindaci al progetto, 97 giorni per assegnare l’appalto. Potrebbe essere solo efficienza, se non vi fossero una serie di aspetti inquietanti. Ad esempio il verbale dell’approvazione da parte dei sindaci dell’Ato2 (112 comuni dell’area metropolitana), risulta essere l’unico nella “storia” delle conferenze dei sindaci dell’Ato2 in cui manca la conta dei sindaci votanti e l’elenco dei voti favorevoli e contrari: nel verbale di seduta si parla di 39 Comuni presenti, ma poi i conti non tornano visto che al momento del voto 35 di loro hanno votato a favore del potabilizzatore e tre contro, per un totale di 38 comuni. Il numero minimo di presenze per la validità del voto dell’assemblea in seconda convocazione era pari a 37 comuni.
Una procedura quanto meno sbrigativa, che però ha permesso ad Acea di chiudere le procedure di affidamento lavori già a marzo 2018, prima ancora che si concludesse la Conferenza dei servizi e prima che le Autorità pubbliche avessero completato il vaglio del progetto.
Mentre il progetto cavalcava verso la sua rapida approvazione, un altro ingombrante ostacolo è stato rimosso. La legge regionale n. 42 e il Piano di Tutela delle Acque del Lazio stabiliscono che “sono vietati gli scarichi di acque reflue industriali in acque superficiali utilizzate o destinate ad essere utilizzate per la produzione di acqua potabile […] gli scarichi in essere dovranno essere condottati a valle dell’opera di presa”; operazione impossibile nel caso del Tevere, visto che il “potabilizzatore” pesca nel fiume dopo che questo ha percorso quasi 400 km in zone anche altamente antropizzate.
Poco prima di Natale 2018 la “Commissione regionale agricoltura e ambiente” ha però varato due piccole modifiche del “Piano di tutela delle acque del Lazio”, poi votate dall’intero consiglio. La “nuova” versione prevede che tale divieto si continuerà ad applicare solo nelle “zone di influenza”, che saranno di volta in volta individuate con apposita deliberazione della giunta regionale. Una postilla di legge che sembra fatta apposta per far entrare in funzione il potabilizzatore dell’acqua del Tevere di Acea, che altrimenti sarebbe stato fuori dalla legge regionale, ma che apre la strada anche ad altre opere simili. Sulle due modifiche, la seconda riguardante i controlli sulla qualità delle acque in uscita dai depuratori (ricordiamo la vicinanza con il famoso depuratore di Roma Nord), ha fatto ricorso la città metropolitana di Roma.
Ce n’è abbastanza per essere quanto meno allarmati dato che, se è vero che l’acqua di un fiume può essere resa potabile (anche se, nel caso del Tevere, non è stata fatta la necessaria “caratterizzazione” delle acque) è altrettanto vero che tutto ciò che riguarda un’opera simile deve essere fatto con la massima attenzione, dalla progettazione, alla realizzazione, ai controlli e manutenzione.
Ma se anche tutto fosse stato fatto a regola d’arte, se anche Acea per miracolo si dimostrasse “la regina della manutenzione”, investendo milioni di euro all’anno per mantenere in ottimo stato un impianto che intende usare “solo in caso emergenziale”, rimane una gigantesca domanda: quando l’azienda deciderà di entrare nel futuro, investendo i nostri soldi in opere utili di risparmio idrico, come la riduzione delle perdite o l’introduzione di sistemi duali che permettano, ad esempio, di non sprecare l’acqua potabile per innaffiare i giardini comunali?
Come attivisti dell’acqua intendiamo cogliere questa occasione, costruendo una campagna che punti a chiarire i tanti aspetti ambigui dell’operazione potabilizzatore, che metta l’azienda davanti alle proprie responsabilità di gestore di una risorsa preziosa e sempre più scarsa come l’acqua potabile e che faccia uscire le amministrazioni comunali e regionale dal ruolo di subalternità agli interessi privati. Per iniziare a farlo vi aspettiamo martedì 7 maggio alle 18.30 a Scup.
L’autrice fa parte del Coordinamento romano acqua pubblica
Alcune informazioni contenute nell’articolo sono estratte dalle inchieste pubblicate su “Il Caffè di Roma”
Secondo Acea si tratta di una riserva “emergenziale”, proprio come lo era il Lago di Bracciano, che però è diventato una fonte strutturale, finché all’azienda non è stato imposto lo stop ai prelievi a causa del grave abbassamento del livello del lago. Come strutturali sono ormai da anni le perdite sulla rete idrica di AceaAto2, la controllata di Acea che distribuisce l’acqua a Roma e provincia: 38% nella capitale (percentuale festeggiata da Acea come una vittoria), ben più alte in altri comuni della provincia. In pratica Acea ha investito in un’opera che preleverà 500lt/sec di acqua sporca da trattare, quando sulla rete si perdono circa 9000 lt/sec di acqua quasi interamente proveniente da sorgenti.
Questa è infatti una delle differenze tra Roma e le molte città di tutto il mondo in cui da anni si usa l’acqua dei fiumi a fini potabili: Roma, non a caso città degli acquedotti famosi in tutto il mondo, è una delle pochissime grandi città a poter bere acqua di sorgente. Ma non per sempre, come ha ben evidenziato la “crisi idrica” dell’estate 2017: le portate delle sorgenti che alimentano Roma rischiano di ridursi, come già avvenuto, in periodi di prolungata siccità.
Ciò ha due effetti negativi: una minore disponibilità idrica ad uso umano, e una minore disponibilità per l’ambiente, non a caso diversi fiumi alimentati dalle sorgenti captate da Acea stanno vedendo il loro flusso ridursi drasticamente, soprattutto nella stagione estiva, con tutti i danni che ne conseguono agli ecosistemi e alle attività locali. Non che questo secondo effetto sembri preoccupare molto l’azienda, che nell’ultimo rapporto di sostenibilità ambientale scrive: «pur nella evidenza delle ragioni di ordine ambientale che giustificherebbero interventi di riduzione degli attuali livelli di perdite qualunque sia il costo da pagare, l’approccio ingegneristico orientato al massimo contenimento degli sprechi senza se e senza ma non è condiviso perché irragionevole (…) è invece ritenuto necessario stabilire fino a che punto conviene ridurre i livelli delle perdite, cercando una risposta che, è bene sottolinearlo, non è un valore a caso ma è il frutto di un’analisi approfondita dei costi e dei benefici».
Nelle domande che, come attivisti critici, abbiamo posto all’ultima assemblea dei soci di Acea, abbiamo chiesto proprio se fosse stata fatta questa analisi costi-benefici e a quale percentuale di perdita “ragionevole” avesse condotto. L’ad Donnarumma ha risposto stizzito senza rispondere nulla, come al resto delle domande da noi poste anche in forma scritta. È possibile fosse nervoso per la sua condizione di indagato per corruzione o perché la stessa assemblea dei soci è stata l’occasione per sostituire un altro membro del consiglio di amministrazione di Acea arrestato nell’ambito dell’inchiesta sullo stadio della Roma, l’ex presidente Luca Lanzalone. È chiaro come i vertici dell’azienda siano presi da problemi ben più seri della questione ambientale o dello stato della rete idrica capitolina.
Ma in realtà la vicenda del potabilizzatore del Tevere presenta anche una serie di “interessanti” questioni procedurali, che citiamo solo in parte. Innanzitutto un’opera così delicata è stata approvata e realizzata con una procedura lampo: approvato in via preliminare a dicembre 2017 è stato inaugurato, da pochi intimi, 12 mesi dopo.
127 giorni è durato l’iter del progetto, dopo un’istruttoria di soli 50 giorni, a fronte di tempi medi di oltre due anni. Sette giorni sono bastati per il 1° ok dei sindaci al progetto, 97 giorni per assegnare l’appalto. Potrebbe essere solo efficienza, se non vi fossero una serie di aspetti inquietanti. Ad esempio il verbale dell’approvazione da parte dei sindaci dell’Ato2 (112 comuni dell’area metropolitana), risulta essere l’unico nella “storia” delle conferenze dei sindaci dell’Ato2 in cui manca la conta dei sindaci votanti e l’elenco dei voti favorevoli e contrari: nel verbale di seduta si parla di 39 Comuni presenti, ma poi i conti non tornano visto che al momento del voto 35 di loro hanno votato a favore del potabilizzatore e tre contro, per un totale di 38 comuni. Il numero minimo di presenze per la validità del voto dell’assemblea in seconda convocazione era pari a 37 comuni.
Una procedura quanto meno sbrigativa, che però ha permesso ad Acea di chiudere le procedure di affidamento lavori già a marzo 2018, prima ancora che si concludesse la Conferenza dei servizi e prima che le Autorità pubbliche avessero completato il vaglio del progetto.
Mentre il progetto cavalcava verso la sua rapida approvazione, un altro ingombrante ostacolo è stato rimosso. La legge regionale n. 42 e il Piano di Tutela delle Acque del Lazio stabiliscono che “sono vietati gli scarichi di acque reflue industriali in acque superficiali utilizzate o destinate ad essere utilizzate per la produzione di acqua potabile […] gli scarichi in essere dovranno essere condottati a valle dell’opera di presa”; operazione impossibile nel caso del Tevere, visto che il “potabilizzatore” pesca nel fiume dopo che questo ha percorso quasi 400 km in zone anche altamente antropizzate.
Poco prima di Natale 2018 la “Commissione regionale agricoltura e ambiente” ha però varato due piccole modifiche del “Piano di tutela delle acque del Lazio”, poi votate dall’intero consiglio. La “nuova” versione prevede che tale divieto si continuerà ad applicare solo nelle “zone di influenza”, che saranno di volta in volta individuate con apposita deliberazione della giunta regionale. Una postilla di legge che sembra fatta apposta per far entrare in funzione il potabilizzatore dell’acqua del Tevere di Acea, che altrimenti sarebbe stato fuori dalla legge regionale, ma che apre la strada anche ad altre opere simili. Sulle due modifiche, la seconda riguardante i controlli sulla qualità delle acque in uscita dai depuratori (ricordiamo la vicinanza con il famoso depuratore di Roma Nord), ha fatto ricorso la città metropolitana di Roma.
Ce n’è abbastanza per essere quanto meno allarmati dato che, se è vero che l’acqua di un fiume può essere resa potabile (anche se, nel caso del Tevere, non è stata fatta la necessaria “caratterizzazione” delle acque) è altrettanto vero che tutto ciò che riguarda un’opera simile deve essere fatto con la massima attenzione, dalla progettazione, alla realizzazione, ai controlli e manutenzione.
Ma se anche tutto fosse stato fatto a regola d’arte, se anche Acea per miracolo si dimostrasse “la regina della manutenzione”, investendo milioni di euro all’anno per mantenere in ottimo stato un impianto che intende usare “solo in caso emergenziale”, rimane una gigantesca domanda: quando l’azienda deciderà di entrare nel futuro, investendo i nostri soldi in opere utili di risparmio idrico, come la riduzione delle perdite o l’introduzione di sistemi duali che permettano, ad esempio, di non sprecare l’acqua potabile per innaffiare i giardini comunali?
Come attivisti dell’acqua intendiamo cogliere questa occasione, costruendo una campagna che punti a chiarire i tanti aspetti ambigui dell’operazione potabilizzatore, che metta l’azienda davanti alle proprie responsabilità di gestore di una risorsa preziosa e sempre più scarsa come l’acqua potabile e che faccia uscire le amministrazioni comunali e regionale dal ruolo di subalternità agli interessi privati. Per iniziare a farlo vi aspettiamo martedì 7 maggio alle 18.30 a Scup.
L’autrice fa parte del Coordinamento romano acqua pubblica
Alcune informazioni contenute nell’articolo sono estratte dalle inchieste pubblicate su “Il Caffè di Roma”
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