contropiano
Il
governo dello Sri Lanka punta l’indice sull’estremismo islamico mentre
continua a salire il bilancio delle vittime della Pasqua di sangue.
Il giorno dopo la strage che ha stravolto lo Sri Lanka – oggi nel Paese
è lutto nazionale – è infatti la pista islamica quella che sembra
essere nelle corde del governo e della maggior parte di commentatori,
analisti e di pezzi da novanta come il segretario di Stato americano
Pompeo che promette guerra al terrore. Mentre il lunedi si chiude con
coprifuoco e stato di emergenza – che consegna il controllo della
sicurezza al presidente – e mentre la giornata sconta l’ennesima bomba
vicino alla chiesa di Sant’Antonio a Colombo (dove resta lievemente
ferito l’inviato di Repubblica, Raimondo Bultrini) si fanno i conti
della Pasqua di fuoco: quando l’esplosione quasi simultanea di autobombe
e kamikaze ha colpito quattro alberghi di lusso della capitale e tre
chiese a Colombo, Negombo (poco più a Nord) e Batticaloa nell’Est.
Il
bilancio cresce di ora in ora e ormai supera quota 300 morti. Diverse
centinaia i feriti. In assenza di rivendicazioni, l’indice è puntato su
un gruppo radicale locale, la National Thowheed Jamath,
un’associazione minore estremista e nota al più per atti vandalici non a
caso contro obiettivi buddisti (le due comunità si sono spesso
scontrate con gravi incidenti come nel marzo scorso). Il ministro della
sanità Rajitha Senaratne ha confermato ieri che i sette kamikaze
apparterrebbero a questo gruppo anche se è difficile capire dal corpo
martoriato di un attentatore la sua provenienza. Sono presumibilmente di
questo gruppo anche gli arrestati che già in parte domenica sera erano
stati ammanettati dalla polizia. Senaratne è andato oltre, accusando il
presidente Sirisena (nell’immagine sopra) di non aver dato credito – e
di aver nascosto al premier Wickremesinghe – le allerta dei giorni
scorsi. Sirisena, presidente dal gennaio 2015, è anche a capo delle
forze di sicurezza e forse ha sottovalutato l’allarme. Ma la vicenda
riporta allo scontro interno alla politica locale tra presidenza e
parlamento, tra Sirisena e Wikremesinghe. Forse è da qui che si può
partire per disegnare almeno il contesto in cui le stragi sono avvenute e
prima di avventurarsi nell’indicare questa o quella pista.
Il quadro politico locale
Maithripala
Sirisena si presenta come l’uomo nuovo della politica srilankese quando
a sorpresa si candida contro Mahinda Rajapaksa, il padre
padrone del Paese. Rajapaksa (nell’immagine a sn) è l’uomo che ha
represso le rivendicazioni tamil nel Nord e distrutto – con stragi che
non risparmiano civili – la struttura delle Tigri tamil, gruppo
secessionista autore di numerosi attentati terroristici (i primi, dopo i
giapponesi, a utilizzare kamikaze). Rajapaksa è accusato di essere un
autocrate che, circondato da fratelli e parenti, ha garantito un piccolo
miracolo economico ma “venduto” il Paese alla Cina. Alla fine del voto,
il dittatore – che ha perso nelle urne – tenta un golpe che fallisce in
poche ore. Sirisena sale sullo scranno applaudito dal popolino e
benedetto dalle ambasciate di Delhi e Washington. Ma qualche anno dopo,
nell’ottobre scorso, sconfessa – sorprendentemente – il premier
Wickremesinghe e al suo posto insedia proprio l’ex nemico. C’è un
braccio di ferro, qualche scontro e qualche vittima. Poi la Corte
suprema delegittima l’azione del presidente e Wikremashinghe torna in
sella. Il tutto ha un sapore oscuro, con un balletto bizzarro di
personaggi e una crisi – che come dimostrano queste ore – perdura.
La guerra secessionista tamil
Sulla
sfondo resta il retaggio di una guerra durata quasi trent’anni e
conclusasi non solo con la scomparsa delle Tigri ma con l’accaparramento
delle terra tamil
(induisti e cristiani) da parte di singalesi buddisti, per lo più
militari. Sirisena ha promesso la riconciliazione ma i crimini di
Rajapaksa e dell’esercito restano impuntiti. La ricorrenza dei dieci
anni dal 2009 fa pensare a qualcuno che le Tigri o chi per loro siano di
nuovo in auge. Ma è una pista che ha poco fiato anche perché proprio
l’élite tamil è in buona parte cattolica. Utile ricordare che il papa,
tre anni fa, andò a dir messa nelle zone tamil.
Intemperanze religiose
Il
terzo scenario riguarda la convivenza di 23 milioni tra buddisti (70%),
induisti (12,6%), musulmani (9,7%) e cristiani (7,6%).
Convivenza difficile: sia per i tamil del Nord (da secoli in Sri Lanka)
sia per i tamil del centro (importati dai coloni britannici per
coltivare il tè). Specie contro musulmani e cattolici si sviluppano, già
durante l’era Rajapaksa, organizzazioni buddiste identitarie violente.
Sirisena cerca di ridimensionarle ma non riesce a evitare pogrom,
violenze, vittime. Ricorrenti. Può essere una piccola banda radicale di
una piccola minoranza la protagonista di una strage perpetrata con
un’organizzazione perfetta e chili di esplosivo che, in un Paese
militarizzato come Sri Lanka, non è facile procurarsi? Sì, dice
qualcuno, se l’aiuto vien da fuori. Le indagini diranno. Metteranno
sotto torchio forse anche i buddisti.
Il quadro internazionale ed economico
C’è
infine un quarto scenario. I soldi. Colpire gli hotel 5 stelle fa paura
ai turisti ma anche ai businessman che li frequentano con carta di
credito aziendale.
Sri Lanka è un perno strategico sulla Via della seta marittima che
passa per il “Filo di perle” ideato dai propugnatori della One Road One
Belt. I cinesi hanno investito in telecomunicazioni, infrastrutture e
porti come la mega struttura portuale di Hambantota, fonte di polemiche
per la cosiddetta “debt trap” che ucciderebbe l’economia locale. Quel
progetto non piace a molti srilankesi (con Sirisena le joint venture con
Pechino subirono una battuta d’arresto) ma nemmeno all’India e agli
Stati Uniti che temono che Hambantota diventi un porto militare.
Sommergibili cinesi con testate nucleari hanno già incrociato nei porti
della “Lacrima dell’Oceano indiano”.
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