venerdì 6 ottobre 2017

Internazionalismo e indipendenza, una questione di classe.

“Colui che attende una rivoluzione sociale pura non la vedrà mai; egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione.”
Vladimir Il’ič Ul’janov “Lenin”

 E improvvisamente ci siamo trovati a leggere considerazioni di compagni che sembrano ignorare, o aver dimenticato, la complessa relazione tra internazionalismo e indipendenza nazionale. Una relazione, diciamolo subito, che è stata un’architrave del movimento comunista storico, permettendo di sposare la spinta alle rivoluzioni (inevitabilmente limitate a singoli territori nazionali, anche se ovviamente internazionaliste come visione generale) con l’unità sovranazionale del movimento (almeno fin quando Urss e Cina non hanno seguito strade diverse).
Una relazione così ben congegnata da essere riconosciuta – a fatica, obtorto collo, sotto la pressione di un rapporto di forza quasi paritario – anche dall’imperialismo occidentale. Il “principio di non ingerenza negli affari interni di un altro Stato” era ovviamente più formale che effettivo, e sono sempre stati in atto i tentativi di spostare questo o quel paese dalla propria parte utilizzando malcontento popolare, rivendicazioni nazionali. Ma era comunque il principio regolatore delle relazioni internazionali, un “dato di fatto” diplomatico quanto l’inviolabilità delle ambasciate.
Poi cadde il Muro, l’Unione Sovietica ammainò la bandiera e cominciò a smembrarsi in tanti Stati… Quel principio venne velocemente sostituito dall’”ingerenza umanitaria” – che fece il suo esordio ufficiale con la guerra contro l’ex Jugoslavia – ovvero dal diritto degli Stati Uniti di decidere quali paesi dovevano essere invasi e distrutti, col supporto di “coalizioni di volenterosi”.

Questa era solo l’espressione militare della “globalizzazione”, ossia della dell’estensione del modo di produzione capitalistico su interi continenti – per dimensioni e popolazione – che erano stati fin lì gestiti dal “socialismo reale”. La globalizzazione ideologica ha progressivamente innervato tutti i centri di elaborazione del pensiero, i media, il discorso comune, al punto che concetti storici alla base della stessa rivoluzione borghese (sovranità, popolo, classi, interessi contrapposti, ecc) sono sono  stati re-inventati come disvalori penalizzanti (sovranismo, populismo, nazionalismo, divisivo, ecc).
Il peso del pensiero unico è venuto dunque fuori con tutte le sue aporie proprio nella vicenda catalana, che ha fatto cortocircuitare concetti che sembravano chiari (vedi Rivolta catalana, crisi europea).
Proviamo perciò a vedere qualche precedente storico in cui la relazione internazionalismo/indipendenza nazionale è stata gestita concretamente dal potere rivoluzionario. E facciamo perciò l’esempio della Finlandia, un paese piccolo come popolazione, storicamente parte costitutiva della Russia zarista per ben 700 anni (quanto la Catalogna con la Spagna, insomma).
La Finlandia moderna ha raggiunto l’indipendenza il 6 dicembre del 1917, pochi giorni dopo la Rivoluzione d’Ottobre. A firmare la concessione dell’indipendenza – come si può leggere nel brevissimo e quasi informale atto qui riprodotto – è il vertice del Partito bolscevico, a partire da Lenin, seguito da Stalin, Trotsky, Kamenev, ecc.
Nessun problema ideologico e teorico, dunque, nel riconoscere il diritto di un popolo a staccarsi da un legame storico plurisecolare. Anche se questo gesto era doloroso, per i comunisti neo-sovietici.
In Finlandia, infatti, e da anni, si andava combattendo una sorta di guerra civile tra formazioni “socialdemocratiche” (in cui era difficile distinguere bolscevichi e menscevichi) e “bianche”, con milizie armate e forte contrapposizione di classe. I “bianchi” erano ovviamente al servizio dei relativamente pochi possidenti all’interno di una paese fondamentalmente agricolo, dedito all’allevamento e poco altro.
Per di più, prima della caduta dello Zar, i “rossi” finlandesi erano fieramente indipendentisti, mentre i “bianchi” erano naturalmente con il regime, che garantiva protezione e repressione.
Nella concessione dell’indipendenza alla Finlandia, oltre a fattori puramente russo-finlandesi, pesavano anche le prime trattative di pace per porre fine alla guerra sul territorio russo, in modo da concentrare le forze nella guerra civile interna con le “armate bianche”, la pressione militare occidentale controrivoluzionaria, e cominciare a costruire il modo di produzione socialista.
Lasciar libera la Finlandia di diventare paese indipendente fu dunque una scelta politica, in cui si soppesavano vantaggi e svantaggi, ma che soprattutto prendeva atto della volontà di un popolo peraltro diviso sulle prospettive da darsi. La Germania stava già sostenendo i “bianchi” contro i “rossi”, con i primi improvvisamente convertiti al credo indipendentista mentre i “rossi” cominciavano a guardare all’Unione Sovietica come un orizzonte appetibile.
Come ogni scelta politica era tutto sommato reversibile, tanto da trasformarsi – venti anni dopo – nella “guerra d’inverno” tra Urss e Finlandia, a latere dell’accordo Molotov-Ribbentropp con cui i sovietici guadagnavano un anno in più prima di essere attaccati dalla Germania nazista.
La storia dell’indipendenza finlandese, insomma, insegna quantomeno che per il vertice della Rivoluzione russa il problema non esisteva come definizioni astratte, ma come soluzioni concrete. Fermo restando il principio per cui non si può imporre a un popolo di farsi comandare da altri. L’internazionalismo proletario, insomma, prevede il consenso ad unirsi. Mentre il nazionalismo borghese reazionario e il “globalismo capitalista” di qualche anno fa ne fanno volentieri a meno. Anzi, non chiedono neanche permesso.

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