giovedì 4 maggio 2017

Migranti. Un diritto speciale per i migranti. Il fasciorazzismo del “decreto Minniti”.

Schermata del 2017-05-01 18-15-19E’ però necessaria un’analisi tecnica molto più precisa, tale da poter costituire i tratti fondamentali di una linea di difesa per i diretti interessati – i migranti e richiedenti asilo – e di contestazione del Decreto (ora approvato dal Parlamento e dunque diventato “legge”) davanti alla Corte Costituzionale.
E’ infatti palese – vista l’identica filosofia ispiratrice del secondo “Decreto Minniti”, relativo al “decoro urbano” e all’ordine pubblico – che siamo tutti sotto il tiro di un potere irresponsabile, servile con i forti e dispotico con i deboli (quelli che l’hanno votato sono gli stessi che hanno difeso il “diritto” di restare senatore di Augusto Minzolini, condannato in via definitiva), fasciorazzista nel profondo. Lo siamo come semplici cittadini e lavoratori, non come presunte “avanguardie” politiche impegnate nel conflitto sociale e sindacale.

La definizione di "fasciorazzismo" è supportata da due elementi convergenti: a) l'istituzione di una "giurisdizione separata per stranieri deboli" e b) l'introduzione di un sistema di regole giuridiche unitariamente miranti ad eliminare le possibilità di difesa legale. Dunque si vanno a sommare un orientamento tecnicamente "razzista" perché differenzia i sistemi di regole a seconda delle nazionalità e del colore della pelle e una filosofia giuridica altrettanto tecnicamente "fascista" perché considera irrilevante ogni essere umano sottoposto all'esame degli organi dello Stato.
E' appena il caso di sottolineare come l'atteggiamento "favorevole all'accoglienza" dei migranti e richiedenti asilo sia tutto delegato alla sfera mediatica, delle "dichiarazioni", al "buonismo parolaio" (peraltro in via di riduzione, come si può avvertire nelle polemiche sui salvataggi in mare). Un regime politico deve ovviamente essere giudicato dalle leggi che emana, non dalle narrazioni edificanti che diffonde.
Vi proponiamo qui la puntualissima analisi elaborata dall’avvocato Gian Andrea Ronchi, del Foro di Bologna.
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Il 18 febbraio 2017 è entrato in vigore il Decreto Legge n. 13, noto come Decreto Minniti, avente ad oggetto “disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”.
I numerosi commenti politici stesi in prima lettura evidenziano come, ancora una volta, il Legislatore sia intervenuto sul tema dell’immigrazione con ottica emergenziale e repressiva, senza proporre alcuna misura strutturale all’altezza del fenomeno storico che vorrebbe affrontare.
In estrema sintesi il Decreto si caratterizza sotto due profili di chiara lettura: innanzitutto per la predisposizione di un sistema semplificato e poco garantito per l’accertamento del diritto alla protezione internazionale; quindi per l’individuazione di una procedura accelerata volta ad aumentare le espulsioni dal Territorio Nazionale di tutti gli stranieri irregolari attraverso il rafforzamento dei centri di privazione della libertà personale per via amministrativa e la sottoscrizione di accordi bilaterali con i paesi, spesso vere e proprie dittature, di origine e di transito dei migranti.
È bene subito chiarire che ancora una volta il Legislatore prevede un'unica procedura per le espulsioni, valida tanto per chi proviene da percorsi di criminalità e lunghi periodi di carcerazione quanto per il lavoratore al nero, privo di permesso di soggiorno, sorpreso in un cantiere, ad esempio, a seguito di un mero controllo dell’ispettorato del lavoro.
Doverosamente accennato alla funzione della norma in esame, quanto seguirà avrà rilevanza quanto più possibile tecnica, cercando di non appesantire il ragionamento giuridico con note di sapore politico che si rimandano alla valutazione del lettore.
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Appare innanzitutto discutibile la scelta di procedere a una riforma così incisiva della normativa sull’immigrazione attraverso lo strumento del Decreto Legge, atto normativo da usarsi esclusivamente nei casi di straordinaria necessità e urgenza da parte del Governo.
Tale opzione non è giustificabile tanto più a fronte di uno stabilizzarsi, almeno negli ultimi due anni, del numero degli sbarchi e delle persone straniere richiedenti protezione internazionale.
Inoltre lo strumento del decreto legge impedisce, di fatto, un sereno e ponderato dibattito parlamentare.
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Quindi, nel merito, proseguendo secondo l’ordine dei principali articoli del decreto n. 13/2017. Lascia molte perplessità la scelta di istituire, secondo le disposizioni di cui agli articoli da 1 a 4, in dodici Tribunali con competenza sull’intero Territorio Nazionale, delle sezioni di giudici civili specializzate in materia di immigrazione alle quali sono devolute tematiche eterogenee quali i diritti dei cittadini UE, l’apolidia, le controversie sui ricongiungimenti familiari ma, soprattutto, le vertenze sul mancato riconoscimento della protezione internazionale.
Si profila così all’orizzonte non tanto un nuovo tipo di Giudice con la competenza a valutare tutte le vicende afferenti la normativa sugli stranieri (fatto in sé forse altrettanto discutibile, ma che almeno avrebbe il pregio della razionalizzazione, nonché di sottrarre materie delicatissime, quali la compressione della libertà personale nei Centri di Permanenza per i Rimpatri, al Giudice di Pace) quanto piuttosto un ufficio giudiziario a forte rischio di alienazione e isolamento culturale, atto a trattare un unico tipo di cause che riguardano solamente stranieri, tendenzialmente poco integrati se non emarginati dalla società e comunque sempre privi di mezzi economici.
Si tratterà, di fatto, di giudici atti a valutare più una determinata tipologia di persone piuttosto che una specifica materia, con probabili distorsioni nella delicata fase dell’amministrazione della giustizia.
Di fatto si istituiranno una sezioni di Magistrati che tratteranno vertenze provenienti da un’unica classe sociale (al contrario, ad esempio, del Giudice “specializzato” del Lavoro o delle Imprese), ovverosia i migranti, impossidenti, bisognosi di protezione internazionale: un Giudice per coloro che ricoprono, oggi, l’ultimo gradino della scala sociale.
I magistrati di queste sezioni potranno frequentare specifici corsi di specializzazione organizzati dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati nonché scambiarsi tra loro le rispettive esperienze giurisprudenziali e prassi applicative.
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Il Capo secondo del Decreto, dal titolo “Misure per la semplificazione e l’efficienza delle procedure innanzi alle Commissioni territoriali”, inizia all’art. 6 individuando uno speciale sistema di notificazioni per lo straniero richiedente protezione, individuando una modalità di comunicazione delle decisioni della Commissione che mortifica la conoscenza effettiva dell’atto a fronte di una presunzione di conoscibilità puramente formale.
Nei confronti di persone appena giunte in Italia, spesso senza fissa dimora o, nella migliore delle ipotesi, saltuariamente ospitate da conoscenti, sempre con enormi difficoltà linguistiche, in un contesto sociale e culturale loro sostanzialmente avverso, si riterrà eseguita la notificazione del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato attraverso una mera comunicazione postale in un domicilio spesso eletto nei momenti immediatamente successivi il soccorso in mare.
Questo risulta un evidente escamotage per far decadere il più ampio numero possibile di persone dal diritto di ricorrere in Tribunale avverso una decisione sfavorevole, dovendosi impugnare l’atto di diniego in termini quanto mai stretti (30 giorni).
Lascia altresì perplessità, per i richiedenti trattenuti nei Centri, che la notifica degli atti sia effettuata dal responsabile della struttura, senza la garanzia dell’intervento di un pubblico ufficiale che certifichi l’avvenuta consegna.
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Come presto avremo modo di vedere il Decreto in esame individua un procedimento giudiziale per l’accertamento della correttezza della decisione sfavorevole delle Commissioni estremamente snello, che non prevede, salvo eccezioni, che il richiedente asilo venga sentito dal Giudice.
Per questa ragione sarà massimamente importante che gli elementi portati dallo straniero a sostegno delle proprie ragioni avanti la Commissione siano i più precisi, dettagliati e incisivi possibile.
Di fatto la narrazione della propria vicenda, effettuata nella vicinanza dello sbarco, in un momento ancora nel quale la maggior parte delle persone è sotto shock, spesso senza la minima conoscenza delle procedure per il riconoscimento dei propri diritti e priva dell’assistenza di personale effettivamente qualificato, diventerà la pietra miliare non più modificabile attorno la quale costruire una convincente e non contraddittoria dichiarazione alla Commissione.
Il colloquio personale in Commissione verrà videoregistrato e la traduzione verrà effettuata con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale.
L’eventuale controversia giudiziale scaturente a seguito del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato dovrà, a pena di decadenza, proporsi entro e non oltre 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento della Commissione, comunicazione che dovrà avvenire con le forme di presunzione prima indicate (semplice cartolina postale lasciata in buchetta).
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Il ricorso giudiziale, come già oggi, avrà effetto sospensivo automatico tranne che nelle seguenti ipotesi:
1. quando lo straniero è recluso per qualsiasi ragione in un Centro di Permanenza per i Rimpatri;
2. quando la Commissione dichiara inammissibile la domanda di protezione;
3. quando la Commissione dichiara manifestamente infondata la domanda;
4. quando il richiedente presenta la domanda dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare, al solo scopo di ritardare o impedire l'adozione o l'esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento.
In questi casi la domanda di sospensione del provvedimento della Commissione dovrà essere proposta dall’avvocato nel corpo del ricorso e accolta dal Giudice.
Il decreto che nega la sospensiva non è impugnabile.
La Commissione territoriale metterà a disposizione del Tribunale la videoregistrazione del colloquio personale e la documentazione sulla situazione socio-politico-economica del Paese di provenienza del ricorrente.
È quindi di tutta evidenza che, se il ricorrente non motiverà le proprie ragioni con un ricorso giudiziale di alta qualità redazionale, accompagnato da originale letteratura scientifica a supporto delle proprie ragioni, il destino dell’azione giudiziale è di fatto segnato, dovendo il Giudice specializzato valutare solamente sulla base degli stessi elementi che hanno condotto la Commissione a emanare il provvedimento di rigetto.
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Tra i molteplici già presenti nel nostro codice di procedura civile, il Legislatore ha ritenuto che il procedimento che meglio si attaglia all’accertamento del diritto d’asilo fosse quello “sommario di cognizione”, e ciò con evidenti limitazioni al diritto di difesa.
Infatti lo straniero potrà essere sentito dal Giudice solo nel caso in cui questi lo ritenga, in modo assolutamente discrezionale, assolutamente necessario per la definizione del procedimento ovvero quando dalla lettura del ricorso si evidenziano elementi nuovi non dedotti in fase di audizione presso la Commissione.
Il Tribunale è chiamato a decidere sul ricorso dello straniero entro quattro mesi dalla sua presentazione.
Il decreto non è reclamabile.
Di fatto il Decreto Minniti n. 13 abroga la possibilità per i richiedenti asilo di proporre appello avverso le decisioni giudiziali loro sfavorevoli emanate dal Tribunale.
Se l’efficacia del provvedimento di diniego della Commissione risultava giudizialmente sospeso, questa prerogativa viene automaticamente meno con la pronuncia sfavorevole.
Il provvedimento del Tribunale potrà essere quindi impugnato solo per motivi di legittimità in Cassazione, da un avvocato abilitato alle Corti Superiori, con procura conferita all’uopo dallo straniero.
La Cassazione deciderà entro sei mesi dalla proposizione dell’impugnazione e potrà, su istanza motivata, disporre l’ulteriore sospensione degli effetti del decreto del Tribunale.
Ovviamente valgono anche per questa speciale procedura le limitazioni ordinarie del procedimento in Cassazione, ovverosia la possibilità di devolvere al Giudice una doglianza non più sui fatti ma esclusivamente di legittimità, lamentando una non corretta applicazione della legge sostanziale ovvero procedurale.
Quindi nessuna ulteriore valutazione dei fatti di causa, concluso il procedimento avanti al Tribunale, ultimo nonché unico giudice atto ad accertare la veridicità e la congruità delle dichiarazioni del richiedente asilo.
Del tutto immotivata dal Legislatore la non operatività della sospensione dei termini nel periodo feriale (ossia nel mese di agosto) per la presentazione del ricorso avanti il Tribunale o dell’impugnazione in Cassazione.
Infine il Decreto Minniti interviene anche sul gratuito patrocinio a spese dello Stato per le vertenze in esame, vietando ogni qualsivoglia liquidazione all’avvocato che veda dichiararsi inammissibile o manifestamente infondato il proprio ricorso, scoraggiando così i legali dall’affrontare le vicende più complesse che, più di tutte, rischiano di essere respinte con queste formule.
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Modifiche intervengono anche sul profilo sostanziale, e non solo processuale, della normativa che interessa i richiedenti asilo.
Lascia diverse perplessità, quantomeno per la sua indeterminatezza, l’art. 8 del Decreto Minniti nel quale si dispone che il richiedente che si trova in un centro di permanenza per i rimpatri, in attesa dell'esecuzione del provvedimento di espulsione, rimane nel centro quando vi siano fondati motivi per ritenere che la domanda è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l'esecuzione dell'espulsione.
Non è dato sapere attraverso quali criteri si valuterà, incidenter tantum, la fondatezza o meno della domanda di protezione che verrà sottoposta alla Commissione.
Particolarmente complessa, al confine della non attuabilità, la procedura di partecipazione all’udienza di convalida o proroga del trattenimento nel Centro, prevista con collegamento audio video, procedura simile a quella per i detenuti in regime di art. 41 bis, ostativa del pieno esercizio del diritto di difesa, di fatto impeditiva alla presenza dell’avvocato al fianco dello straniero e, nel medesimo momento, di fronte al Giudice per esercitare il suo ministero di difensore.
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Sempre l’art. 8 del Decreto n. 13 prevede la partecipazione dei richiedenti protezione ad attività di utilità sociale.
Non si usa giustamente il termine lavoro non essendo prevista alcuna forma di sinallagma a fronte della prestazione di attività che, in sé, non si potrà differenziare da quelle passibili di essere retribuite.
Il tema è di primaria importanza.
Questa norma avrà rilevanti effetti materiali (immissione massiccia di manodopera non specializzata nel mercato del lavoro) e delle conseguenze sociali di non secondaria importanza (consolidamento nell’opinione pubblica che chi fugge dal proprio paese lamentando la violazione dei diritti riconosciuti nella Convenzione di Ginevra non sia persona che esercita un proprio diritto indisponibile ma un soggetto al quale si è elargito un benevolo favore, e che in quest’ottica dovrà essere ricambiato attraverso attività di utilità sociale).
Secondo la novella, i prefetti promuovono, d'intesa con i Comuni, ogni iniziativa utile all'implementazione dell'impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali.
È del tutto evidente la logica risarcitoria intrinseca nella norma.
Nel rapporto tra Prefetture e Comuni assente il ruolo delle associazioni del terzo settore, del tutto eventuale e, in ogni caso, finanziato con le risorse europee destinate al settore dell’immigrazione e dell’asilo in teoria riservato a progettualità diverse.
Sarà facile immaginare che nelle zone ove è più attivo l’associazionismo e la partecipazione della cittadinanza si possano realizzare anche progetti di alta qualità nei quali possano trovare utilità formativa gli stessi i richiedenti asilo; al contrario, nelle regioni dove il rapporto tra istituzioni e cittadini non risulta mediato, l’attività dei richiedenti protezione potrà correre il rischio di competere con le attività lavorative meno qualificate, con ulteriore incremento della conflittualità tra cittadini autoctoni che vivono in condizione di marginalità e profughi.
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Per raggiungere gli obbiettivi del decreto, l’Amministrazione statale implementerà il proprio organico con l’assunzione di 250 unità da destinare alle Commissioni Territoriali, 60 unità con qualifica di funzionario e professionalità giuridico pedagogica e, infine, 10 diplomatici per potenziare la rete consolare in Africa.
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Circa l’identificazione dei cittadini stranieri soccorsi in operazioni di salvataggio in mare si prevede il foto segnalamento nelle medesime strutture atte a garantire soccorso e prima assistenza, assicurando al contempo informazioni sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione nei paesi europei e sul rimpatrio volontario assistito.
La fase dell’informazione è, nel sistema sopra descritto, di importanza capitale e sarebbe quanto mai necessario che lo straniero richiedente protezione fosse messo nelle condizioni materiali per poter ben comprendere la non banale serie di diritti e doveri che lo interessano.
La mancanza di una normativa ad hoc circa le informazioni da fornire al richiedente asilo e le modalità di comunicazione effettuate nella immediatezza dello sbarco rimesse, di fatto, alla buona volontà degli operatori nei centri (oggi quest’obbligo lo si assolve nella maggioranza dei casi con la distribuzione in lingua inglese, francese o spagnola di un prestampato nel quale si segnalano, spesso a grandi e confuse linee, i profili giuridici per una permanenza regolare in Italia) produrrà una diffusa non consapevolezza delle proprie ragioni così come dei doveri che gravano su qualsiasi persona presente sul territorio.
L’eventuale rifiuto al foto segnalamento, spesso usato nella speranza di aggirare le regole di Dublino per presentare la domanda di asilo politico in un paese d’oltralpe, comporta il trattenimento in un centro per il rimpatrio e la sostanziale impossibilità di presentare una efficace domanda di protezione internazionale.
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A fronte del fallimento storico del sistema dei centri di detenzione amministrativa per stranieri, l’art. 19 del Decreto Minniti, avente ad oggetto i cc.dd. Centri, ammette senza particolari cautele che l’abolizione dei CIE in favore dei nuovi Centri di Permanenza per i Rimpatri è azione meramente linguistica, senza concreti effetti se non nei termini che seguiranno (“La denominazione: «centro di identificazione ed espulsione» è sostituita, ovunque presente in disposizioni di legge o regolamento, dalla seguente: «centro di permanenza per i rimpatri»”).
Le modifiche non linguistiche interessano invece il tempo di permanenza in queste strutture con l’aumento del periodo massimo di trattenimento che passa da 90 a 135 giorni.
Vengono disposte nuove aperture di “strutture di capienza limitata” (e qui manca qualsiasi limitazione numerica) tali da assicurare la distribuzione sull’intero territorio nazionale, previa mera audizione, quindi senza potere di veto, del presidente della regione interessata.
Al contrario di quanto suggerito dalla letteratura giuridica tutta, queste strutture vengono ipotizzate lontane da centri abitati ma in facile comunicazione con le reti stradali, evidentemente per garantire l’effettività dell’allontanamento dal Territorio nazionale senza il rischio di creare disagio alcuno ai cittadini-residenti.
Corollario doveroso a una norma di tal fatta è la garanzia del rispetto dei diritti umani e della possibilità di accesso del Garante per i diritti dei Detenuti, elementi già presenti nella normativa vigente e che non hanno comunque impedito negli anni scorsi che queste strutture fossero luoghi ove la violenza fosse estremamente diffusa quanto il mancato rispetto dei diritti umani, tanto da essere definiti da Medici Senza Frontiere, con giudizio condiviso anche dalla CGIL, luoghi nei quali non viene garantita la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti, di modesta rilevanza e di scarsa efficacia/efficienza nel contrasto dell’immigrazione irregolare, non realisticamente riformabili e quindi da abolire.
Da segnalare come la costruzione di questi “nuovi” centri dovrebbe essere finanziata con fondi già destinati all’asilo e all’integrazione, già fin troppo sbilanciati nella gestione delle risorse per progetti di rimpatrio rispetto quelli di effettiva integrazione.
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Di qui un giudizio strutturalmente negativo della norma in esame che si pone in pieno e palese contrasto con le direttive assunte dalla CGIL nell’ultimo congresso del 2014 (“La società italiana si è fatta via via più complessa anche per la presenza, oramai strutturale, di immigrati. Le politiche che hanno prodotto l’attuale quadro legislativo sull’immigrazione, ispirate dagli “imprenditori della paura”, sono state cieche, orientate alla discriminazione e condannate da una lunga serie di pronunciamenti della giurisprudenza italiana ed europea, perché gravemente lesive dei diritti umani. Bisogna cancellare la Bossi-Fini, costruendo una modalità efficace di governo degli ingressi, una nuova qualità dell’accoglienza e della gestione del diritto di asilo per profughi e rifugiati, cancellare il reato di immigrazione clandestina, affermare il diritto alla cittadinanza, attraverso lo ius soli, ed il diritto al voto nelle elezioni amministrative. Le necessarie politiche di integrazione sono un investimento sulla coesione sociale, anche a fronte del contributo che il lavoro immigrato dà al welfare italiano ed all’allargamento della base occupazionale che determina”).

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