A
nulla vale, di fronte a tanta programmatica cecità, ricordare e
ribadire che il metodo, in politica, è sostanza; che un cattivo metodo
non produce mai buoni fini; che il continuo strappo emergenziale sulle
regole e le procedure democratiche basilari non può che sfigurare sempre
più la nostra democrazia; che un parlamento costretto a votare
continuamente contro le sue stesse prerogative non è un parlamento.
Ancor meno vale aggiungere che se è vero che una legge elettorale andava
pur fatta, è altrettanto vero che non andava fatta – lo dice
anche la famosa Europa che si sta a sentire solo quando conviene – un
attimo prima della scadenza della legislatura sulla base di uno
sfacciato computo degli interessi di alcuni partiti contro altri. Con
l'aria che tira, queste obiezioni vengono liquidate tutte come
formaliste a fronte della filosofia pragmatica e "realista" del Pd e dei
suoi attuali complici.
Stiamo
dunque a questa rivendicazione di realismo, e domandiamoci che cosa
implicherebbe una prospettiva effettivamente realista in un paese come
l'Italia. Un paese dominato fin dal '94 da un'ideologia ferocemente
antipolitica installata al cuore, non ai margini o all'esterno, del
sistema politico; amareggiato da sentimenti di impotenza e delusione
verso un ceto politico considerato nel suo insieme corrotto,
autoreferenziale e poco rappresentativo; congelato in una distanza ormai
siderale fra istituzioni e società. Un paese che in queste condizioni
esprime un'opposizione a sua volta rigida e autoreferenziale, ma non
priva di ragioni né di radicamento sociale, come quella del Movimento 5
stelle. Un paese, infine, che chiamato a esprimersi meno di un anno fa
sul proprio assetto costituzionale e istituzionale ha dato
un'indicazione inequivocabile, contro un'ulteriore verticalizzazione del
comando e un'ulteriore espropriazione della rappresentanza e del ruolo
del Parlamento.
In
un paese così, "realismo politico" vorrebbe dire in primo luogo cercare
di sanare lo scollamento fra istituzioni e società, e corrispondere
alla sensibilità collettiva che il 4 dicembre scorso – e non solo
allora: chi si ricorda la stagione referendaria del 2011, annegata nel rigor mortis
del governo Monti? - ha chiesto e chiede partecipazione, rappresentanza
e qualità della democrazia. Se a questo sentimento collettivo si
risponde invece con l'ennesima legge elettorale che allestisce un
parlamento di nominati, con l'ennesimo schiaffo alle prerogative del
parlamento, con l'ennesimo gesto strafottente di accentramento della
decisione, con l'ennesima negazione del significato del 4 dicembre,
questa risposta non è realista: è surreale.
Ha perfettamente ragione infatti Alessandro De Angelis quando legge nel "Rosatellum bis"
un accordo per l'autoconservazione del sistema contro le "turbolenze" –
M5s e sinistra – che potrebbero disturbarlo. Ma anche qui c'è
pochissimo realismo. Se non altro la lezione della crisi che non ci
siamo ancora lasciati alle spalle dovrebbe avere insegnato alla politica
ricalcata sulla finanza che le turbolenze, quando vengono messe sotto
il tappeto, rispuntano da un'altra parte. Più forti, e più insidiose.
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