Da Caravaggio Experience a Loving Vincent: il successo delle mostre con video-installazioni al posto dei dipinti e l’uso di tecnologie digitali nel potenziamento della percezione dell’opera d’arte testimoniano un abbassamento delle nostre capacità percettive, e nascondono un pericoloso inganno.
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micromega Mariasole Garacci
Un fenomeno a cui stiamo assistendo sempre più spesso, ultimamente, è quello delle mostre senza opere originali, che propongono nuovi approcci alle opere d’arte attraverso quelle che vengono descritte come esperienze “immersive” e “totali” nella pittura di questo o quell’artista, scelto tra i più popolari e suggestivi: Caravaggio, Van Gogh o Chagall. Si tratta di spettacoli multisensoriali di video-installazioni accompagnate da concerti di suoni e odori che, insieme alle avveniristiche ricostruzioni tridimensionali usate come supporto didattico nelle mostre tradizionali, e agli stupefacenti lungometraggi cinematografici realizzati con sequenze di fotogrammi che imitano la maniera di un artista, testimoniano un cambiamento del nostro sguardo: l'occhio non sembra accontentarsi più dell’immagine apparentemente statica di una superficie pittorica, da solo non è in grado di veicolare l’introiettarsi del dato visivo al di qua del nervo ottico nella pellicola impressionabile della nostra percezione, dove avviene ogni volta una rinnovata intuizione, ma richiede qualcosa di più coinvolgente.
Alla Venaria di Torino, ad esempio, la mostra Caravaggio Experience, conclusa da poche settimane, ha proposto ciò che viene definito “un approccio contemporaneo” che, usando “un sofisticato sistema di multi-proiezione a grandissime dimensioni, combinato con musiche suggestive e fragranze olfattive, porta il visitatore a vivere un’esperienza unica anche sul piano sensoriale, attraverso una vera e propria immersione personale nell’arte del maestro del Seicento”1; un anno fa era stata la volta di Van Gogh Alive. The Experience, dello stesso genere. Alla Permanente di Milano, in queste settimane, la mostra Chagall, sogno di una notte d’estate è stata presentata dagli organizzatori come “il primo spettacolo immersivo” dedicato al pittore bielorusso. Alla Reggia di Caserta sta per concludersi Klimt Experience, che grazie all’ausilio dei nuovi Oculus Samsung Gear VR “consente di entrare all’interno di quattro celebri opere di Klimt percependone tridimensionalmente ogni dettaglio figurativo e cromatico”.
“Esperienza”, “spettacolo”, “immersione” sono le parole chiave. Il significato corrente del termine “esperienza” quale percezione o conoscenza diretta di oggetti a noi esterni, acquisita per il tramite dei sensi, qui impercettibilmente vira sulla ricettività passiva da parte di uno spettatore a questa appositamente predisposto con suggestioni varie da una regia che gli imbandisce una selezione di immagini ripetute, ingrandite, tagliate e interpolate. Passiva è qui anche l’idea di immergersi, di abbandonarsi e lasciarsi avvolgere -il contrario che esercitare l’attenzione e l’osservazione- in un bagno di sollecitazioni controllate ed eterodirette tanto nella scelta dei valori estetici veicolati e amplificati, che nella reazione a ciò che si sta guardando. Non si dà infatti occasione di far scaturire, dal contatto tra soggetto e opera, sensi e percetti che non siano quelli indotti dalla scelta e dalla disposizione fatte dagli operatori di questa esperienza, perché sono individuati preventivamente il contenuto da veicolare e la temperatura emotiva a cui portare il soggetto.
Dal fatto che l’osservazione dell’opera d’arte debba essere guidata con ausili tecnologici alla scoperta dei valori formali che la caratterizzano –composizione, prospettiva, colore- si può dedurre che l’occhio si sia come atrofizzato in seguito a un progressivo ispessimento di quella membrana che ci delimita e ci distingue dal mondo sensibile, rendendoci entità individuali, e attraverso la quale, allo stesso tempo, entriamo in contatto e ci relazioniamo con esso. Il risultato è che si perde progressivamente la capacità di leggere l’originale dell’opera d’arte che, quando è di alto livello, presenta invece tutti gli espedienti atti a comunicare con chi la guarda, a evocare la dimensione della profondità, o il movimento, laddove l’occhio fuori allenamento non vede più che una superficie piatta e statica. La mostra su Piranesi tenuta recentemente a Palazzo Braschi, per fare un esempio, era completata da un video 3D realizzato dal Laboratorio di Robotica Percettiva dell’Istituto di Tecnologie della Comunicazione, Informazione e Percezione della Scuola Sant’Anna di Pisa che, permettendo di esplorare con occhiali speciali una rielaborazione grafica di alcune Carceri d’Invenzione, mirava a “svelare il progetto architettonico che è nascosto dietro i tratti di Piranesi artista” e ad “estendere l’esperienza visiva del visitatore che potrà sentirsi letteralmente trasportato all’interno dell’opera di Piranesi, grazie anche ad un tappeto sonoro appositamente studiato e realizzato per completare l’esperienza percettiva”2.
Dovrebbe essere inutile sottolineare che il Piranesi delle Carceri è quanto di più “tridimensionale” e “immersivo” si possa immaginare, senza bisogno di alcun ausilio, e che le linee, le luci e le ombre, e in generale la tecnica incisoria dell’artista veneto sono appunto esempi magistrali della sua capacità di dirigere lo sguardo a dovere nello spazio fittizio aperto al di là della superficie cartacea della stampa. Chi ha avuto il privilegio di poter osservare le matrici di Piranesi sa che sulla matrice stessa ciò corrisponde a un approccio “scultoreo”, precisamente tridimensionale, alla materia da incidere. Senza indagare troppo sulle ragioni culturali, sociali, psicologiche che hanno portato a questa pigrizia dell’occhio, si può rilevare che ciò ha a che fare probabilmente con una saturazione, un’assuefazione alle immagini in movimento e al digitale. Per penetrare un’immagine serve ora l'esperienza multisensoriale, un concerto di stimolazioni di tutti i sensi laddove un senso, la vista, da solo non avrebbe più vigore sufficiente. Dobbiamo, appunto, immergerci fisicamente.
Chiedersi quale sia la ragione della scelta di Caravaggio, di Van Gogh, di Chagall o di Klimt può essere utile a svelare il volgare inganno che si cela dietro di esse. Pensiamo alla pittura di questi artisti: ha senso invitare a “percepire tridimensionalmente i dettagli cromatici” di Klimt? Siamo passati dai video tridimensionali di supporto alla lettura di opere che, comunque, presentano in origine espedienti atti a fingere uno spazio esplorabile, all’invenzione di un valore formale che nel Klimt secessionista non c’è, ed è estraneo ai suoi intenti estetici. La tecnologia non serve, come si vuol far credere, ad “avvicinare il grande pubblico all’arte”. Non viene usata a scopo didattico o divulgativo. Perché ciò che si sta vendendo al pubblico somiglia al vero meno di una banconota del Monopoly. Si capisce, è chiaro, che la scelta di artisti molto popolari ha a che fare con una qualità propria dei loro dipinti, che più di altri si prestano a un’esperienza “coinvolgente”, mentre non risulterebbe altrettanto coinvolgente immergersi negli equilibri siderei di un Kandinskij. Né lo sarebbe entrare nelle prospettive serene e lineari di un affresco di Beato Angelico. Il coinvolgimento ricercato mira infatti, in questi spettacoli, a unire l’esperienza estetica, o meglio meramente sensoriale, a quella emozionale.
Il grado successivo di questo fenomeno è forse annunciato con le sue conseguenze dal biopic Loving Vincent, in questi giorni campione d’incassi nelle sale italiane: uno stupefacente lungometraggio di Nexo Digital, composto da 62,450 immagini dipinte da un team di centoventicinque pittori nello stile di Vincent Van Gogh. I personaggi della vita del pittore olandese -il dottor Gachet, Théo, il postino Roulin, Pére Tanguy- assumono il volto di attori veri che hanno posato dal vivo interpretandoli a partire dai ritratti originali; nel flusso della trama, la sequenza si fissa momentaneamente sulle riproduzioni di più di cento quadri tra i più famosi, o parti di essi. Vedere con gli occhi di Van Gogh, entrare nel suo mondo: è un sogno già evocato da Kurosawa in Yume nel 1990, che in questo film genera, però, un pasticcio enfatico, stucchevole e menzognero. Siamo oltre i problemi posti dalla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte e dalla sua diffusione: nonostante la somiglianza delle immagini del film con i dipinti originali, ciò che viene riprodotto non è la pittura di Van Gogh, ma un’imitazione superficiale e approssimativa che riduce la strenua ricerca dell’artista a un cliché, a uno stile, semplificandone i valori e i caratteri.
Nella società della post-truth, in cui la manipolazione dei fatti interviene proditoriamente proprio nella comunicazione e nella trasmissione del sapere e della memoria, ciò significa cambiare la verità di un uomo realmente vissuto, l’artista, e di un fatto realmente accaduto, la sua arte. E in questo stesso modo, anche la sceneggiatura di Loving Vincent travisa la verità: normalizzato e reso più avvenente il volto irregolare e sgradevole che conosciamo dai suoi strazianti autoritratti, da cui quello sguardo tenero, truce, disperato e nudo ci fissa e ci inchioda, si scagiona Vincent Van Gogh dallo scandalo del gesto suicida, facendo di lui l’oggetto di una melensa compassione. Facendo di lui, ancora una volta, il “suicidato della società”. Ma noi, commossi, appagati e impigriti, non ci accorgiamo di aver assistito a tutto questo.
1 Dal sito dell’azienda CoopCulture, che ha gestito la mostra http://www.coopculture.it/events.cfm?id=594
2 “Dall’utopia all’architettura: il progetto tridimensionale delle Carceri della Scuola Superiore Sant’Anna”, in Piranesi. La fabbrica dell’utopia, a cura di Luigi Ficacci e Simonetta Tozzi, De Luca Editori d’Arte, 2017
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