mercoledì 8 giugno 2016

Libro. Siria. La rivoluzione del Rojava.

Da circa due anni l’opinione pubblica europea sembra aver riscoperto la questione del popolo curdo. Dal 2013 Daesh, abbreviazione dall’arabo per quello che in Europa è noto come Stato islamico (meglio: Stato islamico dell’Iraq e della Siria), conquistava prima una fetta di territorio nell’attuale Iraq e decideva poi di volgersi verso la Siria, già dilaniata sin dal 2011 da una vera e propria guerra civile tra le forze fedeli a Bashar al Assad e un variegato mosaico di forze di opposizione, che chiedevano la fine del regime prendendo a modello le riuscite esperienze delle cosiddette primavere arabe in Tunisia ed Egitto.



micromega di Fernando d'Aniello

Quando l’attacco di Daesh sembrava praticamente inarrestabile, nella Siria settentrionale, in quello che gran parte dei suoi abitanti chiama Kurdistan occidentale, l’avanzata fu fermata proprio da truppe volontarie curde (anche se, correttamente, tengono a sottolineare la propria dimensione internazionale, con elementi arabi, assiri, armeni, …). La città di Kobane, liberata, divenne il simbolo della resistenza allo Stato islamico; tutto questo ben prima dei bombardamenti russi, francesi e statunitensi.

Al centro di tutti questi avvenimenti, sui loro presupposti e sulle loro conseguenze, ha scritto un libro interessante, Arzu Demir, una giornalista turca, tradotto da pochissimo in italiano, La rivoluzione del Rojava, per le edizioni Redstarpress. L’autrice ha visitato spesso i cantoni del Rojava e ha raccolto in questo libro le sue impressioni. Il fatto che sin dal titolo gli eventi narrati siano qualificati come una “rivoluzione” tradisce l’impianto militante del testo: una sorta di dichiarazione preliminare che, onestamente, rende note le idee dell’autrice e la sua prossimità, anche ideologica, agli eventi narrati.

Diciamolo subito: La rivoluzione del Rojava non è un saggio, tantomeno una versione più o meno romanzata di fatti storici. È più un taccuino di viaggio, una raccolta di sensazioni e di esperienze che hanno colpito profondamente la giovane scrittrice. È una vera e propria diretta, come recita il sottotitolo, dai cantoni curdi che stanno sperimentando, dal luglio del 2012, quella che si può definire rivoluzione per due ordini di ragioni. Primo, perché gli abitanti del Rojava hanno difeso le proprie terre dall’offensiva dello Stato islamico e, secondo, perché provano a sperimentare nuove forme di governo e di amministrazione del proprio territorio, sostituendo il vecchio regime siriano.

Ma è soprattutto la rivoluzione di un popolo, quello curdo, che, almeno per le cartine geografiche e le costituzioni di molti Stati, semplicemente non esiste «Il Rojava è il luogo dove ha preso vita tutta l’esperienza accumulata dal movimento di liberazione curdo in 40 anni di lotte» (p.13). In altri termini: non si può capire la vicenda di Kobane e del Rojava se non si capisce la decennale lotta dei Curdi per la propria esistenza. Ecco perché, nel testo, si trovano pagine introduttive della questione curda (pp. 29-37, pagine preziose vista la scarsità di fonti italiane) – dalla vicinanza tra Ocalan e i “fratelli” curdi in Siria alla distanza tra il PKK e alcune forze al governo nella Regione autonoma curda nel nord Iraq – sino a interviste con alcuni protagonisti degli eventi narrati.

In sostanza Demir ci conduce nei luoghi di una rivoluzione democratica nazionale (toneremo a breve su questo termine): il Rojava era, per molti dei suoi abitanti, nient’altro che parte del Kurdistan occidentale. Queste terre fanno parte di un’unica piana che arriva, procedendo verso Nord sino in Turchia e ai popolosi centri curdi in Turchia, che compongono il Kurdistan settentrionale (anche questa prossima geografica è alla base di una maggiore vicinanza politica e ideologica tra le due famiglie curde).

Quando scoppia la rivolta contro il regime di Assad, i Curdi scelgono di farne parte a modo loro: «Il Rojava non era né pro Esercito libero siriano *…+ né pro Assad. La terza via era quella di rimanere esterni al conflitto fra le due forze principali e mentre queste portavano avanti una reazionaria guerra civile, organizzare le popolazioni oppresse che non avrebbero tratto nessun vantaggio da questa guerra interna per prepararsi alla lotta» (p.42).

Nei racconti di Demir come pure nei personaggi che sceglie di intervistare è vivissima la presenza degli scritti dell’ultimo Abdullah Ocalan (qui per chi volesse farsi un’idea): «*…+ superando il concetto di “stato-nazione” si è avuta una rivoluzione di popoli con la base il concetto di nazione democratica di Abdullah Öcalan» p. 43. Le pagine più interessanti sono quelle dedicate alle donne e alla loro capacità di farsi protagoniste della rivoluzione, seguono poi capitoli dedicati alle specificità dell’amministrazione economica e della giustizia (ad esempio, caso quasi “di scuola” in ogni rivoluzione, con il ricorso alla mediazione extragiudiziale vista la diffidenza verso i tribunali, eccessivamente compromessi con il vecchio regime).

L’autrice si sforza costantemente di mostrare quanto la rivoluzione stia provando ad abbattere diffidenze e incomprensioni storiche: così le comuni – centri di auto amministrazione del popolo – tentano di garantire la massima rappresentatività di tutte le nazionalità (ad esempio adottando il criterio della “copresidenza”, p. 110, per favorire l’inclusione delle minoranze), come pure di non escludere ma anzi di incentivare la presenza delle donne (che riunite nelle Ypj, le Unità di protezione delle donne, insieme alle Ypg, le Unità di protezione del popolo, svolgono anche un ruolo di primissimo piano nello scontro diretto con lo Stato islamico).

Ovviamente il libro a un lettore “occidentale” può apparire in più punti pervaso da una forte carica di idealismo che rischia, quasi, di cadere nell’ingenuità. Si prenda, su tutti, la definizione stessa di rivoluzione democratica nazionale, al momento molto fumosa sui suoi possibili sviluppi.

Proprio la fortissima empatia tra curdi siriani e turchi è stata la miscela che ha reso la lotta di Kobane un momento decisivo per la coscienza di una nuova generazione di Curdi. Erdoğan ne è stato sin dall’inizio impressionato: ecco perché ha avviato una nuova guerra civile nel sud est della Turchia (giustificata dalla lotta al terrorismo del PKK).

A questo proposito bisogna ricordare che il modello post-statuale di Ocalan ben si prestava a una sua formalizzazione all’interno della dimensione costituzionale e istituzionale turca: in uno scenario ancora fortemente “statuale” sarebbe stato possibile sperimentare processi di liberazione del popolo curdo (in Turchia). O in una nuova Siria, non smembrata ma riunificata in cantoni, come suggerisce l’intervista a Hisen Shawish a nome del Comando delle accademie di addestramento delle Ypg (p. 155).

La fine dei modelli statuali, o di parte di essi (Iraq e Siria su tutti) confonde, però, le acque e rende nuovamente possibile, all’interno di parte del movimento curdo, l’ipotesi di un’autonomia vera, soprattutto vista la forte connessione tra curdi siriani e turchi, proposta assolutamente irricevibile per il governo di Ankara. E, indubbiamente, questa vaghezza sugli sviluppi della rivoluzione a costituire uno dei nodi problematici più complessi degli eventi in corso nel Rojava, che si inseriscono in un complesso quadro geopolitico e geoeconomico nel quale si muovono attori locali e regionali (non necessariamente statuali) e le grandi potenze come USA e Russia.

Ma nell’universo curdo pesa anche il rapporto, problematico, tra i protagonisti della Rivoluzione del Rojava e i “cugini” della Regione autonoma del Kurdistan in Iraq (il Kurdistan meridionale, oggi quasi una realtà statuale autonoma dal governo di Baghdad) e in particolare con la sua leadership le cui scelte ostili alla rivoluzione nel Rojava a volte ricordano, secondo Demir, le politiche adottate dalla Turchia, ad esempio chiudendo le frontiere anche per il passaggio di convogli di aiuti.

Anche la definizione dello Stato islamico come «fascista» non contribuisce certo a fare chiarezza e a comprenderne il ruolo e le dinamiche sia all’interno della galassia fondamentalista islamica, nella quale si combatte con tutta evidenza una battaglia per la leadership, sia come elemento fortemente identitario per la gioventù musulmana europea.

Tuttavia, il testo di Demir mostra qui la sua stringente attualità: evitando di indugiare sulle tante ambiguità (ma senza nemmeno nasconderle, come nel caso dell’oggettiva difficoltà di far convivere pacificamente diverse nazionalità), ci ricorda come quello che è successo (e sta accadendo) in Rojava è innanzitutto il frutto di una lotta che ha fermato lo Stato islamico ed è costata molte vite umane. Non è questo il momento di valutare il livello o la radicalità degli eventi avviati dal 2012 in Rojava, quanto piuttosto è indispensabile cogliere quanto di nuovo e di positivo è stato realizzato e che tipo di solidarietà è possibile costruire con uomini e donne che stanno provando a governare insieme la propria terra in un modo nuovo. L’approccio europeo alle questioni di quest’area deve muovere proprio dalla constatazione che i vecchi equilibri sono saltati e un ordine, simile a quello Sykes-Picot del 1916, è ben lontano dall’essere definito. È dunque indispensabile costruire relazioni con quelle realtà certamente non statuali ma in qualche modo “sovrane” che si stanno impegnando proprio a evitare una ulteriore frammentazione del Medio Oriente, magari su base etnica o religiosa, le cui conseguenze sarebbero catastrofiche.

Va, infine, tenuto presente che una nuova generazione di Curdi si è formata nella liberazione di Kobane: non si può continuare a ignorare la determinazione di questi giovani. Il rischio, tuttavia, è che in Turchia le scelte dell’attuale governo (le cosiddette operazioni antiterrorismo, che costituiscono in realtà vere e proprie operazioni di guerra all’interno del territorio turco) irri gidiscano le posizioni e condannino questa nuova generazione – cresciuta e tuttora fedele al mito di Ocalan e della vecchia guardia, ma fino a quando? – a un’ulteriore, preoccupante, radicalizzazione. È bene saperlo prima che sia troppo tardi: ecco perché il conflitto curdo non può restare “locale” (come drammaticamente è avvenuto negli ultimi anni con quello palestinese) ma va assunto pienamente nell’agenda internazionale, a partire dalla piena legittimazione dei suoi esponenti, ancora considerati come semplici terroristi.

La rivoluzione è, dunque, innanzitutto il tentativo di un popolo di determinare il proprio futuro, di scommettere sulla capacità di trarre dalla fine del secolare ordine geopolitico in Medio oriente il proprio diritto a esistere. Non sarà facile: soprattutto perché continueranno a pesare interessi e dinamiche non solo locali. Ma è bene sapere che l’esito della loro lotta potrebbe determinare la convivenza pacifica di comunità e fedi religiose diverse, la stabilità di tutta l’area e l’arretramento delle forze radicali e terroriste. E questo riguarda anche l’Europa.

(7 giugno 2016)

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