Nel capitalismo contemporaneo, le politiche del lavoro e le politiche sociali sono indissolubilmente legate. La separazione tra il tempo di lavoro e il tempo di vita scompare con la precarizzazione del lavoro. Il bio-capitalismo sfrutta il tempo della vita come una merce relazionale, produttrice di valore. La governance neoliberale assicura che ogni atto dell’esistenza venga messo a valore.
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Ogni residuo di welfare, così come ci è stato tramandato in Europa, è oggi sempre più soffocato da processi di estrazione e sfruttamento. E’ quindi venuto il tempo di riaggiornare il concetto di welfare, perché sia adeguato alla condizione precaria oggi dominante, rispettoso del genere, delle differenze etniche e educative, al fine di garantire il benessere della comunità. In una parola, il Welfare del Comune deve dotare la vita di qualità, atodeterminazione e consentire di esercitare il diritto alla gioia.
Nel capitalismo fordista, i servizi sociali come l’istruzione, la formazione, la previdenza, la cura e la salute, favorivano anche la redistribuzione della ricchezza tra capitale e lavoro. Le politiche pubbliche, in quanto dispensatrici di tali servizi, avevano la funzione di mantenere la coesione sociale per consentire che il potere d’acquisto del lavoro potesse garantire il consumo di massa e il livello di profitto fosse sufficientemente elevato per favorire la produzione di massa. Questo patto sociale non si riferiva all’intera popolazione, bensì alle solo “classi produttive” (nel senso marxiano del termine): erano, infatti, escluse le donne e la popolazione dei territori più sottosviluppati, fonte di immigrazione. Le prime garantivano gratuitamente la riproduzione della forza lavoro; la seconda manteneva basso il costo del lavoro.
Ora il welfare pubblico è percepito come un costo, il cui finanziamento dipende dall’imposizione fiscale, ritenuta dal pensiero neo-liberale un freno alla creazione della ricchezza prodotta dall’economia capitalistica di mercato: una imposizione che metterebbe, cioè, in pericolo la competitività del mercato. La forte crescita economica del periodo fordista, dove salari e profitti potevano aumentare simultaneamente, è oggi un pallido ricordo.
“L’economia deve esistere per servire la società e non viceversa” (Gandhi). Ciò non è vero quando i governi non rappresentano più persone ma le aziende che dominano lo spazio virtuale in cui si svolge il dibattito pubblico (ad esempio, “i social media” come Facebook e Twitter).
Con la diffusione delle politiche neoliberali, le istituzioni di welfare vengono sempre più “capitalizzate”. Soprattutto, esse entrano direttamente nella gestione economica del mercato privato. Il welfare pubblico keynesiano, non più sostenibile in presenza dei vincoli imposti al bilancio pubblico, viene gradualmente sostituito da forme di Workfare. Il Workfare non è un sistema universale di assistenza sociale (come quello keynesiano): è permesso solo a chi ha i mezzi finanziari per pagarlo. Si tratta di un sistema di welfare auto-finanziato, come la maggior parte del sistema previdenziale europeo di oggi, funzionale al processo di privatizzazione della sanità, dell’istruzione e della previdenza. Il Workfare è complementare al cosiddetto “principio di sussidiarità”, secondo il quale lo Stato può intervenire solo quando gli obiettivi posti non possono essere raggiunti in modo soddisfacente dal mercato privato.
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Nella transizione dal capitalismo fordista al capitalismo
bio-cognitivo emergono due punti chiave, strettamente legati al ruolo
del sistema di welfare e alle condizioni sociali della riproduzione
della forza lavoro.- Le istituzioni di welfare oggi sono attività direttamente produttive. La quota di capitale intangibile (R&S, istruzione, formazione e salute) ha superato la quota del capitale materiale, dagli inizi degli anni Ottanta negli Stati Uniti e, in seguito, in Europa. Oggi il capitale intangibile è diventato il fattore determinante della crescita e della competitività. Il capitale materiale tende a trasformarsi in capitale umano (lo stock di conoscenze, abitudini, attributi sociali e personali, inclusa la creatività, incarnate nella capacità di svolgere il lavoro per produrre valore economico). Pertanto, le condizioni di welfare, quando vengono privatizzate e finanziarizzate, svolgono un ruolo rilevante nel processo di accumulazione come fattore produttivo primario. Gli agenti individuali sostituiscono gli attori pubblici, favorendo un processo di segmentazione tra la popolazione. L’universalità diventa una parola vuota.
- Lungi dall’essere un semplice costo, la riproduzione della forza lavoro, anche attraverso il ruolo complementare svolto dalla spese pubblica e sociale, sta diventando sempre più direttamente o indirettamente produttiva. Per questo parliamo della metamorfosi del concetto di ri-produzione sociale. Una metamorfosi che si occupa del superamento della distinzione tra produzione e riproduzione. Tradizionalmente, il lavoro di cura è stato considerato ancillare al lavoro di produzione della fabbrica e improduttivo (quindi non remunerato) dal punto di vista capitalistico. Ora, nel capitalismo contemporaneo, è diventato una fonte diretta di valore, in parte salarizzata e in parte ancora gratuita..
Il concetto di ri-produzione sociale è paradigmatico del capitalismo bio-cognitivo. Con il termine capitalismo bio-cognitivo, si fa riferimento ad un eco-sistema, il cui processo di valorizzazione si basa sullo sfruttamento della conoscenza e la mercificazione della vita, in tutte le sue forme. Esso rappresenta la principale novità del nuovo paradigma di accumulazione e valorizzazione, considerando un’ampia gamma di attività, dalla cura, dalla salute, dall’istruzione alla diffusione della conoscenza e della cultura.
Quali sono le nostre priorità?
Data la nuova fase del capitalismo bio-cognitivo, questo manifesto si propone di indagare sui seguenti aspetti:
- le forme di sfruttamento diretto del corpo umano (trapianti di organi, chirurgia, …) e della terra, in grado di estendere il grado di mercificazione della biosfera in seguito alle innovazioni in biotecnologia.
- le forme di coinvolgimento “emozionale”, un aspetto cruciale per le professioni nel settore dei servizi (non solo l’insegnante e l’infermiera, ma anche il PR e il lavoratore/trice della moda o dei media, ma sempre più anche nella grande distribuzione)
- come la vita e l’attività sociale, indotta da forme cooperative di reti sociali (da Facebook, Twitter, Youtube alle nuove piattaforme digitali), siano messa a lavoro.
- come l’acqua, l’istruzione e la sanità siano sempre più privatizzate.
Riteniamo che l’espropriazione del valore della riproduzione sociale oggi rappresenti il nucleo dell’accumulazione dell’attuale contesto produttivo capitalistico.
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Anche le trasformazioni del mercato del lavoro negli ultimi decenni
in Europa e in Italia hanno reso sempre più urgente ridefinire le
politiche di welfare. Non sempre, questo obiettivo è stato considerato
di interesse centrale nel pensiero economico non solo dominante ma anche
alternativo. Tale refrattarietà fa sì che il dibattito sul welfare si
incentri tra l’idea di un welfare adeguato all’approccio neoliberale, workfare (condito, più o meno, da sussidiarietà) o la nostalgica difesa del welfare statale di matrice keynesiana.In entrambi i casi, si tratta di un’idea di welfare che non tiene conto che oggi il welfare è un modo di produzione e come tale dovrebbe affrontare i due elementi principali che caratterizzano l’attuale fase del capitalismo bio-cognitivo:
- la precarietà e il debito come dispositivi di controllo sociale e di dominio, in grado di alimentare la sussunzione vitale del lavoro al capitale;
- la riappropriazione (in termini di distribuzione) della ricchezza che nasce dalla cooperazione sociale e dal general intellect.
La produzione di ricchezza non è più basata esclusivamente sulla produzione di beni materiali. L’esistenza di economie di apprendimento e di rete ora rappresentano le variabili che sono all’origine degli aumenti di produttività: una produttività che proviene sempre più dallo sfruttamento sia di beni comuni che pubblici, derivante dalla cooperazione sociale del genere umano (come l’istruzione, la salute, la conoscenza, lo spazio, le relazioni sociali, ecc.). Anche Internet viene annichilito da processi di controllo e dalla “proletarizzazione” (nel senso di “standardizzazione” e “svalutazione”) della psiche e dell’ambiente sociale, con l’effetto di favorire l’appropriazione della ricchezza sociale (conoscenze, dati, informazioni, comunicazioni ) da parte delle grandi società oligopolistiche.
Ne consegue che, in questo contesto, una ridefinizione delle politiche di welfare dovrebbe essere in grado ribaltare la base del’odierna accumulazione bio-cognitiva: la precarietà della vita e la cooperazione sociale come fonte di valore.
È necessario remunerare la cooperazione sociale, da un lato, e favorire forme di produzione sociale alternativa, dall’altro.
Per questo, la proposta del Commonfare si basa su quattro pilastri:
Primo Pilastro: reddito base incondizionato
Il reddito base è una misura a favore di tutte/i coloro che vivono nel territorio, indipendentemente dal loro status professionale e civile, inizialmente erogato a coloro che si trovano sotto la soglia relativa della povertà, per poi acquisire nel tempo una valenza più universale. Il reddito di base dovrebbe essere inteso come una sorta di compensazione monetaria (remunerazione) della produttività sociale e di tempo produttivo che non sono certificati dal contratto di lavoro e dalle norme giuslavoriste oggi esistenti. Essa si verifica al livello primario della distribuzione del reddito (si tratta di un reddito primario[1]), quindi non può considerarsi come un intervento assistenziale, secondo una logica tipica del workfare (in modo selettivo) e del welfare pubblico keynesiano (in modo universale). Questa misura dovrebbe essere accompagnata dall’introduzione di un salario minimo, per evitare un effetto di sostituzione (dumping) tra il reddito di base e gli stessi salari in favore delle imprese e a scapito del lavoratore/trice. Il reddito di base e il salario minimo permettono di ampliare la gamma di scelte nel mercato del lavoro, vale a dire, di rifiutare un lavoro indesiderato o malpagato e quindi incidere sulle stesse condizioni di lavoro. La possibilità incondizionata di rifiuto del lavoro apre prospettive di liberazione che vanno ben oltre la semplice misura distributiva, a prescindere dalla condizione professionale
Al contrario, un reddito condizionato è basato sull’attivazione di un processo di coazione al lavoro (workfare) e di controllo dei consumi, limitando fortemente la libertà individuale. La governance della povertà si trasforma così in processo di controllo sociale.
Inoltre, l’erogazione di un reddito incondizionato può consentire un riduzione del disagio sociale e della criminalità indotta da situazione di indigenza, liberando tempo e potenzialità per lo sviluppo di forme di cooperazione sociale.
Secondo Pilastro: gestione dal basso dei beni comuni e del Comune
L’idea di Commonfare implica, come prerequisito, la riappropriazione sociale dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento di beni comuni che sono oggi la base dell’accumulazione. Tale riappropriazione non porta necessariamente alla transizione dalla proprietà privata a quella pubblica. Per quanto riguarda i servizi di base come la sanità o l’educazione o la mobilità, l’obiettivo è quello di fornire una gestione pubblica della loro offerta come valore d’uso contro qualsiasi tentativo di mercificazione e privatizzazione a scopo di lucro.
Ma se si fa riferimento al concetto di Comune, il quadro è diverso, poiché il frutto della cooperazione sociale e dell’intelletto generale non sono né beni privati né pubblici. L’unico modo per gestire il comune è l’auto-organizzazione, immaginando un diverso regime di valorizzazione.
Più in dettaglio, la proposta di Commonfare implica oggi imbastire una politica:
- per quanto riguarda il comune cognitivo (intelletto generale), in grado di ridurre i diritti di proprietà intellettuale e le leggi sui brevetti a favore di una maggiore libertà di circolazione della conoscenza e della capacità di acquisire infrastrutture informatiche gratuite, attraverso politiche adeguate e innovative industriali (accesso ai beni comuni immateriali).
- per quanto riguarda la riproduzione sociale, è in grado di fornire condizioni di base gratuite di salute, alloggio, mobilità, trasporti e socialità, migliorando le buone pratiche per sperimentare nuove forme di benessere organizzato da sotto (accesso al sé organizzazione della vita).
- in grado di “liberare” gli esseri umani dalla gerarchia imposta dall’oligarchia economica in materia di utilities e beni sociali primari, soggette negli ultimi 20 anni, a forme di crescente privatizzazione, come esito dell’accordo europeo di Cardiff relativo alla regolamentazione del mercato dei beni e dei servizi (1996) (acceso ai beni comuni materiali e naturali)
- in grado di fornire istituzione del comune, a livello locale, per quanto riguarda beni comuni essenziali come l’acqua, l’energia, l’abitazione e la sostenibilità ambientale attraverso forme di municipalismo dal basso (principio democratico).
Il successo di Uber e Airbnb ci dicono che la condivisione e la collaborazione non sono condizioni sufficiente per fornire esempi di economia alternativa. Perché la condivisione possa definire un eco-sistema diverso da quello attuale, non è sufficiente condividere beni fisici con l’obiettivo di sfruttare la loro capacità inutilizzata. Al limite può essere alla base dello sviluppo del capitalismo delle piattaforme.
Se dobbiamo parlare di sharing economy come possibile sistema economico alternativo, ciò può avere senso se la finalità è la produzione di un valore d’uso e non di scambio. Dubitiamo che, allo stato attuale delle cose, sia possibile. A tal fine, occorre prendere atto che la fase più avanzata della valorizzazione capitalistica – sfruttamento e espropriazione del comune, dei beni comune e della riproduzione sociale – si basa proprio sul fatto che le forme della cooperazione sociale rappresentano oggi nuove fonti di accumulazione. Nel capitalismo delle piattaforme, il processo di valorizzazione si basa sullo sfruttamento del lavoro e nella fase di intermediazione. I provider di piattaforme caricano, infatti, una commissione ogni volta che una transazione viene eseguita con successo tra due utenti. Ad un’analisi superficiale, si tratta di una guadagno derivante da un servizio commerciale fornito da forme di lavoro autonomo non subordinato. In realtà, l’estrazione di valore è anche fondata su forme di sfruttamento del lavoro.
Le pratiche alternative di condivisione e di cooperazione appartengono, così, ad altri eco-sistemi, qualitativamente diverse dal capitalismo (anche se sono variamente interconnesse con esso). Dobbiamo offrire alternative accessibili alle esternalità negative della sharing economy capitalista: (1) la generazione di relazioni tra gli utenti come pietra miliare delle piattaforme di condivisione digitale e (2) la proprietà di qualsiasi attività fisica che viene condivisa. Il secondo punto ha anche implicazioni più rilevanti rispetto alla prima se iniziamo a immaginare un eco-sistema di condivisione e cooperazione che sia altro dal capitalismo. Si tratta infatti di un eco-sistema in cui “tutto è condiviso e nulla è di proprietà”. Questo era il sogno hacker di “condividere strumenti di potere”. Un sogno che si è poi sviluppato in tutt’altra direzione. Possiamo (dobbiamo) fare di più per poter aprire i nostri immaginari collettivi.
Quarto pilastro: la moneta del comune (Commoncoin)
Il welfare del comune presuppone autonomia e indipendenza, quindi richiede l’attivazione di processi di auto-organizzazione o self-governance. Le buone pratiche che al suo interno possono essere avviate necessitano tempi di sperimentazione e non sempre sono immediatamente produttive. A tal fine è fondamentale garantire la piena sostenibilità economica per evitare processi di sussunzione. Da questo punto di vista, il welfare del comune presuppone una propria auto-capitalizzazione in direzione contraria alla crescente e diffusa aziendalizzazione, finalizzata alla produzione di valore d’uso in alternativa alla produzione di valore di scambio. Ne consegue che il welfare del comune può essere finanziariamente autonomo solo se è inserito all’interno di un circuito monetario a sua volta indipendente dai diktat e dalle imposizione delle convenzioni finanziarie dominanti.
La moneta del comune è quindi l’espressione del welfare del comune e ne definisce la cornice di attuazione.
Potremmo dire di più. Il welfare del comune giustifica la moneta del comune nel momento in cui tale moneta è funzionale a un contesto di produzione alternativa, fondata sulla produzione dell’essere umano per l’essere umano.
In particolare, il Commoncoin l’espressione del rapporto tra il valore biopolitico prodotto dalle singolarità che compongono la moltitudine e le relazioni sociali necessarie per produrre tale valore. A livello economico e monetario, questo processo di auto-propulsione deve sviluppare sinergie con l’implementazione di una serie di strumenti tecno-monetari che possono aiutare a rispondere alla seguente domanda: come è possibile utilizzare le tecnologie digitali per favorire processi di automatizzazione i nellle pratiche di distribuzione del reddito, a partire da una piattaforma fatta per condividere la produzione di valore bio-politico da e per la moltitudine?
Il capitale non vuole che la cooperazione sociale, dalla cui espropriazione e sfruttamento origina il proprio guadagno, faccia esodo. Pertanto, la creazione di una cripto-valuta non solo complementare ma anche alternativa come il Commoncoin deve consentire alla cooperazione sociale di autorganizzarsi e di sfruttare al massimo il potenziale monetario nel processo di un esodo. Ciò può avvenire attraverso iniziative bottom-up che applicano il pensiero critico al progetto criptomoneta per il bene comune della cooperazione sociale. Più in particolare, il sistema di Commoncoin potrebbe essere gestito con costi di intermediazione di gran lunga inferiori a quelli tradizionali, soprattutto riguardo alle attuali disposizioni di welfare, rendendo così molto più attraente l’istituzionalizzazione dal basso del Commonfare. Più concretamente, Commoncoin è pensato più come strumento di sostenibilità e autonomia di circuiti economici alternativi piuttosto che come riserva di valore (spesso con finalità speculative) come avviene per le attuali criptomonete (vedi BitCoin).
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Questi quattro aspetti – tra altri – evidenziano una prospettiva di
superamento della logica produttivistica di matrice capitalistica, anche
nella sua dimensione di valorizzazione più immateriale. Si tratta di,
pensare effettivamente a forme di produzioni alternative, compatibili
con i vincoli ambientali, rispettosi della natura umana e soprattutto
tese a valorizzare l’attività di otium creativo e di opus contro la dittatura/costrizione odierna del labor:
una dittatura composta da performatività, efficientismo, produttivismo
fini a se stessi e al capitale, con conseguente distruzione dei legami
sociali e naturali.Il commonfare si presenta adeguato anche ai vincoli di natura ecologica che sono sorti dopo più di 50 anni di produttivismo taylorista. E ciò può avvenire secondo due direttrici. La prima ha a che fare direttamente con una gestione “comune” dei beni ambientali, soggetti a scarsità, dall’aria, all’acqua, alla natura in generale (foreste, animali, mari, ecc.), da un lato, e della riproduzione sociale e delle relazioni umane (bien vivir), dall’altro. La seconda deriva dall’implementazione di un reddito di base incondizionato, che, in nome del diritto di scelta e di autodeterminazione delle proprie vite, può favorire una produzione di valore d’uso eco-compatibili a svantaggio della produzione di valore di scambio più dannoso per l’equilibrio ambientale.
La proposta di commonfare consente di attuare un governance migliore dell’attuale fase di capitolocene, che vede la dimensione della vita oggi al centro dei processi di accumulazione e di sfruttamento e quindi di valorizzazione. Il welfare è oggi l’elemento che condensa queste problematiche in quanto modo di produzione.
Riteniamo imprescindibile dunque l’imperativo di organizzare il pessimismo contemporaneo, legato all’attuale processo di impoverimento e proletarizzazione dell’intelletto generale, creando nuovi immaginari. Si tratta di sviluppare forme concrete di micropolitica in grado di valorizzare la presenza e la capacità di diversi talenti, la ricchezza degli scambi umani, la capacità di adattare, almeno parzialmente, la produzione alle esigenze e ai desideri della comunità. Gli spazi metropolitani e sociali, i rapporti tra individui e comunità, il motore della valorizzazione e dei mezzi di produzione sono già direttamente nelle nostre mani, nei corpi e nelle menti.
Per uscire dalla paralisi, possiamo individuare le tante realtà, espressioni del comune, che già attuano, all’interno della cooperazione sociale, pratiche di autoproduzione, sperimentano forme di riproduzione sociale alternative verso esodi inclusivi.
Si tratta di cominciare a immaginare i contorni di una società desiderabile.
NOTE
[1] Sul concetto di reddito di base come reddito primario, si veda Carlo Vercellone, Crisi della legge del valore e divenire rendita del profitto. Appunti sulla crisi sistemica del capitalismo cognitivo (luglio 2009): https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00401890; Carlo Vercellone, Andrea Fumagalli (luglio 2013 ), Reddito di base come reddito primario: http://www.bin-italia.org/un-reddito-di-base-come-reddito-primario; Andrea Fumagalli, “Il reddito minimo (incondizionato) come reddito primario e non pura assistenza: alcuni elementi per una teoria della sovversione e della libertà” in Bin-Italia (a cura di), Un reddito garantito ci vuole! Ma quale?, Quaderni per il reddito n. 3, Roma, 2016, pp. 115-120.
Riguardo invece il dibattito relativo al rapporto tra reddito di base e nuove tecnologie, si rimanda a Bin-Italia (a cura di), Reddito garantito e innovazione tecnologica. Tra algoritmi e robotica, Asterios, Trieste, 2017.
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