Altri problemi veri, ancora più veri, vengono però, ignorati. Li ha
ricordati, nei giorni scorsi, Lucrezia Reichlin, sul Corriere della Sera.
In tre puntate, ha lucidamente proposto una riflessione di grande e
immediato interesse politico, non accademico, sui temi al centro del
confronto tra Germania e Francia per il futuro dell'Unione europea e
nell'euro-zona: da un lato, il progetto tedesco per introdurre
nell'ordine giuridico dell'Eurozona la ristrutturazione dei debiti
sovrani (indicato nel "non-paper" presentato da Wolfgang Schauble
all'ultimo Euro-gruppo), per trasformare il Meccanismo Europeo di
Stabilità (Mes) in Fondo Monetario Europeo con maggiori risorse
finanziarie e poteri d'intervento sulle politiche di ciascun paese, per
riconoscere nella valutazione degli asset delle banche i diversi livelli
di rischio dei titoli di debito degli Stati; dall'altro, sempre più
virtuali e scolorite, le proposte del Presidente Macron per maggiore
flessibilità attraverso un bilancio dell'Eurozona e relativo ministro
del Tesoro, in una qualche relazione con il segmento "euro" del
Parlamento di Strasburgo. Sono problemi decisivi per le prospettive del
nostro paese e, in particolare, per gli interessi del lavoro e delle
micro e piccole imprese, il popolo della "domanda interna", composito e
sofferente, che la sinistra dovrebbe tornare a rappresentare. Sono
problemi completamente fuori dalla nostra discussione politica, anche
dal confronto dei loquaci leader impegnati in una disputa astratta e
incomprensibile, priva di contenuti adeguati, sulla ricostruzione della
sinistra o del centro-sinistra o di una qualche new release dell'Ulivo.
Di fronte all'offensiva della Germania che ribadisce in modo ancora più
autoreferenziale il proprio interesse nazionale, non solo non sappiamo
cosa contrapporre, ma non vediamo neanche il problema. Affidiamo il
nostro interesse nazionale alla retorica autolesionistica del "più
Europa", come ribadito dal Presidente Gentiloni in Parlamento settimana
scorsa alla vigilia del Consiglio europeo.
Il
trittico della Reichlin si misura con lo scenario alle porte nel quale
la fine del Quantitative Easing (Qe) porrà all'ordine del giorno il nodo
dei debiti sovrani insostenibili e del connesso circuito bancario. Nel
quadro dei rapporti di forza storici, ancor più "introversi" dopo le
ultime tornate elettorali (inquietante l'immagine dei funzionari del
Ministero delle Finanze di Berlino che, per omaggiare il passaggio di
Schauble alla presidenza del Bundestag, si dispongono nel cortile del
dicastero a formare lo "Schwarze Null", lo zero nero del pareggio del
bilancio federale, scritto in Costituzione e stabilmente raggiunto),
l'unica linea possibile viene considerata la linea "di mercato" tedesca,
ammorbidita nei suoi effetti di distruzione di capitale finanziario,
economico e sociale dal potenziamento del Mes e dall'assicurazione
europea per i depositi bancari.
Per
una valutazione compiuta di tale realistico quadro, rimangono
indefiniti "dettagli" fondamentali: 1. La sostenibilità del debito
pubblico dipende, in primis, dalla banca centrale di riferimento. Nel
contesto della moneta unica, senza acquisti post "whatever it takes"
e senza Qe il debito pubblico italiano sarebbe naufragato. Come si
comporterebbe la Bce nello scenario "di mercato"? Quali conditionality
imporrebbero la Bce o il Mes per soccorrere le istituzioni finanziarie?
2. La sostenibilità del debito pubblico dipende anche dalla dinamica
dell'economia reale. La Germania continuerebbe con il suo mercantilismo
estremo, epidemica svalutazione del lavoro e avanzi di bilancia
commerciale insostenibili?
Nell'ipotesi,
purtroppo probabile, di risposte rigidamente ordoliberiste a tali
domande, quali sarebbero le conseguenze per l'Italia e per i diversi
interessi economici, sociali e territoriali al suo interno? In una
ristrutturazione consensuale, pagherebbero, come avvenuto in Grecia, in
modo esiziale il welfare e le imprese legate alla domanda interna,
mentre, come al solito, grazie anche agli interventi del Mes, si
salverebbero i capitali finanziari e le imprese export-oriented. Finora,
nella analisi costi-benefici della moneta unica, a fronte degli enormi
costi dovuti al mercantilismo propagato dalla Germania, i benefici per
noi sono stati identificati nei bassi tassi d'interesse sui titoli di
Stato consentiti dall'appartenenza all'Eurozona, necessari a tenere
sotto controllo il debito pubblico. Nello scenario "di mercato", a
seguito della ristrutturazione del debito, i benefici vengono largamente
meno. Allora, diventa "ortodossa" una domanda: perché non dovremmo
accompagnare la ristrutturazione del debito pubblico con la riconquista
della moneta nazionale? Nella ristrutturazione, la Banca d'Italia, con
la moneta nazionale, non potrebbe tutelare meglio gli asset interni
convertiti in valuta Italiana rispetto agli asset confermati in euro sui
quali, almeno in parte, si abbatterebbe la lex monetae? Per compensare l'impatto sulle banche, non potremmo intervenire con la nostra moneta?
Sono
questioni difficili, da affrontare senza verità rivelate, dopo
un'attenta analisi d'impatto economico e sociale sui diversi interessi
interni, con la consapevolezza delle impervie difficoltà di governo
politico della fase, in relazione alla necessità di salvaguardare la
cooperazione tra gli Stati nazionali europei. Sono domande ignorate da
una classe dirigente largamente inconsapevole. Purtroppo, vi sono tutte
le premesse per un altro giro d'integrazione europea subalterna e di
ulteriore svalutazione del lavoro e impoverimento della nostra
democrazia costituzionale.
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