Secondo il rapporto
annuale della Commissione Europea, nel 2017 vivevano in un altro paese
membro circa 12,4 milioni di cittadini di uno stato UE in un’età
compresa tra i 20 e il 64 anni, il 4,1% di tutta la popolazione attiva
dell’Unione Europea. Una misura al ribasso perché non tiene conto dei
transfrontalieri dei lavoratori in distacco, ossia coloro che risultano
assunti in un paese ma lavorano in un altro.
Il movimento di cittadini europei si è intensificato soprattutto negli ultimi anni: secondo i dati statistici forniti dalla Commissione poco meno della metà del totale dei migranti si è trasferita negli scorsi 10 anni e il 20% negli ultimi due. Nel complesso le migrazioni intra-europee si caratterizzano per un’alta partecipazione al mercato del lavoro, infatti sia il tasso di attività che di occupazione è più alto rispetto a quello dei cittadini nativi. Nell’ultimo decennio le migrazioni interne sono diventate un fenomeno molto rilevante, paragonabile, seppur con molte discontinuità a quanto avvenne tra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni ’70.
Alcuni autori intravedevano nell’intensificazione degli spostamenti tra un paese e l’altro una significativa opportunità storica, tale processo avrebbe agevolato la formazione di una popolazione europea che, superati i sentimenti di appartenenza nazionale, fosse il fattore di legittimazione «dal basso» di un soggetto istituzionale e politico più unitario.
Tuttavia, nonostante i buoni auspici gli esiti sono stati ben diversi: all’aumento della mobilità interna ha corrisposto una fase regressiva della giurisdizione dell’Unione in tema di libera circolazione. A partire dal 2015 con la sentenza Dano è iniziata un nuovo corso interpretativo della Corte di Giustizia Europea che sulla base della Direttiva 38/2004 dell’Unione Europa ha rimesso in discussione il principio di parità tra tutti i cittadini degli stati membri. Infatti solo coloro che sono in grado di dimostrare di avere i mezzi sufficienti per vivere in un altro paese possono risiedere per un lungo periodo in un altro paese UE.
Una fase che alcuni studiosi hanno definito «reazionaria», perché presenta degli elementi in controtendenza rispetto all’orientamento precedente. Le caratteristiche della fase reazionaria sono principalmente due: la centralità della legislazione nazionale che determina le condizioni per usufruire dei diritti connessi con la cittadinanza europea e un ritorno alla cosiddetta «market citizen» con il rinforzamento del legame con il mercato del lavoro come requisito per poter godere della parità di trattamento.
La situazione attuale è in apparenza paradossale: in assenza di migrazioni vi era una legislazione favorevole, in presenza di notevoli movimenti interni le normative sono diventate enormemente restrittive. La leva da cui far passare le restrizioni alla parità di trattamento tra cittadini europei è stato l’accesso al welfare. Probabilmente il caso più noto è stata la Brexit, nel quale il presunto eccessivo peso dei cittadini dell’est Europa sul welfare è stato lo slogan politico per ottenere il successo nel referendum. Anche altri paesi, con meno clamore, hanno applicato pressoché i medesimi limiti, la Germania ad esempio concede la libertà di trattamento solo ai lavoratori e ai cittadini UE con più di 5 anni di residenza. La restrizione dei requisiti per l’accesso al welfare per i cittadini di un altro stato membro può essere considerata un tentativo da parte degli stati nazionali di assumere nuovamente i poteri di governo sulla mobilità interna all’Unione, non più in modo rigido come avveniva qualche decennio fa ma tramite lo strumento dell’accesso alle prestazioni sociali.
Le fasce più povere e precarie delle nuove migrazioni interne all’Unione Europea ne subiscano le peggiori conseguenze. La convergenza tra la nuova fase della libera circolazione, l’intensificazione del welfare orientate al lavoro e ampliamento delle fasce precarie del lavoro ha come risultato una maggiore pressione sui migranti affinché accettino condizioni lavorative caratterizzate da bassi salari e da contratti precari.
Le migrazioni interne all’Unione Europea sono un argomento assente dal dibattito elettorale europeo, sebbene dal punto di vista quantitativo sono sempre più frequenti. Al tempo stesso sono diventate decisive nella contesa politica nazionale per richiedere forme di chiusura e di protezione. I confini interni ritornano sotto la veste di una supposta difesa del welfare per i soli cittadini nativi, tuttavia il sistema sociale che si difende è molto lontano da quello conquistato nel ‘900.
Lo scontro si gioca sul terreno di un welfare completamento ridefinito sia in senso restrittivo con il taglio ai finanziamenti sia con politiche di conversione verso misure di stampo workfaristico. I partiti della destra nazionalista e xenofoba agitano la paura della sottrazione del welfare residuale come fattore per il respingimento dei cittadini degli altri paesi membri. Oggi più che mai è decisivo sottrarre il tema della libera circolazione alle campagne elettorali dei singoli stati, ciò significa cominciare subito a parlare di un welfare europeo senza limiti basati sulla cittadinanza di origine e immediatamente sganciato dalla costrizione alla ricerca di lavoro.
Il movimento di cittadini europei si è intensificato soprattutto negli ultimi anni: secondo i dati statistici forniti dalla Commissione poco meno della metà del totale dei migranti si è trasferita negli scorsi 10 anni e il 20% negli ultimi due. Nel complesso le migrazioni intra-europee si caratterizzano per un’alta partecipazione al mercato del lavoro, infatti sia il tasso di attività che di occupazione è più alto rispetto a quello dei cittadini nativi. Nell’ultimo decennio le migrazioni interne sono diventate un fenomeno molto rilevante, paragonabile, seppur con molte discontinuità a quanto avvenne tra la fine della seconda guerra mondiale e la metà degli anni ’70.
L’aumento della mobilità interna è stato uno dei principali obiettivi perseguiti delle istituzioni Europee negli ultimi decenni, il fine era quello di favorire una migliore allocazione delle risorse umane nel mercato del lavoro continentale.
Alcuni autori intravedevano nell’intensificazione degli spostamenti tra un paese e l’altro una significativa opportunità storica, tale processo avrebbe agevolato la formazione di una popolazione europea che, superati i sentimenti di appartenenza nazionale, fosse il fattore di legittimazione «dal basso» di un soggetto istituzionale e politico più unitario.
Tuttavia, nonostante i buoni auspici gli esiti sono stati ben diversi: all’aumento della mobilità interna ha corrisposto una fase regressiva della giurisdizione dell’Unione in tema di libera circolazione. A partire dal 2015 con la sentenza Dano è iniziata un nuovo corso interpretativo della Corte di Giustizia Europea che sulla base della Direttiva 38/2004 dell’Unione Europa ha rimesso in discussione il principio di parità tra tutti i cittadini degli stati membri. Infatti solo coloro che sono in grado di dimostrare di avere i mezzi sufficienti per vivere in un altro paese possono risiedere per un lungo periodo in un altro paese UE.
Una fase che alcuni studiosi hanno definito «reazionaria», perché presenta degli elementi in controtendenza rispetto all’orientamento precedente. Le caratteristiche della fase reazionaria sono principalmente due: la centralità della legislazione nazionale che determina le condizioni per usufruire dei diritti connessi con la cittadinanza europea e un ritorno alla cosiddetta «market citizen» con il rinforzamento del legame con il mercato del lavoro come requisito per poter godere della parità di trattamento.
La situazione attuale è in apparenza paradossale: in assenza di migrazioni vi era una legislazione favorevole, in presenza di notevoli movimenti interni le normative sono diventate enormemente restrittive. La leva da cui far passare le restrizioni alla parità di trattamento tra cittadini europei è stato l’accesso al welfare. Probabilmente il caso più noto è stata la Brexit, nel quale il presunto eccessivo peso dei cittadini dell’est Europa sul welfare è stato lo slogan politico per ottenere il successo nel referendum. Anche altri paesi, con meno clamore, hanno applicato pressoché i medesimi limiti, la Germania ad esempio concede la libertà di trattamento solo ai lavoratori e ai cittadini UE con più di 5 anni di residenza. La restrizione dei requisiti per l’accesso al welfare per i cittadini di un altro stato membro può essere considerata un tentativo da parte degli stati nazionali di assumere nuovamente i poteri di governo sulla mobilità interna all’Unione, non più in modo rigido come avveniva qualche decennio fa ma tramite lo strumento dell’accesso alle prestazioni sociali.
L’obiettivo è selezionare i migranti in ingresso: da una parte ostacolando la permanenza per chi potrebbe usufruire dei sussidi; dall’altra costringendo i più poveri ad entrare immediatamente nel mercato del lavoro a qualsiasi condizione.
Le fasce più povere e precarie delle nuove migrazioni interne all’Unione Europea ne subiscano le peggiori conseguenze. La convergenza tra la nuova fase della libera circolazione, l’intensificazione del welfare orientate al lavoro e ampliamento delle fasce precarie del lavoro ha come risultato una maggiore pressione sui migranti affinché accettino condizioni lavorative caratterizzate da bassi salari e da contratti precari.
Le migrazioni interne all’Unione Europea sono un argomento assente dal dibattito elettorale europeo, sebbene dal punto di vista quantitativo sono sempre più frequenti. Al tempo stesso sono diventate decisive nella contesa politica nazionale per richiedere forme di chiusura e di protezione. I confini interni ritornano sotto la veste di una supposta difesa del welfare per i soli cittadini nativi, tuttavia il sistema sociale che si difende è molto lontano da quello conquistato nel ‘900.
Lo scontro si gioca sul terreno di un welfare completamento ridefinito sia in senso restrittivo con il taglio ai finanziamenti sia con politiche di conversione verso misure di stampo workfaristico. I partiti della destra nazionalista e xenofoba agitano la paura della sottrazione del welfare residuale come fattore per il respingimento dei cittadini degli altri paesi membri. Oggi più che mai è decisivo sottrarre il tema della libera circolazione alle campagne elettorali dei singoli stati, ciò significa cominciare subito a parlare di un welfare europeo senza limiti basati sulla cittadinanza di origine e immediatamente sganciato dalla costrizione alla ricerca di lavoro.
Nessun commento:
Posta un commento