martedì 24 ottobre 2017

Una Repubblica democratica fondata sul lavoro, sulla dignità, sull’uguaglianza

di Anna Falcone

Nei decenni passati la Costituzione, quando non apertamente contestata e delegittimata, è stata ridotta a un testo da celebrare negli anniversari, ma sostanzialmente ininfluente nelle dinamiche reali della società, in una sorta di vuota retorica costituzionale. Occorre ribaltare il tavolo. E andare anche oltre. Dobbiamo pretendere che la Costituzione viva, che non ci siano più spazi per una “programmaticità” eventuale e futura, ma solo per un’attuazione completa e ambiziosa. Abbiamo un orizzonte “costituente” da realizzare che parta dai diritti fondamentali, dalla proporzionata ripartizione dei doveri, dalla democrazia costituzionale per raggiungere un fine ulteriore, quello della costruzione di una società giusta ed equa, una società di diritti, in cui ognuno possa perseguire il proprio diritto alla felicità, come individuo e come popolo.
Così la Costituzione e la sua attuazione diventano la base di un programma politico, a partire dai fondamentali, indicati nei suoi primi articoli. Sovranità, dignità delle persone, diritti inviolabili, lavoro, uguaglianza e pari dignità sociale, pluralismo, divieto di discriminazioni, ruolo dello Stato nella rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.
Iniziamo con il lavoro, il primo dei diritti citati fin dall’art. 1 Cost., accanto alla sovranità popolare e alla forma repubblicana e democratica dello Stato.

Nessun popolo, nessun cittadino può essere libero se non ha a disposizione i mezzi per garantire a se stesso e ai suoi cari un’esistenza libera e dignitosa (artt. 1, 4, 36 Cost.). In una società in cui il lavoro è diventato una merce, spesso di scambio per barattare la propria sopravvivenza con il voto o con altri diritti, l’idea stessa di democrazia è compromessa. Occorre ripartire da qui e dall’art. 3, cuore e architrave del nostro modello costituzionale, che, nel sancire il principio di uguaglianza e pari dignità sociale di tutti i cittadini, affida allo Stato il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo assunto muove da una considerazione e da un principio cogente: il mercato da solo non basta, anzi, non può essere per sua natura soggetto propulsore di un lavoro e di uno sviluppo orientati alla dignità, alla equa remunerazione, all’uguaglianza di condizioni fra i lavoratori. Il mercato mira a creare profitti. Lo Stato crea democrazia, che in un’accezione sostanziale significa garantire diritti, sviluppo, equa ripartizione dei doveri.
Insomma, bisogna ripartire dallo Stato e dalla funzione affidata dalla Costituzione ai pubblici poteri per la realizzazione di una democrazia compiuta nei diritti, prima che nelle forme e negli equilibri istituzionali. Tanto più in costanza di una crisi che ha drasticamente ridotto le opportunità di lavoro, decapitato i diritti dei lavoratori e cancellato più di una generazione, di giovani e meno giovani, dal mondo del lavoro. Il diritto e l’accesso al lavoro, la dignità e la tutela dei lavoratori, un reddito minimo garantito, l’avviamento dei giovani, la formazione continua, la riqualificazione e ricollocazione di chi il lavoro lo ha perso devono essere la priorità delle politiche pubbliche. E se parliamo del diritto al lavoro, così come delineato dalla Costituzione, dobbiamo immaginare non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro che valorizzi qualità e talenti dei singoli, che garantisca un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia, e sia, quindi, equamente remunerato, in rapporto al tempo e senza discriminazioni di genere4.
Questo chiede la Costituzione. Ma non basta. In un Paese in cui la disoccupazione ha raggiunto livelli record, lo Stato deve farsi promotore di politiche permanenti per la creazione di nuovi posti di lavoro e, in particolare, di lavori che i privati non hanno interesse o convenienza a creare. Si pensi alle potenzialità della ricerca, pura e applicata: uno dei settori più promettenti per l’incremento diretto e indiretto della ricchezza e del benessere di un Paese, costantemente mortificato da tagli miopi e crescenti. E, ancora, alle innumerevoli possibilità di interventi nel settore della tutela e valorizzazione dei beni artistici e culturali, della protezione dell’ambiente, della tutela e messa in sicurezza del territorio. O all’implementazione del personale dei servizi socio-assistenziali, oggi inadeguati, se non assenti, in intere aree e settori e, comunque, dotati di risorse e finanziamenti insufficienti, soprattutto nelle Regioni più povere e con minore capacità fiscale. Sono solo alcuni esempi di un lungo elenco.
In ultimo, occorre rivedere i tempi del lavoro e la durata massima della giornata lavorativa che la Costituzione richiede sia stabilita per legge. Non è democratica una società in cui chi ha un lavoro a tempo indeterminato, è spesso costretto a tenerselo rinunciando ai propri diritti e senza distinzione fra lavoro ordinario e straordinario, mentre molti (se non i più) non conoscono altro che precariato, o lavoro nero, o lavoro povero. Come dice un vecchio adagio, non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere. E la vita, pubblica e privata, richiede tempo: tempo da dedicare agli affetti, alla famiglia, alla propria formazione e informazione, alla vita sociale, alla partecipazione pubblica e politica. Il tempo è una funzione della partecipazione, proporzionale al grado di democraticità di un sistema e della possibilità di vivere una vita soddisfacente, non piegata alle esigenze della produzione e della massificazione sociale. Non è estremismo, né utopia, soprattutto in una situazione economica in cui, anche sotto il profilo economico generale, per lavorare tutti, occorre lavorare di meno.

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