“Colui
che attende una rivoluzione sociale pura non la vedrà mai; egli è un
rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione.”
Vladimir Il’ič Ul’janov “Lenin”
E improvvisamente ci siamo trovati a
leggere considerazioni di compagni che sembrano ignorare, o aver
dimenticato, la complessa relazione tra internazionalismo e indipendenza nazionale.
Una relazione, diciamolo subito, che è stata un’architrave del
movimento comunista storico, permettendo di sposare la spinta alle
rivoluzioni (inevitabilmente limitate a singoli territori nazionali,
anche se ovviamente internazionaliste come visione generale) con l’unità
sovranazionale del movimento (almeno fin quando Urss e Cina non hanno
seguito strade diverse).
Una relazione così ben congegnata da essere riconosciuta – a fatica, obtorto collo,
sotto la pressione di un rapporto di forza quasi paritario – anche
dall’imperialismo occidentale. Il “principio di non ingerenza negli
affari interni di un altro Stato” era ovviamente più formale che
effettivo, e sono sempre stati in atto i tentativi di spostare questo o
quel paese dalla propria parte utilizzando malcontento popolare,
rivendicazioni nazionali. Ma era comunque il principio regolatore delle
relazioni internazionali, un “dato di fatto” diplomatico quanto
l’inviolabilità delle ambasciate.
Poi
cadde il Muro, l’Unione Sovietica ammainò la bandiera e cominciò a
smembrarsi in tanti Stati… Quel principio venne velocemente sostituito
dall’”ingerenza umanitaria” – che fece il suo esordio ufficiale con la
guerra contro l’ex Jugoslavia – ovvero dal diritto degli Stati Uniti di
decidere quali paesi dovevano essere invasi e distrutti, col supporto di
“coalizioni di volenterosi”.
Questa
era solo l’espressione militare della “globalizzazione”, ossia della
dell’estensione del modo di produzione capitalistico su interi
continenti – per dimensioni e popolazione – che erano stati fin lì
gestiti dal “socialismo reale”. La globalizzazione ideologica ha
progressivamente innervato tutti i centri di elaborazione del pensiero, i
media, il discorso comune, al punto che concetti storici alla base
della stessa rivoluzione borghese (sovranità, popolo, classi, interessi
contrapposti, ecc) sono sono stati re-inventati come disvalori
penalizzanti (sovranismo, populismo, nazionalismo, divisivo, ecc).
Il peso del pensiero unico
è venuto dunque fuori con tutte le sue aporie proprio nella vicenda
catalana, che ha fatto cortocircuitare concetti che sembravano chiari
(vedi Rivolta catalana, crisi europea).
Proviamo
perciò a vedere qualche precedente storico in cui la relazione
internazionalismo/indipendenza nazionale è stata gestita concretamente
dal potere rivoluzionario. E facciamo perciò l’esempio della Finlandia,
un paese piccolo come popolazione, storicamente parte costitutiva della
Russia zarista per ben 700 anni (quanto la Catalogna con la Spagna, insomma).
La
Finlandia moderna ha raggiunto l’indipendenza il 6 dicembre del 1917,
pochi giorni dopo la Rivoluzione d’Ottobre. A firmare la concessione
dell’indipendenza – come si può leggere nel brevissimo e quasi informale
atto qui riprodotto – è il vertice del Partito bolscevico, a partire da
Lenin, seguito da Stalin, Trotsky, Kamenev, ecc.
Nessun
problema ideologico e teorico, dunque, nel riconoscere il diritto di un
popolo a staccarsi da un legame storico plurisecolare. Anche se questo
gesto era doloroso, per i comunisti neo-sovietici.
In
Finlandia, infatti, e da anni, si andava combattendo una sorta di
guerra civile tra formazioni “socialdemocratiche” (in cui era difficile
distinguere bolscevichi e menscevichi) e “bianche”, con milizie armate e
forte contrapposizione di classe. I “bianchi” erano ovviamente al
servizio dei relativamente pochi possidenti all’interno di una paese
fondamentalmente agricolo, dedito all’allevamento e poco altro.
Per di più, prima della caduta dello Zar, i “rossi” finlandesi erano fieramente indipendentisti, mentre i “bianchi” erano naturalmente con il regime, che garantiva protezione e repressione.
Nella
concessione dell’indipendenza alla Finlandia, oltre a fattori puramente
russo-finlandesi, pesavano anche le prime trattative di pace per porre
fine alla guerra sul territorio russo, in modo da concentrare le forze
nella guerra civile interna con le “armate bianche”, la pressione
militare occidentale controrivoluzionaria, e cominciare a costruire il
modo di produzione socialista.
Lasciar libera la Finlandia di diventare paese indipendente fu dunque una scelta politica, in cui si soppesavano vantaggi e svantaggi, ma che soprattutto prendeva atto della volontà di un popolo peraltro
diviso sulle prospettive da darsi. La Germania stava già sostenendo i
“bianchi” contro i “rossi”, con i primi improvvisamente convertiti al
credo indipendentista mentre i “rossi” cominciavano a guardare
all’Unione Sovietica come un orizzonte appetibile.
Come
ogni scelta politica era tutto sommato reversibile, tanto da
trasformarsi – venti anni dopo – nella “guerra d’inverno” tra Urss e
Finlandia, a latere dell’accordo Molotov-Ribbentropp con cui i sovietici
guadagnavano un anno in più prima di essere attaccati dalla Germania
nazista.
La
storia dell’indipendenza finlandese, insomma, insegna quantomeno che
per il vertice della Rivoluzione russa il problema non esisteva come
definizioni astratte, ma come soluzioni concrete. Fermo restando il
principio per cui non si può imporre a un popolo di farsi comandare da
altri. L’internazionalismo proletario, insomma, prevede il consenso ad unirsi.
Mentre il nazionalismo borghese reazionario e il “globalismo
capitalista” di qualche anno fa ne fanno volentieri a meno. Anzi, non
chiedono neanche permesso.
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