Philippe Van Parijs racconta che l’idea del reddito universale, quella per cui oggi è universalmente noto, la formulò nel 1982 quando il Belgio – il paese dove vive e insegna all’università di Lovanio – era afflitto da una disoccupazione endemica. «Allora c’era la crescita economica – ricorda nel corso dell’incontro avuto in una pausa del salone dell’editoria sociale che si è tenuto nel fine settimana scorso a Roma -. La risposta dei padroni come dei sindacati a questo paradosso era di aumentare la crescita attraverso l’aumento della produttività. Una soluzione che non ha funzionato allora e non può funzionare oggi quando le prospettive di crescita sono remote. Eppure sia la sinistra che la destra convengono su un punto: la crescita resta l’unica condizione per dare lavoro. Questa alleanza si è saldata ancora di più negli ultimi anni. Su di essa oggi bisogna esercitare un dubbio sistematico. Rispetto a trent’anni fa il Prodotto interno lordo è superiore, ma la disoccupazione è aumentata ancora di più. Sotto la spinta delle istituzioni internazionali, si continua a insistere su un progetto che crea enormi problemi etici e sociali. Bisogna dare più sicurezza sociale a tutti, partendo dai bisogni di ciascuno, superando l’idea della crescita a tutti i costi. Questo è l’unico modo per liberarsi del paradosso di Easterlin: la crescita del Pil non ci rende più felici. Per questo sono convinto che il reddito universale inteso come allocazione universale sia una soluzione».
Come spiega questa identità di vedute tra la sinistra e la destra sulle politiche economiche europee?
Di cosa si tratta?
Non è un sussidio alla disoccupazione involontaria, categoria difficile da definire. Si tratta invece di un reddito universale di 200 euro mensili a testa per i residenti nell’Unione Europea che pagano le tasse. Lo si può finanziare con un’imposta sul valore aggiunto del 19% a livello europeo ed è modulabile sul costo della vita. Per i paesi ricchi non cambierebbe molto, però in paesi poveri come la Romania il reddito medio crescerebbe del 40%. Lo stesso effetto moltiplicatore potrebbe avvenire negli altri paesi. È una decisione politica. L’Europa dimostrerebbe di essere qualcosa in cui ci si può identificare, piuttosto che una burocrazia senza cuore. Con un Eurodividendo pagherebbe la prima parte del reddito di tutti e, in più, permetterebbe di stabilizzare i sistemi fiscali di tutti i paesi aderenti all’Unione Europea oggi fortemente divergenti.
Perché finanziarlo con l’Iva e non, ad esempio, con un sistema progressivo di tassazione a livello continentale?
Perché l’Iva è la tassa più comune in Europa, mentre la tassazione progressiva sui redditi varia notevolmente di paese in paese ed è una questione politica sensibile. In secondo luogo perché le tasse sui redditi oggi sono poco più progressive dell’Iva. Per finanziare l’Eurodividendo potrebbe essere usata anche la Tobin tax o la Carbon tax, ma l’importo sarebbe molto basso. Secondo alcune previsioni ottimistiche avremmo a livello europeo un dividendo compreso tra 10 e 14 euro.
Quando si parla di reddito universale, o di cittadinanza, la destra come la sinistra rispondono che non si possono «regalare» soldi senza chiedere nulla in cambio. Come risponde a questa obiezione?
Si potrebbe domandare a queste persone quanto ci costerebbe fare una guerra con gli stati vicini. Oppure quanto otteniamo dal fatto che in Europa c’è una maggiore concorrenza tra le imprese e che la mobilità tra i nostri paesi ci permette di essere più produttivi. Nessuno lo sa e nessuno lo saprà mai. È certo però che questi benefici siano distribuiti in modo molto diseguale nella popolazione europea. Gli Stati sono sempre più vulnerabili perché perdono i contribuenti netti che emigrano verso migliori condizioni di vita e di lavoro, mentre attraggono solo beneficiari netti. È un sistema che va riequilibrato a livello europeo anche per rendere più preziose le competenze esistenti. Un modesto Eurodividendo è un modo semplice ed efficace per garantire che alcuni di questi benefici raggiungano ogni europeo in modo tangibile.
In un’ormai celebre intervista al «Wall Street Journal», nel 2012 il governatore della Bce Mario Draghi sostenne che il modello europeo di welfare era superato perché non offre soluzioni alla disoccupazione giovanile. Per questo i sostiene che bisogna proseguire con le politiche di austerità, di liberalizzazione e di precarizzazione del lavoro a favore delle imprese. Ricette molto lontane da un’idea di giustizia sociale…
Questa impostazione non affronta il vero nodo europeo. Da un lato, pretende dagli Stati di modificare profondamente sistemi di welfare state anche molto diversi. Dall’altro lato non si preoccupa di creare meccanismi di stabilizzazione a livello sovranazionale con i quali gestire la crisi. L’Eurozona non è più sostenibile in questo modo. Abbiamo bisogno di una sicurezza sociale per tutti che combini la giustizia sociale con il dinamismo economico.
Sta proponendo un welfare sovranazionale, visto che quelli nazionali non vengono solo tagliati, ma sono sempre più inefficienti?
I nostri sistemi sono troppo diversi e in più hanno un problema di sostenibilità. Assodato che si tratta di riformare i welfare nazionali in senso universalistico, cerco di riformulare l’idea di una giustizia sociale al di là della comunità o dello stato-nazione. Nel mezzo c’è questa cosa strana dell’Unione Europea. Oggi i nostri governanti la pensano come un’impresa. Lo stesso fanno per gli Stati. Entrambi vengono considerati come un supporto ai movimenti dei capitali, ma non dicono mai nulla sui fattori di produzione. L’Eurodividendo andrebbe a sostenere i singoli sistemi sociali e li integrerebbe in un sistema di protezione continentale, garantendo la possibilità di un equilibrio tra la giustizia sociale e l’economia.
Esiste una forza capace di trasformare un’Europa che non è un aggregato di stati sovrani che cooperano per il bene comune, mentre le politiche di austerità fanno riemergere il nazionalismo, il populismo e la xenofobia?
Jon Elster la chiama «forza civilizzatrice dell’ipocrisia». È all’opera quando anche chi è mosso da interessi egoistici è costretto a sostituire l’interesse personale o politico con il ragionamento imparziale. Questo processo può influire su una politica che favorisce la capacità di deliberazione comune tra i popoli europei. La creazione di federazioni tra i partiti europei, come la competizione tra i candidati alla presidenza della Commissione che c’è stata nelle ultime elezioni vanno in questa direzione. La creazione di collegi europei da 25 deputati potrebbe essere un altro strumento. La società civile e i movimenti potrebbero spingere i leader politici a fare appello a una qualche nozione di interesse generale. Questi leader possono essere più o meno sinceri, ma la necessità di sembrare brave persone rispetto al loro elettorato finirà per incivilire non solo le loro parole, ma anche le loro politiche.
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