contropiano
Con la presentazione di “Liberi e uguali”, con un altro leader preso dall’antimafia, si completa il quadro dell’”offerta politica” di regime.
Per spiegare bene questa definizione conviene soffermarsi un attimo sulla descrizione puntuale di questo quadro.
Fin qui il pilastro del sistema partitico italiano è stato il Pd,
che con l’ascesa di Matteo Renzi sembrava in grado di monopolizzare o
quasi il consenso, tenendo insieme parte dei ceti popolari storicamente
impiccati alla rappresentazione della “sinistra” socialdemocratica di provenienza Pci diventata nel tempo il nerbo dell’establishment liberista italiano; con la benedizione e la direzione discreta dell’Unione Europea.
Tutto
appariva curato con estrema attenzione: a) un leader giovane e
spiazzante, abile nel “rottamare” velocemente un quadro dirigente inchiodato ad antiche guerre tra clan, usurato da sconfitte clamorose e vittorie dimezzate; b) un’immagine di conseguenza “giovane”, efficientista, iper-modernista, social, post-ideologica, europeista e ultraliberista, ma con su stampigliato
il marchio “di sinistra”; c) un’insieme di “riforme” sociali e
istituzionali scritte a Bruxelles e imposte con la forza di un
caterpillar a un Parlamento di nominati ansiosi solo di completare la
legislatura; d) sindacati complici e totalmente immobili davanti alla
demolizione del sistema dei diritti su cui avevano fondato la propria
legittimità.
In
effetti il capitale multinazionale europeo e quel che resta
dell’imprenditoria “nazionale” non potevano sperare di meglio. Negli
anni di Renzi – così come era in parte avvenuto in quelli di Prodi e D’Alema – sono passate senza colpo ferire “riforme” che non erano riusciti a far approvatre dai
governi Berlusconi (dall’abolizione dell’art. 18 alla precarizzazione
totale dei contratti di lavoro, fino al limite dell’eliminazione del
diritto di sciopero).
Poi
il contafrottole di Rignano ha voluto esagerare, mostrando ansie di
monopolio del potere che difficilmente – in un paese frammentato anche a
livello di “classi dirigenti” – possono essere vincenti. Soprattutto, il programma di “riforme” suggeritogli dalla Ue ha
impoverito e scombussolato molto rapidamente una quota rilevante di
popolazione, in età di lavoro e non, che gli si è rivoltata
progressivamente contro. Fino ad esplodere in un “NO” liberatorio al
referendum costituzionale dello scorso anno, segnando l’inizio della sua rapidissima parabola discendente.
Il
redivivo Berlusconi deve la sua nuova centralità proprio al fallimento
dell’allievo più giovane (e squattrinato, al confronto). Forza Italia
è stata salvata dalla messa in liquidazione per l’evidente
improponibilità come alternative di governo delle due altre “forze” di
destra (Meloni e Salvini). La prima incapace di uscire dal solco del
neofascismo ripulito un po’ troppo ruspante, l’altro impossibilitato
a proporsi come forza “nazionale”, nonostante tutti gli sforzi fatti –
dal sistema mediatico – per sollevarlo dall’eredità nordista, razzista,
antimeridionale.
L’estrema
destra, da CasaPound in giù, è solo uno fantoccio gonfiato a stagioni
alterne per spaventare i “democratici perbene”. Se si pensa a quanti
giornalisti di obbedienza “democratica” (in senso renziano) si son dati
da fare per sdoganare qualche squadraccia contigua alla malavita più o
meno organizzata (Ostia è solo uno degli esempi possibili) si vede
chiaramente un disegno unitario: il “disagio sociale” deve avere quelle fattezze, di modo che lo si possa esorcizzare come “pericolo”, ma mai riconoscerlo come problema da risolvere. Il neofascismo, solito servo ottuso del capitale, assume senza sforzo questa funzione ancillare e rassicurante il potere.
Il
Movimento 5 Stelle – utilissimo nello smantellamento del vecchio
sistema partitico – si è rivelato però inattendibile alla prova del
governo. Dunque, nonostante la virata centrista e neoliberista imposta
dalla scelta di Luigi Di Maio come temporaneo “leader” pubblico, non ha
struttura e qualità per diventare forza di governo. Tanto più che la sua
unica prova di credibilità popolare sta nel non allearsi con
nessun’altra forza. Il giorno che dovesse piegarsi a un governo di
coalizione, anche in posizione egemonica, romperebbe la muraglia che
l’ha fin qui tenuto al riparo del “rancore popolare” nei confronti della
“politica”, sapientemente costruita come l’unico problema di questo
paese in crisi. Uno strumento inservibile, insomma, sia per gestire
l’ordine economico-sociale attuale, sia per cambiarne i connotati fondamentali (non ha e non ha mai avuto un “programma” per rappresentare interessi sociali precisi).
Mancava una struttura politica in grado di riportare all’ovile dell’establishment quel poco o tanto di disagio sociale o idealità progressista che ancora è presente in larghe fette della società italiana, svuotando i possibili bacini elettorali di formazioni “a sinistra”. A questo – e a nient’altro – serve la formazione che sbandiera Pietro Grasso come “candidato premier”. A blindare il sistema politico intorno all'”europeismo” servile.
Il
quadro delle “alternative” sullo scaffale della politica parlamentare è
dunque ora completo. Noi notiamo che tutte queste diverse etichette
sono apposte su scatole di forma differente, ma di identico contenuto. E ciò che le rende sostanzialmente uguali è proprio ciò di cui non parlano: il
recinto delle decisioni da prendere, chiunque componga il prossimo
governo italiano, è rigidamente fissato dagli organismo sovranazionali, a
cominciare dall’Unione Europea.
Di
questo, sono tutti consapevoli; anche perché sia Moscovici che
Dombrovskis – commissario europeo all’economia e vicepresidente della
Commissione – oltre a Jirky Katainen (neopresidente dell’Eurogruppo)
hanno spiegato per giorni che la legge di stabilità del governo
Gentiloni, pur non rispettando integralmente gli impegni fissati
nei trattati, è stata lasciata passare per evitare di alimentare i
sentimenti “euroscettici” nella popolazione. Ma a maggio, hanno
promesso, calerà la mannaia sui conti pubblici per cominciare a ridurre
il debito pubblico (dal 133 al 60%, in venti anni) come previsto dal
Fiscal Compact.
Il
problema è che “l’offerta politica” non vede presente nessuna forza che
si preoccupi minimamente di contrastare le istituzioni sovranazionali.
Anche chi ci aveva costruito una fetta di consenso (grillini, leghisti,
fascisti in genere – ripuliti o meno) ha da tempo accantonato ogni
critica all’euro o alle regole di Bruxelles. Non a caso i “più estremisti” cercano
di acchiappare voti agitando lo spettro dell’”invasione
extracomunitaria”. Un terreno su cui, peraltro, un ministro come Minniti
si mostra assai più radicale e spietato.
L’offerta
politica si presenta perciò priva di differenze rilevanti, sul piano
ideale e programmatico. E allora le idee o i programmi finiscono
sullo sfondo, coperti da un po’ di artifici retorici e soprattutto
dalle facce. Renzi, Grasso, Berlusconi, Di Maio, Salvini e Meloni sono puri nomi che dovrebbero far “identificare” gli elettori con qualcosa che non si può neanche dire chiaramente.
Sono nomi fatti per ingannare. Basta dirne una sola: si presentano come candidati premier a una elezione con sistema proporzionale, che garantirà – secondo tutte le previsioni – un “governo di coalizione” che nessuno di loro potrà guidare. Parlano come se vigesse un sistema maggioritario, con schieramenti contrapposti (e concorrenza al centro…), mentre sono tutti già preparati
a sedersi intorno allo stesso tavolo, con esclusioni minime (Salvini e
Meloni da un lato, Grasso dall’altro, Di Maio in ogni caso) a seconda di
quale coalizione avrà la prevalenza formale. Ma l’asse centrale del
nuovo esecutivo – fatte salve sorprese così eccezionali da non poter
essere neppure immaginate – sarà rappresentato da Pd e Berlusconi, con
le aggiunte che si renderanno necessarie per fare una maggioranza.
E’
per questo motivo che “il Brancaccio” è fallito. Doveva rappresentare
la solita cerniera tra “sinistra di governo” e “sinistra radicale”, per
raccogliere voti che sarebbero altrimenti andati persi; ma le
frattaglie post-piddine hanno valutato del tutto inutile scendere a
patti (impossibili da rispettare, peraltro) con Rifondazione. Si sente
in sottofondo la voce di D’Alema che ripete ancora una volta “tanto per
noi dovranno votare, no?”
Chi
nutre nostalgie per quel percorso non ha capito – o non vuole? – che un
intero modo di “far politica”, dannoso e suicida, in voga da 25 anni a
questa parte, è giunto al capolinea. E’ morto e non può essere resuscitato neanche dal dr. Frankenstein.
Il nostro blocco sociale ha un bisogno vitale di rappresentanza politica,
di una identità collettiva nazionale in grado di far convergere lotte
territoriali, sindacali, politiche quasi sempre di carattere solo locale
o settoriale. Secondo ogni logica, la eventuale ricerca di una rappresentanza elettorale dovrebbe discendere dal consolidamento di quell’identità collettiva.
Ma in Italia – da sempre – le cose avvengono secondo una logica bizzarra. E dunque ci troviamo davanti alla possibilità di far emergere la trama di una rappresentanza politica nel vivo di una battaglia “solo” elettorale, grazie alla proposta avanzata dai compagni di Je So Pazzo (#poterealpopolo).
Perché accada è fondamentale che ciò che abbiamo chiamato il vivo non si faccia trascinare sottoterra dal morto.
Per questo e null’altro Eurostop è della partita.
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