Di fronte a queste notizie, il governo trova motivo per esaltare gli effetti salvifici delle proprie leggi; l’opposizione trova invece motivi per esaltarne gli effetti disastrosi. Insomma, ci si sente come se si andasse sulle montagne russe, magari contando quella bella canzone di Lucio Battisti: Le discese ardite e le risalite, su nel cielo aperto e poi giù il deserto, e poi ancora in alto con un grande salto.
Per capire i problemi strutturali del mercato del lavoro italiano è meglio fare riferimento alle caratteristiche dell’occupazione. Abbiamo un tasso di occupazione di dieci punti percentuali inferiore alla media europea. Il tasso di occupazione femminile è addirittura al quart’ultimo posto tra i 28 paesi dell’Ue, appena al di sopra di Malta, della Macedonia e della Turchia. Con la Macedonia, abbiamo il più basso tasso di occupazione dei giovani tra i 20 e i 30 anni. Inoltre, su cento persone tra i 20 e i 64 anni, 70-71 sono occupate nel nord mentre solo 47 sono occupate al Sud. Solo sei regioni europee hanno un tasso di occupazione al di sotto del 50%, e di queste, quattro sono nel Mezzogiorno. Inoltre, il divario tra la regione con il più basso tasso di occupazione (la Calabria) e la regione con quello più alto (il Trentino Alto Adige) è di circa 32 punti percentuali. Su cento donne, 62-63 sono occupate al Nord e 34 al Sud. Il gap tra maschi e femmine è di circa 17 punti al Nord e di 26 al Sud.

Tutti i documenti ufficiali di programmazione economica iniziano con questo cappello: per risolvere il problema dell’occupazione è necessario favorire la crescita economica e gli investimenti. Quando però si passa alle ricette per raggiungere l’obiettivo, le parole “investimenti” e “occupazione” spariscono.
Guardiamo per esempio cosa intende con “politiche per l’occupazione” chi si occupa di mercato del lavoro. A livello internazionale vi è un ampissimo consenso, che ormai si è consolidato a partire dagli anni 80, su una ricetta abbastanza semplice, valida in tutte le stagioni, basata sull’idea che bisogna favorire il più possibile la flessibilità istituzionale e salariale. Il ragionamento è più o meno questo: la disoccupazione odierna (attenzione: non la scarsa occupazione) è dovuta alle regole sui salari minimi, sui licenziamenti e ai maggiori sussidi di disoccupazione.
Qual è la soluzione? Occorrono politiche di flessibilità volte alla salvaguardia delle imprese. Facendo sì che il lavoro sia meno costoso, sarà più facile per le imprese l’assunzione dei lavoratori e, alla fine, non potrà che beneficiarne anche l’occupabilità (altra parola molto di moda che, però, non significa per forza maggiore occupazione).
A ben vedere, tutti i termini coniati in questi anni da ministri vari: choosy, bamboccioni; o i loro moniti, come “è meglio sposare un riccone che cercare lavoro”, “andate a giocare a calcetto”, “chi va a lavorare all’estero è meglio che ci rimanga” ecc. non sono altro che il naturale modo di pensare di chi crede in questo ragionamento. Sono i lavoratori e i giovani che non si adeguano alla necessità di essere flessibili e non accettano di guadagnare di meno. Se lo facessero, le imprese subito li assumerebbero.
La realtà è che nessuna riforma del lavoro ha mai creato un solo posto di lavoro, ma ha solo redistribuito il lavoro fra categorie diverse di lavoratori, cambiando le convenienze sul tipo di contratto da usare per le assunzioni. Purtroppo, chi si occupa dei temi del lavoro adotta in genere un approccio di equilibrio economico parziale e crede nelle capacità riequilibrartici del mercato. E se, invece, fosse proprio la domanda di lavoro a essere carente e le imprese restie o, addirittura, incapaci di innovare e investire?
Bisognerebbe chiedersi, quindi, se sia possibile avere un approccio diverso al problema strutturale dell’occupazione. I temi su cui investigare sono molteplici: quali investimenti hanno maggiori effetti sulla crescita di lungo periodo? Quali sono le cause della bassa produttività? Occorrerebbe, inoltre, finalmente affrontare il problema della troppo sperequata distribuzione del reddito che, erodendo i diritti (all’istruzione, alla salute, alla cultura al lavoro), distrugge capitale sociale e genera ulteriori diseguaglianze, anche regionali.