Evy Arnesano Musicista, cantante, autrice, produttrice e blogger
Poi senza accorgertene ti trovi catapultato in un universo immaginifico, metaforico, per certi versi anche nostalgico (la bicicletta con il sellino lungo, farsi portare in piedi sul portapacchi, occhialoni, magliettine con colli lunghi e vestitini a fiori) dove il bene e il male, i buoni e i cattivi, i ricchi e i poveri, i valori degli uni e degli altri si fronteggiano attraverso due bande ostili di ragazzini (in ognuna delle quali c’è una femminuccia) che si fanno reciproci dispetti, più per atavico contrasto che per convinzione reale, almeno fino a quando non irrompe Cuggino, che rischia di far deviare il duello verso la malvagità, nel tentativo di sovvertire l’equilibrio esistente in cui gli uni cercano di superare gli altri, consapevoli però di rimanere ognuno nella propria “casta”. Lui è l’unico che, volendo “vincere la guerra”, supera la distinzione tra gli antagonisti, collocandosi a metà tra di essi, cominciando a possedere cose e a spadroneggiare lui stesso.
Un cane vero (di Mela) e uno zainetto a forma di animaletto di peluche (di Sabrina) rappresentano, in contrapposizione e simbolicamente, il massimo bene per ciascuna delle due e, smarriti all’inizio della storia in situazioni diverse, finiscono per ricomparire entrambi. Tanto si è già detto, a ragione, sui giovanissimi attori che hanno interpretato il coro di protagonisti: eccezionali, convincenti, perfetti nei loro ruoli.
L’utilizzo dei dialetti pugliesi in bocca ai cafoni, se da un lato rende necessari i sottotitoli, crea momenti esilaranti strepitosi, forse maggiormente tali per chi li conosce e li riconosce nella loro unicità (quello del nord e quello del sud, entrambi utilizzati in contemporanea nei dialoghi in cui uno parla in barese e l’altro risponde in leccese, sono molto differenti tra loro).
Sullo sfondo l’inesistente Torrematta, in un Salento prepotentemente selvaggio, rappresentato nei suoi toni più caratteristici e duri, pur nella generosità della stagione calda. Infinite inquadrature della terra mia, dove ho giocato a riconoscere l’oasi delle Cesine e la sua casamatta, il parco del Rauccio, Torre Guaceto e così via, dove il mare Adriatico era quasi sempre agitato dal vento, così come lo conosciamo bene noi che lo abitiamo, dove i colori erano quelli più secchi, arsi, afosi, i colori dell’estate assetata. Salento surreale, scarno di elementi strutturali o identificativi di un luogo preciso, tranne una cabina telefonica in mezzo al nulla accanto a un baretto (dove lavora uno dei pochissimi adulti che compaiono nella storia) e le ville dei signori, in particolare quella del capo, Angelo “Maligno”, con il suo giardino, tutto splendidamente decadente.
Scritto bene, girato meglio, interpretato alla grande, scenografia naturale spettacolare, ricostruzione dell’estate del 75 ottima, musiche perfette. Peccato solo non averlo potuto comunicare di persona ai registi che ieri hanno introdotto la proiezione in sala.
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