Fonte:
il manifestoAutore:
Mario Agostinelli, Bruno Ravasio
Il sondaggio condotto dall’Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop per Repubblica e
citato nei giorni scorsi da Ilvo Diamanti, ha rilevato che il 71% degli
italiani intervistati è favorevole all’ipotesi di ripristinare
l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Questo dato, anche se riferito a un sondaggio, conferma che la Corte
Costituzionale ha fatto un grande favore al governo Gentiloni (e ancor
più a Renzi) a non ammettere – con il pretesto di un difetto di
formulazione – il referendum per il ripristino dell’articolo 18 proposto
dalla Cgil e sostenuto da più di un milione di firme.
Ma, ancor più, dimostra che la protervia con cui Renzi ha cancellato
l’articolo 18 per i nuovi assunti, grazie anche all’acquiescenza passiva
dei parlamentari del Pd compresi quelli che ora ne sono usciti, ha
inferto un grave vulnus a un diritto fondamentale e come tale ancora percepito dalla maggioranza degli italiani.
Le nuove generazioni sono state private del ruolo che lo Stato –
tramite la giurisdizione e la funzione autonoma della magistratura –
dovrebbe avere nel controllo democratico del potere discriminatorio
delle imprese ed è proprio nella vita di tutti i giorni, all’interno
delle famiglie e delle comunità, che questa asimmetria di potere viene
verificata e sofferta e quindi manifestata nei sondaggi, nella
constatazione di un arretramento civile.
Ci si rende conto che la soppressione dell’art. 18 rafforza una
prospettiva industriale ed economica del Paese in cui la competizione
non vuole essere trasferita dai costi alla qualità, alla cooperazione,
all’immissione di tecnologia e conoscenza diffusa: tutti temi decisivi
di cui ci si riempie la bocca ad ogni aggiornamento di release
dell’innovazione (siamo a 4.0!), eppure mai affrontati, perché nella
quotidianità si lascia spazio e si schiaccia l’occhiolino ad un
accanimento vero e proprio sul fattore lavoro.
Quindi, più passa il tempo e più è difficile rassegnarsi all’idea che
una conquista di civiltà come quella contenuta nell’articolo 18,
l’elemento cardine dello Statuto dei Lavoratori, abbia potuto essere
abolita con tale disprezzo per lavoratrici e lavoratori e per la Cgil e
con tanta superficialità e ignoranza della storia.
Una conquista che ha avuto bisogno di quasi vent’anni di battaglie,
da quando Di Vittorio lanciò l’idea, alla definitiva approvazione della
legge nel maggio 1970, dei morti e dei feriti negli scontri con la
polizia scelbiana, di un ministro del lavoro come Giacomo Brodolini che –
pur sapendo di morire – si è battuto fino alla fine per mantenere la
promessa fatta ai lavoratori di Avola, nonchè della spallata decisiva
delle lotte dell’autunno caldo.
Da quel giorno la vita all’interno delle fabbriche cambiò. Nulla fu
più come prima: la totale subalternità dei lavoratori alle gerarchie
aziendali lasciò il campo alla coscienza di sé e all’affermazione della
propria dignità. E non è un caso che anche l’iscrizione (e la
democratizzazione!) al sindacato ebbe una vera e proprio esplosione
(vorremmo ricordarlo a quei sindacalisti della Cisl che oggi ripetono
l’antico slogan di Bruno Storti: “il nostro statuto è il contratto”).
Storie di cinquanta anni fa? No, attualissime pur con le profonde
trasformazioni della base produttiva oggi sempre più dissimile da quella
della tradizionale manifattura. Un’area sempre più vasta, anche nelle
prestazioni a tempo, ha ormai coscienza di nuovi diritti, ma non è in
grado di darsi rappresentanza diretta per conquistarli. E’ costretta
così a sperare in una attenzione “assistenziale” dall’esterno, magari
anche da parte di un sindacato a cui partecipa per affinità, ma senza
potersi organizzare da sé e farne parte attiva, attraverso
rivendicazioni, riunioni o lotte impraticabili se non a costo della
perdita del posto di lavoro.
Basta vedere le statistiche di questi giorni. Nei primi due mesi del
2017 i licenziamenti disciplinari sono aumentati del 30% rispetto ai
primi due mesi del 2016 e del 64% sullo stesso periodo del 2015. Ma
siamo solo all’inizio: man mano che aumenta la quota delle nuove
assunzioni non cresce solo la percentuale di licenziamenti disciplinari,
ma le iscrizioni al sindacato si riducono a zero o avvengono solo –
come ci confermano gli uffici vertenze della Cgil – per l’assistenza al
licenziamento.
Senza contare un effetto generale che si ripercuote su tutto il
sistema dei diritti, colpendo prioritariamente le fasce non protette del
lavoro precario ma arrivando a coinvolgere pure i lavoratori
formalmente garantiti, in un perverso esempio di “cattiva moneta” che
scaccia quella buona.
L’approvazione dello Statuto dei lavoratori rappresentò il culmine di
una battaglia per l’applicazione dei principi fondamentali della
Costituzione, che Vittorio Foa ha mirabilmente sintetizzato con
l’immagine della «Costituzione che varca finalmente i cancelli della
fabbrica». Per questo abbiamo considerato il Jobs Act come grimaldello
per la revisione costituzionale tentata con il referendum.
Ma il tentativo di stravolgere la costituzione è stato sonoramente
battuto, portando con sé anche la cancellazione dei voucher. A maggior
ragione, ci sono oggi le condizioni per pretendere la restituzione del
diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato. Non
possiamo dar per acquisito che la sentenza della Corte Costituzionale
ponga fine alla volontà di rimozione di quella ferita inferta a sangue
freddo. Vanno bene le proposte della Cgil di un ricorso alla Corte
Europea e di legge popolare per la Carta dei diritti universali del
lavoro, ma pensiamo che queste stesse iniziative devono essere inserite
nella richiesta “qui e ora” della restituzione dell’articolo 18.
E “riprendiamoci l’articolo 18” può diventare la parola d’ordine di
sostegno di una campagna per un nuovo referendum abrogativo sulla base
di un quesito semplificato, discriminante e unificante per una
federazione delle forze politiche di sinistra che si oppongono alla
deriva liberista del Pd renziano.
Avrebbe mandato uno sbuffo di sigaretta anche Valentino.
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giovedì 11 maggio 2017
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