domenica 22 ottobre 2017

Canapa. «La canapicoltura o si fa insieme o non si fa»: Cereris, l’azienda agricola che punta su una pianta antica per il futuro del territorio.

Due anni fa a Cervinara è partita da zero una sperimentazione interessante sulla coltura di canapa da semi per fini alimentari ad opera di Francesco Procacci: a trentatré anni con una laurea in marketing e diverse esperienze di lavoro sia sul territorio nazionale che all’estero, ha deciso di tornare a casa e di recuperare i terreni di suo nonno che sono rifioriti e hanno dato vita a questa azienda, oggi tra castagne e ciliegie ci sono otto ettari coltivati a canapa in Valle Caudina.

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Quella della canapa è una storia bella da raccontare su una pianta antica - l’Italia negli anni ’40 era la prima per qualità e la seconda per quantità nella produzione – che oggi punta alla conquista di un futuro eco sostenibile attraverso impieghi differenti.
Due anni fa a Cervinara è cominciata una sperimentazione interessante sulla coltura di canapa da semi (una parte diversa della pianta rispetto alle infiorescenze utilizzate per la Kanabeer Hirpina di Gerardo Molettieri). Francesco Procacci è partito da lontano, a trentatré anni con una laurea in marketing e diverse esperienze di lavoro sia sul territorio nazionale che all’estero, ha deciso di tornare a casa e di recuperare i terreni di suo nonno che sono rifioriti e hanno dato vita all’azienda agricola Cereris: «Oltre alla produzione di castagne e di ciliegie, mi interessava iniziare una coltura di canapa concentrata sul seme per fini alimentari, in totale siamo sugli otto ettari, senza contare le sei particelle sparse su altri terreni per valutare le differenze da un versante all’altro. La crescita dipende molto dalle caratteristiche della terra, la canapa cerca terreni sciolti, quelli irpini sarebbero votati a questo tipo di coltivazione, più nella Valle Caudina, dove la composizione del terreni rende la zona ottima per la canapicoltura, che in Alta Irpinia ad esempio».

Cereris è un azienda a Km0 che predilige la filiera corta. Francesco produce semi da cui ricava oli e farine e da quest’anno ha iniziato i primi tentativi per lavorare le fibre: «Ho parecchie tonnellate di paglia in campo, derivate da una coltivazione di varietà italiane che ha prodotto piante alte fino a sei metri, le fibre lunghe sono la base da cui si parte per fare il filato di canapa, al momento ho prodotto soltanto dei prototipi di tessuti con un telaio, tutto molto artigianale. Il problema sul tessile – nonostante la lunga e preziosa tradizione della Campania nell’industria manifatturiera e di trasformazione che affiancava i coltivatori di canapa – sorge nel momento in cui l’unico impianto di trasformazione per la paglia di canapa si trova a Taranto e viene valutata 15 euro al quintale prima della prima lavorazione, ci sono agricoltori che da anni aspettano i pagamenti. Questo non incentiva sicuramente ad investire nel settore».
Ma a Cervinara si producono anche infiorescenze selezionate di canapa, nonostante venire a capo della normativa che regola la vendita dei fiori per uso tecnico risulti ancora abbastanza complesso: «C’è un dibattito tuttora aperto tra i produttori, perché molte realtà legate esclusivamente al fiore si trovano oggi in un limbo, quello in cui ancora non si capisce qual è il contenuto minimo consentito di Thc e Cbd (cannabidiolo), esiste solo una bozza per normare i livelli, ma il mercato italiano ha molti più limiti. Tra semi e fiori resta ancora tutto da appurare, le coltivazioni autorizzate possono avere fino allo 0,6% di tasso di Thc in campo».
Eppure Francesco va avanti con la sua azienda agricola partita da zero, perché coltivare la canapa ha molti vantaggi: «Non è un percorso facile, mi sto dedicando soltanto a questo, la burocrazia in campo agricolo è complessa, estremamente lenta e non ci sono aiuti specifici per la canapicoltura anche se per la Campania esiste una legge regionale sulla cannabis terapeutica e industriale. Continuo a perseguire questa strada perché le piante consentono di ricavare più di un prodotto, coltivarla ad una serie di condizioni – terreno abbastanza umido, zone non troppo marginali – non c’è praticamente mai bisogno di annaffiarla. Ad esempio, questo è stato un anno siccitoso e le piante sono cresciute senza acqua di circa dieci centimetri al giorno, questo per una coltivazione industriale è un grande beneficio. Le piante hanno radici molto profonde, non richiedono l’utilizzo di prodotti fitosanitari, perché non incorrono in particolari patologie, al 99% tutta la canapa è coltivata senza pesticidi e cresce vigorosa, priva di infestanti. A rotazione si integra anche nelle coltivazioni di grano per le sue proprietà fitodepurative».
I problemi sorgono sui vuoti tecnologici: «Questa è una coltivazione che necessita di specifici macchinari che qui in Italia non esistono, la mietitrebbia fa fatica a spezzare piante così alte e si inceppa. Servirebbero barre per la raccolta che arrivano fino a quattro metri, serve assolutamente un’evoluzione meccanica che renda i lavori possibili, servirebbero macchinari per la vera spremitura a freddo dei semi, un impianto di trasformazione in regione che però costa oltre un milione di euro e qui subentra un’altra difficoltà, la capacità di fare rete tra coltivatori, perché non si collabora, nemmeno in Irpinia. Si parla di filiera, di centri di lavorazione comuni, ma alla fine ognuno si impegna solo per se stesso».
Un sistema lento, gli anni passano e la Campania si sta svegliando solo adesso: «Bisogna correre sulle norme di sviluppo per queste coltivazioni. Dovrebbe nascere un ente regionale per la canapa in grado di coinvolgere tutti, dal piccolo al grande coltivatore. Una sorta di coordinamento formale, con un protocollo di coltivazione, basterebbe mettersi insieme anche solo per impegnarsi nella sperimentazione o per la creazione di un impianto di prima trasformazione, senza questo il settore non decollerà mai. La necessità ora è quella di passare dalle parole ai fatti in maniera seria, per reinserire nella nostra tradizione una coltura in modo concreto ed innovativo. L’assessorato all’agricoltura della Regione Campania, lo stesso Dipartimento devono muoversi fuori dalle solite logiche per favorire davvero la crescita della canapicoltura».

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