Tutti infatti abbiamo la percezione di una trasformazione profonda del nostro modo di gestire le relazioni, gli stati d’ansia, la capacità di attenzione o di concentrazione, le moltissime condotte di vita, tutte in qualche modo alterate dalla progressiva pervasività della Rete. Quindi siamo certamente in grado di azzardare ipotesi e forse vedere ciò che la ricerca ancora non è stata in grado di dimostrare attraverso le proprie procedure. La Wallace cerca dunque di accennare alle nostre attese e preoccupazioni, basate su sensazioni non infondate, senza mai scivolare nell’approssimazione.
C’è poi un altro sforzo di medietà. Indubbiamente è opinione di molti che la Rete offra grandi opportunità e facilitazioni pratiche e professionali. Tuttavia, in molti si dichiarano pessimisti sull’uso e l’abuso della connettività. E la Wallace prova a tenere fermi gli effettivi rischi sociali e psicologici di Internet, insieme a un certo grado di ottimismo, relativo alla nostra capacità di apprendimento dell’uso corretto del web.
L’autrice è molto onesta nel motivare la propria difficoltà, constatando che “i ricercatori che intendono studiare come la rete influenzi il comportamento si trovano di fronte un obiettivo in costante movimento” (p. 2).
Un tipico esempio è relativo al narcisismo. Molte persone hanno la forte percezione di essere diventate più narcisiste con l’uso dei social, o quanto meno che lo siano diventati i loro conoscenti. Tuttavia la questione non è così semplice, e i dati sperimentali non sono in grado di dimostrare se la componente personologica narcisista trovi nella Rete solo uno strumento per autoalimentarsi, oppure se il mezzo stesso sia in grado di determinare una trasformazione nei soggetti particolarmente immersi negli ambienti virtuali. Da un punto di vista strettamente psicologico, non esistono evidenze che dimostrino un aumento del narcisismo, ma semmai esso trova nella contemporaneità strumenti per manifestarsi a un pubblico più vasto. L’autrice non si sbilancia, ma forse potremmo proseguire il suo ragionamento, e aggiungere che questa capacità amplificante del mezzo, non può non avere ripercussioni sul sistema emotivo del soggetto, e sul suo bisogno costante di un più ampio ventaglio di apprezzamenti e riconoscimenti.
Molto importante e interessante la sezione dedicata all’ambiguità delle comunicazioni online. Di questo ci rendiamo poco conto, mentre invece il rischio d’equivoco, nonostante il ricorso a emoticon o escamotage d’ogni genere, è sempre altissimo.
Fornendo solide prove sperimentali, la Wallace dimostra quanto debole sia su questo tema il nostro grado di consapevolezza: “di solito, siamo convinti della chiarezza delle nostre comunicazioni, quando invece esse sono spesso piuttosto ambigue e facili da fraintendere” (p. 135). L’ironia non viene quasi mai colta, e la sicurezza con la quale siamo certi che i toni dei nostri messaggi siano afferrati dal destinatario, parrebbe stimolata da un eccesso di egocentrismo che caratterizza la comunicazione online, che essendo priva di contatto oculare e vicinanza fisica, riduce di molto la connessione empatica. Probabilmente questa forma di egocentrismo, unita alla possibilità dell’anonimato, è uno dei fattori scatenanti dell’aggressività in Rete, su cui pure l’autrice si dilunga molto, senza tuttavia scandagliare le forse più profonde radici sociali della rabbia collettiva.
Per altro verso, vi sono molti casi e situazioni sperimentali che lasciano emergere una maggiore disposizione all’aiuto e alla richiesta di aiuto, insieme a una rafforzata inclinazione verso la self-disclosure. C’è un meccanismo di facilitazione del sentimento della vicinanza all’altro, determinato proprio dalla lontananza fisica. Non vedo l’altro, lui non vede me. I nostri spazi non s’invadono. Ciò che dell’altro potrebbe infastidirmi non si manifesta e dunque, probabilmente per il sentimento di sicurezza che mi circonda, sono più propenso ad ascoltarlo e a lasciarmi coinvolgermi dai suoi problemi. In fondo, in teoria, posso disconnettermi quando voglio.
Ecco, questo è un punto importante. Quanto più crediamo di poter naturalmente decidere i tempi e i modi della nostra connessione, tanto più stiamo diventando irrimediabilmente dipendenti dalla socialità online e dagli ambienti virtuali. Tali contesti sono così appaganti da stravolgere completamente il nostro sistema di percezione dei premi e delle punizioni. È un po’ come il fenomeno della pornografia in Rete. Non è nulla di nuovo, il porno è sempre esistito. Ma la sua gratuita e onnipresente disponibilità rende possibile in ogni momento entrare in un ambiente che propone un sistema di gratificazioni, che crea dipendenza, e che però finisce per generare insoddisfazione nei confronti dell’esperienza reale.
Ecco che la socialità online, con i suoi rinforzi da “notifica”, “mi piace”, “share”, produce continue scariche di dopamina che rendono non solo il nostro sistema nervoso irrimediabilmente teso ad adoperarsi per ottenere la scarica successiva, ma rischiano di rendere gli uomini e le donne insoddisfatti delle relazioni non virtuali.
Questo discorso concerne anche l’esperienza politica. La dimensione dei forum e dei blog, dove convergono simultaneamente vocazioni alla cooperazione, sfoghi di frustrazioni e aggressività, e sistemi di reciproco rinforzo sociale, producono col tempo una forma di dipendenza, e anche di allontanamento dal concetto tradizionale di militanza e partecipazione. Senza offrire qui giudizi di valore, occorre capire che questo cambiamento esiste, ed è già incarnato nelle esistenze di ciascuno. Molte persone interrompono le proprie discussioni faccia a faccia, ne sfuggono, e pochi minuti dopo le continuano tramite whatsapp in lunghi e articolati messaggi. Perché?
La rete garantisce di un sistema protetto di comunicazione, che riduce i rischi ma è anche capace di strutturare rapporti e legami. Il concetto è complesso, ambiguo e ha ragione la Wallace a non volerlo banalizzare. Questa trasformazione è in corso, “dalla media alla fine delle superiori, infatti, i ragazzi trascorrono circa un’ora e mezza al giorno a scrivere SMS” (p. 305), se poi sommiamo a questo tempo quello dedicato ai diversi social network cui sono iscritti e dai quali sono costantemente sollecitati, ci rendiamo perfettamente conto che il sistema cognitivo non può non subire una drastica mutazione.
Valori, norme e modelli sociali, tendono a essere veicolati attraverso la Rete. E non basta auspicare un uso del web come mero strumento per trasmettere più nobili aspirazioni, perché il medium è il messaggio, ed esso in sé quella trasformazione cognitiva la produce, anche se i contenuti del messaggio tendono a veicolare l’opposto.
Sicuramente l’impatto del web sullo studio e sui livelli di apprendimento è negativo. Ormai, nonostante tutta la propaganda degli ultimi anni, le ricerche offrono dati affidabili. In precedenza alcune osservazioni sperimentali avevano rilevato effetti positivi del computer e di Internet sul rendimento scolastico di alcuni studenti, specialmente in lingua inglese, matematica e scienze. Tuttavia, ricerche più recenti hanno osservato “effetti molto esigui, insignificanti, o addirittura negativi, soprattutto per gli alunni che usano il computer con frequenza maggiore” (p. 307). Per gli studenti particolarmente legati ai videogiochi online, la dipendenza è il rischio maggiore, e questa trascina con sé ampie aree di tempo impiegate in attività ludiche, ma anche perdita del sonno e cattiva alimentazione, con conseguenze inevitabili sullo studio.
Anche il multitasking è un falso mito, secondo la Wallace. Molte ricerche sono arrivate a dimostrare con ragionevole certezza che non esiste nessuna reale competenza di fare più cose insieme, per le giovani generazioni. Questa polifunzionalità dell’essere umano concerne solo compiti pratici, parte dei quali hanno un elevato grado di automatismo, che non richiedono cioè una vera applicazione mentale. La sollecitazione dei telefoni o del solo desiderio di sbirciare gli aggiornamenti di Facebook, tende quindi a pregiudicare le performance nell’apprendimento.
Importanti e intriganti sono i paradossi sulla privacy individuati dalla Wallace. Razionalmente sappiamo che la Rete è un sistema di controllo capillare dei comportamenti degno del panopticon, non leggiamo mai l’informativa sulla privacy quando scarichiamo una app, e sappiamo coscientemente che le grandi multinazionali si arricchiscono grazie ai nostri dati e con essi muovono parti importanti delle nostre vite. Lo sappiamo, ce ne preoccupiamo, lo denunciamo magari, eppure sembra che non riusciamo a fare a meno di mettere in rete una quantità infinita e tutto sommato superflua di informazioni sul nostro conto. Dove siamo, cosa mangiamo, chi frequentiamo, cosa stiamo pensando. Inviamo messaggi attraverso la rete anche condividendo l’intimità, pur sapendo che per un errore o per malafede i nostri testi, foto o video potrebbero improvvisamente finire al destinatario sbagliato, o diventare di dominio pubblico.
Il fatto è che il livello di dipendenza è ormai fuori controllo: “un sondaggio ha indagato la frequenza d’uso dei social network su una sezione trasversale di americani, dagli adolescenti ai cinquantenni. Circa un terzo degli adolescenti e dei giovani adulti ha affermato di controllare Facebook almeno ogni quindici minuti. Ciò significa che non riuscirebbero a partecipare a una lezione in classe o a una cena in famiglia senza controllare diverse volte cosa succede nel mondo online” (p. 441).
Se ogni mattina il vostro primo gesto è controllare lo smartphone per cercare gli aggiornamenti, prima o poi finirete per svegliarvi di notte, per monitorare le notifiche e poi faticare a riprendere sonno. Probabilmente l’umanità riuscirà a trovare un sistema di naturalizzazione di questi processi. E Internet sarà per noi una condizione normale come lo è l’elettricità. Al momento, tuttavia, ci aspetta una difficile fase di transizione.
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