La capacità di “mettersi nei panni altrui” è stata sopravvalutata. Ecco perché.
E se l’empatia non fosse così “empati ca”? Anzi, se risultasse un “frutto avvelenato” (stile la mela di Adamo ed Eva) o, quanto meno, un boomerang (rispetto alle nobili finalità perseguite), perché - si sa... - di «buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno» (come soleva dire Karl Marx)?Da qualche tempo, al disgregarsi delle ideologie otto-novecentesche, corrisponde un’ondata di popolarità per la categoria prepolitica di empatia, che sembra avere sostituito quelle, meno “basiche” ed emozionali di solidarietà e di giustizia sociale. Nel 2006, per fare un esempio, (il superempatico) Barack Obama, in un suo discorso alla Northwestern University (e successivamente in un’ospitata all’Oprah Show), rilevava il «deficit» di empatia che affliggeva la nazione americana, e nel corso della sua presidenza ha ripetutamente invocato uno dei personaggi letterati prediletti, l’avvocato antirazzista Atticus Finch de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, e le sue celebri frasi sulla necessità di «calarsi nella pelle» altrui e di immedesimarsi nel punto di vista sulle cose degli altri per comprenderli davvero.
Le élite neoliberali alla guida dei processi di mondializzazione non provano empatia per le persone, e non le incrociano, né le vedono, beneficiando dello “sradicamento” cosmopolita dorato delle gated community di talune metropoli occidentali (da New York a Londra e Zurigo), oppure dei “non luoghi”-paradisi globali, da Dubai a Singapore; e di qui nuovamente, secondo alcuni, la centralità, o la vera e propria “emergenza”, dell’empatia per rispondere all’esplosione delle diseguaglianze in epoca di neoliberismo. E, ancora, tra filter bubbles e camere dell’eco dei social media che, in virtù del famigerato algoritmo di profilazione pubblicitaria e dell’implementazione del “programma massimo” del marketing one-to-one, incentivano comunità di simili (e, spesso, chiuse), l’empatia - sostengono i suoi alfieri - si rivela una delle sole e poche risposte possibili; e, in effetti, di “social” in questi network, che promuovono a ogni piè sospinto fenomeni di neotribalizzazione, ce n’è sempre di meno.
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Si tratta dunque di un tema che investe in particolar modo la sinistra, anche perché una certa destra se l’era già cavata inventandosi, qualche decennio or sono, la formula del “conservatorismo compassionevole”, dove la compassione diviene un surrogato - ovviamente, non alla pari e “gerarchico”, ma comunque nutrito di una carica emozionale - dell’empatia. Che ha trovato spazio, quale argomento (e fondamento sentimentale anziché razionale) per un rilancio delle dottrine politiche dell’uguaglianza, in virtù di quei processi di individualizzazione e personalizzazione che, a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, si sono convertiti nello spirito del tempo e nel mainstream psicoculturale. Indebolitasi ormai da parecchio la legittimità dell’idea di giustizia sociale, e finita in forte difficoltà anche quella di solidarietà che l’aveva sostanzialmente sostituita, in effetti, sembrava non rimanere altro da fare che ricorrere a quella di empatia per reintrodurre un concetto capace di ricostruire una dimensione, in un qualche modo e in una qualche misura, collettiva. E, in contesti sociali nei quali il narcisismo e l’egoismo degli attori (peraltro non così) razionali sono divenuti egemoni, la capacità di reagire in maniera emozionale alle emozioni altrui, e di “mettersi nei loro panni”, è stata esaltata anche all’interno di vari ambiti del discorso pubblico (come pure dall’immancabile Jeremy Rifkin, autore di un libro su “La civiltà dell’empatia”, Mondadori, 2010).
Ed è diventata di moda. Anche, troppo, al punto da risultare sopravvalutata, secondo lo psicologo cognitivista di Yale Paul Bloom e il neuroscienziato dell’Università del Wisconsin-Madison Richard J. Davidson. In particolare, in un suo provocatorio libro recente, che va in controtendenza - “Against Empathy. The Case for Rational Compassion” (Ecco-Harper Collins) - Bloom disvela quelle che considera le pseudo-virtù dell’empatia, arrivando a sostenere che gli esiti della sua esaltazione e implementazione vanno in direzione contraria ai presupposti di partenza, e anche alle aspettative. E, quindi, facendo il “bastian contrario”, perora la causa di un mondo con minore empatia. Poiché l’empatia è nient’altro che «soda zuccherata», afferma lo studioso statunitense, la quale “addolcisce la pillola”, ma non svolge alla fine alcuna azione positiva, anzi, risulta controproducente, e non costituisce affatto un faro di orientamento etico. Contro una convinzione che annovera tra i suoi alfieri illustri anche Adam Smith (con la sua Teoria dei sentimenti morali del 1759), Bloom denuncia il carattere limitato di questa categoria, inadatta a svolgere una funzione fondativa. Il punto è che l’empatia, in verità, fa scattare l’identificazione esclusivamente con chi viene giudicato simile o similare (o assimilabile), e così l’attenzione si concentra soltanto su uno o pochi individui. Siamo, pertanto, ben lontani da quelle dimensioni di universalità e universalismo che hanno connotato la piattaforma ideale e le narrazioni valoriali della sinistra nei secoli della modernità. L’atteggiamento empatico finisce allora per limitare il campo d’azione, o perfino per tradursi nel suo contrario, quando qualche imprenditore politico (della paura), proprio appellandosi ad essa, riesce a incitare all’odio verso il “nemico” o nei confronti di un malcapitato capro espiatorio.
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Bloom, in buona sostanza, sostiene che l’empatia è buona per le relazioni interpersonali, ma che può diventare anche dannosa quando viene trasferita sul piano della politica, perché non serve (nella migliore delle ipotesi) o si rivela totalmente inadeguato un appello emozionale alla difesa dell’ambiente o all’espansione dei diritti civili. E lo stesso si può dire a proposito della nozione di opinione pubblica, che è antitetica a quella di empatia, poiché non presuppone la scelta e l’identificazione tra i simili, ma il conflitto (simbolico) delle idee, e vanta una valenza erga omnes.
Il dibattito in materia ha sicuramente il pregio di fare riscoprire nella cultura progressista l’importanza (negativa o positiva) per la politica di una serie di categorie che vengono dalla sociobiologia e dall’etologia, come ha peraltro evidenziato nel passato una scuola italiana di studiosi del realismo politico (da Gianfranco Miglio a Damiano Palano). Ma se una rondine non fa primavera, un moto di empatia non fa certamente il futuro della sinistra in questo evo populista e postmoderno.
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