Le banche hanno inventato un modo ingegnoso per nascondere ai clienti le commissioni di entrata in alcuni tipi di fondi comuni. Per il sistema nel suo complesso, si tratta di entrate miliardarie, alle quali non corrisponde alcun beneficio per i risparmiatori. Commissione di collocamento o di uscita.
Commissioni di collocamento: attenti al trucco
Vi sarà capitato di andare in banca e di sentirvi dire dal personale addetto alla vendita di prodotti finanziari: “guardi, è appena uscito questo fondo, è molto conveniente: non ha nessuna commissione di ingresso”. Attenzione: spesso l’affermazione nasconde un inganno. È vero infatti che la vecchia commissione di ingresso (o di sottoscrizione) non c’è, ma, molto probabilmente, è stata sostituita da un’altra, più subdola, quella di collocamento. Qual è la differenza tra le due? La visibilità. La vecchia commissione era molto chiara. Se si investivano 100 euro, e la commissione d’ingresso applicata era del 3 per cento, la banca toglieva 100 dal conto corrente del cliente e comprava quote di un fondo per un valore di 97: la differenza era appunto la commissione di ingresso.
Adesso il meccanismo è diverso: il valore iniziale delle quote è di 100, ma verrà decurtato di un piccolo ammontare ogni giorno, in modo che alla fine del periodo di durata del fondo, poniamo tre anni, il valore delle quote sia 97 euro. In questo modo, il cliente non vede la commissione nel momento in cui investe, perché viene spalmata su tutto il periodo di investimento. Non la vedrà neanche alla fine dei tre anni, perché, in quel momento, il 3 per cento di riduzione di valore, dovuto alla commissione di collocamento, si confonderà con il risultato della gestione, che potrebbe compensarla oppure aggiungere una ulteriore perdita, ma comunque nasconderà l’informazione relativa al -3 per cento dovuto alla commissione di collocamento.
Se esco dal fondo, pago lo stesso.
Perché le banche hanno introdotto questo cambiamento? Anzitutto, per nascondere sotto il tappeto un costo addossato alla clientela. Un cliente sarà più propenso a comprare un prodotto di investimento se ha l’impressione che la detestata commissione di ingresso sia sparita. Non solo: se decidesse di uscire dall’investimento prima della scadenza, la commissione di collocamento diventerebbe una commissione di uscita. Nell’esempio precedente, se l’investitore vendesse le sue quote alla fine del primo anno di detenzione, il loro valore sarebbe ridotto di 1 euro per effetto della commissione di collocamento, ma, in più la società di gestione del fondo, si prenderebbe una commissione di 2 euro, in modo da incassare in totale i suoi 3 euro previsti. È molto facile per il personale della banca dire al cliente: “meglio tenere il fondo fino alla scadenza perché le costerebbe una commissione di uscita del 2 per cento”. In questo modo, il cliente viene incentivato a rimanere ancorato al prodotto che ha comprato.
La banca incassa subito
Qualcuno potrebbe pensare che, se la commissione di collocamento viene spalmata su più anni, anche la banca la incassa gradualmente anziché tutta in una volta. E invece non è così. Le banche si sono inventate un trucco contabile per incassare subito la commissione. Nel nostro esempio, la società di gestione che gestisce il fondo incassa 100 euro dal cliente e versa 3 euro alla banca, anticipandole la commissione di collocamento. La Sgr investe i rimanenti 97 euro del cliente nel fondo, quindi il patrimonio effettivamente investito è 97. Poiché il valore contabile delle quote (quello che il cliente vede) è 100, il fondo vanta un credito nei confronti del cliente (tecnicamente un “risconto attivo”, che è quello che il cliente non vede), che gli verrà fatto pagare giorno per giorno, adeguando il valore contabile delle quote al loro valore effettivo (97), fino a che i due valori coincideranno al termine dei tre anni.
Questo complesso meccanismo, oltre a ingannare il cliente, consente alla banca di registrare una entrata di cassa immediata di 3 euro. E così, magicamente, la stessa voce ha un trattamento di competenza per il risparmiatore (in modo da essere meno evidente) e di cassa per la banca (in modo da massimizzarne l’effetto sul conto economico). Con buona pace dei principi contabili. Per dare un’idea delle cifre in gioco, abbiamo preso i bilanci di sette tra le maggiori banche italiane, per le quali abbiamo calcolato le entrate derivanti da commissioni di collocamento titoli, e le abbiamo messe in rapporto al loro utile lordo. Risultato: le commissioni di collocamento superano i 2,5 miliardi, generando quasi un terzo dell’utile e fornendo un sostegno decisivo alla redditività delle nostre banche.
Il trucco, che ha consentito al settore bancario italiano di imbellettare i bilanci del 2015 in misura considerevole, è solo l’ultimo di una lunga serie di prodotti finanziari studiati e collocati dalle banche al solo fine di massimizzare l’incasso di commissioni in modo indolore e immediato (derivati, obbligazioni strutturate e compagnia). Forse, vale la pena avviare una riflessione sulla circostanza che un settore così vitale per l’economia non può fondare la propria esistenza sulla mortificazione dei clienti e dei propri azionisti allo stesso tempo.
*Angelo Baglioni: Insegna Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano, Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative. Ha recentemente insegnato anche al Master in Economia e Banca presso la Facoltà di Economia R.M.Goodwin dell’Università di Siena. E’ membro del Comitato direttivo e scientifico del Laboratorio di Analisi Monetaria (Università Cattolica di Milano e Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa). Dal 1988 al 1997 è stato economista presso l’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana (ora Intesa Sanpaolo), come responsabile della Sezione Intermediari Finanziari. I suoi interessi di ricerca si collocano nell’area delleconomia monetaria e finanziaria. Ha scritto libri e articoli pubblicati su riviste internazionali. E’ laureato in Università Bocconi e ha conseguito il Master in Economics presso la University of Pennsylvania. Redattore de lavoce.info.
*Alberto Foà: Laureato presso l’Università Bocconi (Milano), vince la borsa di studio Giorgio Mortara della Banca d’Italia. Frequenta il PhD alla J. Hopkins University. Matura una decennale esperienza presso le più prestigiose realtà finanziarie in Italia quali Chase Econometrics, Citibank, Finanza e Futuro Fondi Sprind. Nel 1994 fonda Anima SGR che, nel 2006, viene quotata alla Borsa Italiana. Conclusa l’esperienza in Anima SGR a causa di un’Opa ostile, nel 2010 fonda, insieme ad altri soci, AcomeA SGR di cui è oggi Presidente
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