«Kim è chiaramente un matto, un pazzo (Madman), che verrà messo alla prova come mai prima» (Donald Trump, all’Assemblea Onu, contro il capo nord-coreano Kim Jong-un). Pronta la risposta di Kim: «Trump è un folle rimbambito che pagherà caro la minaccia di totale distruzione del nostro paese». Trump a Kim: «Sei un piccolo uomo-razzo (Rocket Man)» - Trump a Kim: «E tu una canaglia e un bandito, desideroso di giocare con il fuoco». Ma col fuoco, col fuoco atomico, stanno giocando in due.
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Chi è il matto? Nessuno, l’uno, l’altro o tutti e due?
Siamo al teatro dell’assurdo: un crescendo di minacce militari e insulti personali senza freno. Non si sa se ridere o piangere, data la stramberia dei due personaggi e la causa del contendere: la questione nucleare. Come può, mi chiedo, il moscerino Kim, col suo piccolo arsenale di missili e armi nucleari, illudersi di spaventare il pachiderma Usa, tuttora la più grande potenza atomica del mondo, seguita da vicino solo dalla Russia di Putin? Ma poi, perché il lillipuziano nordcoreano insiste deliberatamente a sfidare il gigante rivale, in un ineguale e forsennato braccio di ferro? A che gioco giocano i due novelli Davide e Golia? E tuttavia, con le armi atomiche non si scherza, dato il loro immane potere di distruzione.
Non è qui il caso di tentare un’analisi geopolitica della situazione, delicata e complessa, dell’area del Pacifico settentrionale e del’Est asiatico. Dove sono molti gli attori, a vari livelli: dagli Usa (il cui egemonismo in quell’aria data almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale, allorché lo Stato nipponico fu annientato, guarda caso!, proprio dalle due atomiche su Hiroshima e Nagasaki), alla Cina popolare (una potenza ormai più che regionale, in ascesa continua, e dotata di armamento nucleare), a Taiwan (tuttora legata agli Usa da un accordo di difesa militare) al Giappone (anch’esso sotto tutela Usa, ma da alcuni anni in fase di riarmo, anche con basi antimilistiche, e in funzione anticinese) e alle due Coree. Il conflitto, per ora solo verbale, tra Kim e Trump, al contrario di ciò che sembra, non è affatto banale o insignificante, perché è l’iceberg di questa complessa situazione geopolitica, che ha di fatto per ora negli Usa e nella Cina popolare i suoi principali protagonisti.
Forse non è inutile, per meglio capire lo strano scontro tra Kim e Trump, soltanto accennare alla storia drammatica delle due Coree: nate nel 1948, in clima di Guerra fredda, quale frutto della spartizione (come l’ex Germania) tra Usa e Urss, sono state poi lacerate fino ad oggi da alterni e insolubili conflitti diplomatici, politici e militari – atroce soprattutto la guerra del 1950-1953, finita senza un trattato di pace). Il presente, si sa, affonda le sue radici nel passato. In ogni caso, la Corea del Sud è tuttora, di fatto, un protettorato della superpotenza americana, sotto il suo ombrello nucleare (numerose sono le basi militari antimissilistiche statunitensi, occupate da 30.000 soldati; oggi il governo sud-coreano chiede di potersi armare anche di missili atomici di attacco).
Invece la Corea del Nord, dopo il crollo dell’Urss, abbandonata dai nuovi governanti russi, e in grave crisi economica, si è sentita sicuramente militarmente indifesa e internazionalmente isolata (troppo debole e insicura l’alleanza con la Cina). Da ciò, sin dagli anni Novanta, il suo proprio programma di militarizzazione nucleare, sempre più pretenzioso e ambizioso. Fino alle performances attuali di Kim Jong-un e del suo apparato militare e di propaganda. Dal suo dissidio con Trump emergono dunque, a me sembra, motivazioni politiche contrapposte, in linea con la storia del Novecento: imperiali(stiche) quelle dell’uno, nazionali(stiche) quelle dell’altro. Ma non si tratta qui di schierarsi con l’uno contro l’altro, in base a ideologismi preconcetti. Bensì di soppesare la pericolosità oggettiva delle minacce reciproche.
Qui sta il problema, che riguarda tutti noi. Si sa che se si tira troppo la corda, la corda si spezza. A forza di disturbare, punzecchiare il dragone che dorme (quello atomico), il dragone si sveglia. Il delirio delle parole in libertà può trasformarsi in profezia che si auto-avvera. In questo senso, chi è il matto? Kim, Trump o tutti e due? Scegliete voi. «In un mare di fiamme», come minaccia il portavoce nordcoreano, non finirebbero solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero: questo mi sembra indiscutibile. Mi paiono opportune, a questo punto, due ordini di considerazioni: storico e filosofico.
1) Sotto il riguardo storico, occorre sapere, o non dimenticare, che per ben due volte il mondo è stato sul tragico orlo di una guerra mondiale nucleare:
a) la prima nell’ottobre 1962, durante la crisi missilistica di Cuba, allorché, a bordo del sottomarino atomico russo B-59, il capitano Vasili Arkhipov si oppose alla decisione degli altri due ufficiali al comando del sottomarino di lanciare un missile a testata nucleare contro la flottiglia americana in superficie, evitando così la deflagrazione della Terza guerra mondiale, e quindi la potenziale autodistruzione del genere umano. Fatto analogo a quello accaduto contemporaneamente nel fronte avverso, dove il comandante William Bassett rifiutò di far partire contro l’Urss da Okinawa in Giappone i 4 missili atomici di cui disponeva, saggiamente giudicando strano e improbabile l’ordine di attacco così come i modi di comunicarglielo (il maggiore che diede arbitrariamente l’ordine, fu poi processato e condannato).
b) la seconda volta nella notte del 6 settembre 1983, allorché il comandante russo Stanislav Petrov, di fronte all’inspiegabile segnale, – apparso improvvisamente sui radar del sistema di preallarme sovietico, – dell’avvenuto lancio americano di un missile intercontinentale contro l’Urss, in pochi minuti intuì che si trattava di un errore del sistema, decidendo, in trasgressione del protocollo di difesa atomica del proprio paese, e rischiando la corte marziale, di non rispondere con un contrattacco (sulla vicenda confronta il documentario The man who saved the world). Vasili Arkhipov, William Bassett, Stanislav Petrov: sconosciuti eroi del nostro tempo, lontani dai riflettori, ignorati dai media. Forse perché ci imbarazzano. Perché mettono a nudo la nostra falsa coscienza. La nostra «cecità» di fronte al rischio dell’Olocausto nucleare.
2) Sotto il riguardo filosofico, occorre infatti dire, con Günther Anders, lo scrittore e pensatore ebreo-tedesco che più di tutti nel Novecento ha riflettuto sul tema, che Hiroshima ha cambiato radicalmente e irreversibilmente la nostra condizione esistenziale e lo stato del mondo. Data da allora una nuova era, l’era del Nichilismo atomico. Anders lo spiega nei suoi scritti, tra cui: Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, del 1959, Tesi sull’età atomica, del 1960, e I morti. Discorso sulle tre guerre mondiali, del 1964, – scritti a suo tempo ingiustamente poco letti e conosciuti, ma che l’odierna «crisi nord-coreana» rende estremamente attuali.
Con la costruzione della bomba atomica, dice Anders, Il Nulla è diventato per la prima volta nella storia possibilità reale: la possibilità che tutto il reale si rovesci nell’irrealtà, l’Essere nel Non-Essere; un Nulla non nel senso speculativo-metafisico che «tutto è “nullo”, “insignificante”», ma nel senso storico-ontologico che «tutto è “distruttibile”, “annichilabile” allo stesso modo». Con una guerra nucleare l’intero globo diverrebbe un’immane torcia: un «globicidio», da cui nessuno uomo e nessun luogo sarebbe risparmiato; anche il futuro, la sopravvivenza dei figli e dei figli dei figli sprofonderebbe nel Nulla. Con l’atomica insomma siamo entrati «nel Tempo della Fine, nell’Endzeit, nel quale potremmo approntare ciascuno la morte dell’altro – se noi non lo impediamo»; altrimenti, conclude il filosofo con un gioco di parole che non è solo tale, «il Tempo della Fine si trasformerà nella vera e propria Fine dei Tempi».
Come dargli torto oggi, in cui sono ormai decine i paesi dotati di armi nucleari le più potenti e sofisticate? Ci sono oggi nel mondo, – lo documentano le organizzazioni pacifiste antinucleariste, – 20.000 (ventimila) testate nucleari (di cui 1930 possedute dagli Usa e 1790 dalla Russia), che hanno una potenza distruttiva di 600.000 (seicentomila) bombe di Hiroshima. Capaci quindi di devastare e sconvolgere la terra. Il dragone, che si gonfia e cresce in forme sempre più terrificanti, potrebbe svegliarsi, dunque, in qualsiasi momento, per dissennata scelta di folli politici, ma anche per caso, per un imprevedibile deficit o guasto degli apparati e congegni materiali, o per un involontario, ma esiziale, irreparabile errore o svista dei tecnici addetti.
«Se noi non lo impediamo», dice Anders. E come? Ci sono stati, nei decenni scorsi, dopo Hiroshima, da un lato numerosi movimenti, comitati e organizzazioni pacifiste, il cui attivismo ha tentato di promuovere lo sviluppo globale di una «coscienza antiatomica di massa»; dall’altro, una serie di iniziative a livello diplomatico e istituzionale, che ha coinvolto anche l’Onu, e che ha prodotto vari accordi statali multilaterali volti a limitare e a esorcizzare il rischio nucleare. Da qui bisogna ripartire. Il sostegno al Trattato di non-proliferazione nucleare (1970: non vi aderiscono Israele, India, Pakistan e Corea del Nord), finora scandalosamente disatteso anche dai paesi firmatari, e la lotta per il disarmo nucleare totale, e per la messa al bando delle armi nucleari, devono e possono dunque ritornare all’ordine del giorno.
In definitiva, uccidere il mostro atomico dalle mille teste, o testate, con l’arma del disarmo, è ancora e sempre possibile. Gli uomini l’hanno creato dal nulla («il plutonio non esiste in natura», lo dice la scienza), gli uomini possono ricacciarlo nel nulla.
(3 ottobre 2017
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