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Più di sette milioni di iraniani fanno pendere
l’ago della bilancia d’un voto partecipato verso il presidente uscente
Rohani. Per lui s’esprimono ventidue milioni e ottocentomila cittadini contro
quindici milioni e mezzo che scelgono Raisi. Insignificanti le preferenze
dirottate su Mirsalim (455.000) e Heshmitaba (210.000). Ma l’ufficialità dell’elezione
non c’è ancora, manca lo spoglio di ben 15 milioni di schede che verranno
smaltite in giornata, seppure non dovrebbero sovvertire la tendenza che vede
Rohani attestato sul 58% e l’avversario sul 40%. Per consentire il maggior
afflusso possibile alle urne, ieri sera il Comitato elettorale aveva deciso di
prolungare la consultazione di due ore, poi di tre. Alla fine i seggi sono
stati chiusi cinque ore dopo l’orario prefissato. Dunque il Paese si riaffida a
un presidente uscente, una scelta che conferma la consuetudine e va oltre perché
poggia su quanto la linea del chierico diplomatico ha mostrato negli ultimi
tempi. Regge, specie fra i giovani, la speranza di poter veramente attuare quei
piani d’investimento che la linea accogliente di Rohani ha sancito attraverso
l’accordo sul nucleare. Poiché la nazione, pur dotata di proprie risorse e capacità
materiali ed umane, necessita di confronto e cooperazione a tutto tondo.
Sul fronte opposto Raisi, il puro e il povero,
gestore però della più potente e solvente bonyad iraniana, Astan Quds Razavi della
città santa di Mashhad, poneva in primo piano il discorso ideologico della
particolarità iraniana sostenitrice della causa dei diseredati dall’economia e
dalla politica imperialista che squassa da oltre un secolo il medioriente e
prosegue nella sua dissennata politica guerrafondaia. Il chierico dal turbante
nero ha trovato seguito nelle città rurali e nei luoghi come il quartiere
Khorasan di Teheran dove lo spirito della Rivoluzione Islamico rappresenta uno
stendardo esibito e onorato. Raisi ha incentrato la sua campagna contro il presidente uscente,
evidenziando le contraddizioni di promesse economiche inattive e forse
inattuabili che picchiano duro sulle giovani leve, tenendo alto il tasso di
disoccupazione (12% nazionale e 30% giovanile) e sulla corruzione che avvinghia
affaristi e politici (laici e chierici). Sottolineava in quest’ultimo caso il
trasferimento del consenso di quel ceto un tempo vicino a Rafsanjani verso il
presidente in carica. Ma non è riuscito a sfondare, perché lo staff di Rohani
gli ribatteva dove fosse il suo rigore durante il lungo periodo in cui ha
rivestito l’incarico di giudice.
Per inimicarsi ancor più la gioventù urbana, che
infatti ha votato in maggioranza il presidente uscente, Raisi aveva lanciato
anche una polemica contro i concerti pop nella città santa di Mashhad “Prima di preoccuparsi dei concerti il
governo dovrebbe interessarsi alla condizione dei poveri” sosteneva, ma la
proposta di aumentare i sussidi verso i ceti meno abbienti, pur presenti in
talune zone rurali, non ha sfondato come il severo sayyid pensava. Al contrario
ha avuto il suo peso l’esplicito appoggio alla linea dell’apertura e della speranza,
offerta da Rohani già quattro anni fa, di personaggi dello sport e dello
spettacolo, fra cui le attrici Baran
Kosari e Taraneh Alidoosty (la protagonista del film “Il cliente” di Asghar
Farhadi) che aveva rifiutato il premio Oscar protestando contro il divieto
antislamico del presidente Trump. Perché nell’animo dei sostenitori di Rohani
apertura al mondo non è affatto intesa come ritorno al servilismo dell’epoca
Pahlavi. Certamente se sarà confermato quale vincitore, il pacifico Rohani dovrà fare i
conti con un quadro geopolitico sempre più complesso. Il presidente
statunitense, se non sarà colpito da nessun impeachement
è un personaggio infido, poco favorevole a distensioni e facilitazioni.
Lo dimostra l’incontro di queste ore con la
dinastia Saud e con gli islamici del Golfo, che ha tenuto alla larga qualsiasi
presenza iraniana, e non perché il Paese fosse impegnato con la consultazione
presidenziale. Ma questa diventa storia del futuro prossimo. Per ora l’alleanza
interna iraniana fra pragmatici e riformisti tiene. Ieri quando Mohammad
Khatami si è presentato al seggio per esprimere il suo sostegno a Rohani, una
folla osannante gli si è stretta attorno. Un’acclamazione di persone che non
celavano i segnali d’un passato di contestazione, col verde risbocciato, dopo
essere in quest’ultimi anni riparato nel viola. L’Iran dei simboli prosegue un
cammino pur polarizzato. Quello in cui difficilmente vedrà prevalere la
componente riformista riguarda la scelta della futura Guida Suprema. Fra gli
ayatollah i tradizionalisti sembrano dettar legge, nonostante una spiccata
linea geriatrica (Jannati, Shirazi, Hamedani, Yazdi, Mesbah-Yazdi) sono tutti
novantenni o giù di lì. Eppure il faqih del futuro sembra già posto in prima
fila, quando il malato Khamenei dovesse mancare. E’ lo sconfitto di oggi:
Ibrahim Raisi che, in quel caso, potrebbe prendersi una rivincita corposa.
Corposissima. Visto che sulla politica iraniana proiettata verso il mondo il velayat-e faqih non tramonta, forte
anche del benestare del partito pasdaran.
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