Quasi nessuno però ricorda che quello di settant’anni fa fu l’anno più terribile del dopoguerra: quello nel corso del quale emersero le maggiori difficoltà nella vita materiale della povera gente, disoccupazione, carenza di alloggi per le case distrutte dai bombardamenti, scarsità di generi alimentari e di riscaldamento, fabbriche ancora chiuse e da ricostruire, ferrovie, strade, porti , scuole inagibili.
Il fascismo aveva portato l’Italia a un cumulo di macerie.
Il governo De Gasperi da maggio in avanti rispose ai tentativi di ribellione che si verificarono in numerose città con la forza: il ministro dell’interno Scelba divenne celebre per aver ordinato l’uso indiscriminato della polizia nella repressione dei conflitti sociali.
Conserviamo un ricordo quasi ancestrale di quei giorni, lo portiamo dentro al nostro animo e al nostro cuore quale rimembranza indelebile (quasi una “coscienza parallela” che ogni giorno ci richiama a quel tempo) del carico dei sacrifici e delle sofferenze patite dai nostri genitori. Sacrifici al limite della privazione, sofferenze che hanno segnato non soltanto la nostra infanzia ma la nostra vita: una sensazione costante, una idea del “vissuto” nella miseria non cancellata poi dal boom economico, dalla “Milano da bere”, dalla rutilante pubblicità televisiva, dall’innovazione tecnologica che ci ha reso così comodo lo svolgersi del quotidiano.
Dentro di noi rimane ancora ben viva l’amarezza e l’incertezza di quei giorni.
Ma non possiamo anche dimenticare la fierezza, l’orgoglio, la dignità con la quale la generazione che ci aveva preceduto e che aveva subito in pieno tutta la tragedia della guerra affrontò quel drammatico frangente.
Fierezze, orgoglio, dignità che ci furono trasmesse ma che probabilmente non siamo stati capaci di profondere nelle generazioni successive.
Una generazione quella delle nostre madri e dei nostri padri che, pur piegata da decenni di sopraffazione e di miserie morali e materiali, seppe trovare la forza e la capacità per continuare a vivere.
Un grande ruolo nel determinare quella dignità lo ebbero, intendo proprio ricordarlo, i partiti politici della sinistra italiana, quelli che avevano guidato la Resistenza:il partito comunista e il partito socialista, all’epoca veri partiti di massa.
Avranno sbagliato tanto i comunisti e i socialisti, avranno seguito colpevolmente la “dottrina Zdanov”, si saranno schierati con la parte sbagliata del mondo, ma la funzione che svolsero nell’aggregare la classe, renderla consapevole, portarla a lottare per un futuro diverso , cercando di migliorare subito le condizioni materiali di vita, deve rimanere scritta per sempre nella storia di questo disgraziato paese.
Ho trovato le parole migliori tra le tante in circolazione per descrivere quel clima, quel 1947, in un testo di Simona Colarizi che qui riproduco a suffragio delle argomentazioni che ho cercato di sostenere fin qui.
Il testo che segue è stato quindi tratto dal volume “Storia d’Italia in 100 foto” curato da Vittorio Vidotto, Emilio Gentile, Simona Colarizi, Giovanni De Luna (Laterza 2017).
“ Una coda di donne che passano ore e ore davanti ai negozi alimentari per ottenere razioni sempre più scarse.
Le botteghe sono vuote: solo il mercato nero offre panel, latte, burro, zucchero persino carne, ma tutto costa troppo.
Allora non resta che dare l’assalto ai forni, come avviene nell’estate del 1947, l’anno più duro anche rispetto a quelli della guerra.
Eppure sono già passati ventiquattro mesi dalla fine del conflitto , ma la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica è ormai dichiarata e gli americani centellinano gli aiuti per l’Italia, dove è forte il Partito Comunista legato al nemico Stalin.
Si rompono i governi di unità antifascista che riunivano tutti i partiti, sinistra e destra, che alla Resistenza avevano aderito, ma la situazione politica rimane fluida così come incerta la vita degli italiani.
Sembra impossibile risorgere, guardare avanti, lasciarsi alle spalle tanta disperazione per costruire un futuro ai figli appena nati o che devono ancora vedere la luce.
Perché il segnale di un’irrinunciabile speranza di vita viene proprio dai tanti bambini già concepiti durante la guerra, magari tra un abbraccio e l’altro prima che il marito in licenza raggiunga di nuovo il fronte.
Poi, quando finalmente arriva la pace, per chi torna in questa Italia sconvolta formare una famiglia è il primo mattone da cui ripartire.
Una famiglia però significa responsabilità: la prima quella di nutrire i propri figli, di assicurare loro un presente e soprattutto un futuro.
Ma sono tanti i padri disoccupati: industrie danneggiate e campi calpestati dagli eserciti alleati e tedeschi hanno ristretto il mercato del lavoro, da sempre troppo esangue in Italia dove l’agricoltura è ancora il settore economico dominante e i processi di industrializzazione assai inferiori a quelli dei maggiori Stati europei”.
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