di Francesco Piccioni
Gli imprenditori e in genere il capitale hanno ora paura. Bisogna prendere sul serio questo timore, e togliersi di mente la convinzione che “il potere” sappia sempre cosa fare, come sistemare a suo favore le cose – in fondo, in fondo – anche quelle del mondo del lavoro. Se fosse vero non ci sarebbero mai delle vere crisi, ma solo scossette di assestamento. Non ci sarebbero state due guerre mondiali combattute con le armi e una con la corsa agli armamenti (che ha distrutto l’Unione Sovietica), né la crisi del 1929 e ancor meno quella che data al 2007-2008.
Il capitale è impersonale, un modo di produzione fondato sull’iniziativa privata e la concorrenza feroce è strutturalmente non pianificabile, non direzionabile a volontà, al massimo “indirizzabile” verso certi esiti, ma solo in particolarissime condizioni (quando c’è qualcuno immensamente più forte di tutti gli altri). Non esiste alcun “piano del capitale”, ma tanti piccoli pianerottoli quanti sono i capitali in concorrenza. Alcuni più grandi, ovviamente, delle vere suite al superattico…
La premessa è stata necessaria per affrontare cosa accadrà ora, dopo che il popolo inglese ha deciso – a stretta maggioranza – la Brexit.
Soprattutto dopo aver visto la prima pagine de Il Sole 24 Ore di oggi, ben lontana dallo stile algido e riflessivo di un giornale fatto e scritto per imprenditori di ogni ordine e grado (è l’organo di Confindustria). Un urlo di Munch, gridato a squarciagola intorno all’editoriale del direttore: EUROPA SVEGLIATI.
L’intenzione è però enormemente sproporzionata rispetto alle possibilità. Tutte le residue speranze di ripartenza del progetto europeo su altre e più solide basi – brutalmente: che tengano conto dell’insofferenza generale dei popoli del continente verso le politiche d’austerità – vengono riposte nel mini-vertice di lunedì tra Merkel, Hollande e Renzi. Tre premier alla guida dei paesi più grandi ed economicamente importanti dell’Unione, quindi teoricamente legittimati a “prendere decisioni non usuali in termini di lavoro, crescita, welfare, sicurezza e immigrazione”.
Ma sono anche tre leader particolarmente deboli, in questa fase. Angela Merkel, quella che pure passa per la più solida, è da mesi sotto tiro per la sua politica dell’immigrazione, che le ha alienato consensi importanti nel suo stesso schieramento, moltiplicando le frizioni con i paesi confinanti o comunque appartenenti alla filiera produttiva tedesca (Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia, ecc).
Hollande è un morto che cammina, al minimo storico di tutti gli indici di gradimento dopo il tentativo autoritario di imporre un jobs act senza neanche sottoporlo al voto del Parlamento, con le piazze piene di lavoratori e studenti che raccolgono l’approvazione del 70% della popolazione.
Renzi è quel tizio che ha perso clamorosamente le elezioni amministrative e ora guarda con palese terrore l’appuntamento di ottobre, che lui stesso ha presentato come un plebiscito pro o contro di lui, passato in pochi messi dalla certezza di vincere sempre al suo contrario.
Mancano statisti, in Europa. E il capitale finanziario multinazionale, negli ultimi 30 anni, ha fatto di tutto perché non ce ne fossero più. Servivano interpreti per un ruolo minore e subordinato, quello di trasferire la “sovranità” a una tecnocrazia continentale svincolata da ogni problema di consenso e da ogni possibile ribaltone elettorale nazionale. I trattati, una volta approvati, non sono modificabili da singoli paesi e governi. La “stabilità” è dunque al sicuro, il controllo della situazione sociale è invece inesistente.
A questo mini-vertice di cadaveri ambulanti il direttore del Sole chiede un’autentica mission impossible:
“Bisogna che la Germania si convinca che il suo straordinario surplus venga “speso” per un rilancio di cui godano tutti i cittadini europei a partire da quelli tedeschi. Renzi e Hollande devono dimostrare di avere le capacità e la forza politica per persuadere la Merkel a completare l’unione bancaria con la garanzia unica sui depositi, varare un grande piano di investimenti con o senza eurobond e condividere, parallelamente, i debiti pubblici nazionali non in nome di una solidarietà pure necessaria tra Paesi del Nord e Paesi del Sud, ma piuttosto sulla base di una convinzione di ideali e di convenienze altrettanto fondata. È così difficile, ad esempio, comprendere che il rischio rappresentato dai derivati nelle pance delle banche tedesche e francesi è di certo non inferiore a quello delle sofferenze delle banche italiane robustamente coperte da un’invidiabile dote di garanzie collaterali?”
Argomenti dibattuti ogni giorno sui giornali e nei governi nazionali, ma che vengono scartati con una scrollata di spalle ad ogni appuntamento intergovernativo o comunitario. E per ragioni che nulla hanno a che fare con la “volontà politica” dei singoli leader o interi governi. Il surplus di bilancio tedesco, per esempio, da innumerevoli anni ben al di là dei parametri di Maastricht (che non contemplano solo il deficit o il debito, anche se qui da noi se ne parla solo in circoli ristretti), è conseguenza diretta della ristrutturazione delle filiere produttive continentali intorno ai capifila tedeschi, oltre che di una stagnazione salariale altrettanto pluridecennale (per quanto i salari in Germania siano i più alti dell’eurozona). E la differenza di trattamento per le banche tedesche o francesi rispetto a quelle italiane è una questione di standard internazionali – di stampo anglosassone – che considerano “ottimi” i prodotti finanziari derivati (che hanno perso per strada la rintracciabilità delle “garanzie collaterali”) e “pessimi” i prestiti a famiglie e imprese, per quanto coperti da garanzie immobiliari e patrimoniali.
Soprattutto, questi tre nanerottoli non hanno alcuno strumento – intanto concettuale – per affrontare la faglia tettonica che si va aprendo da anni come conseguenza naturale di globalizzazione della produzione e innovazione tecnologica. Una connessione che per un verso blocca da decenni la dinamica salariale spingendola verso il livello minimo o medio a livello mondiale (ovvero quello degli “emergenti”, in rapida crescita ma comunque inferiore a quello occidentale); e per l’altro espelle definitivamente dall’occupazione presente e futura una quota crescente, assolutamente maggioritaria, di popolazioni in età lavorativa. Il tutto mentre l’aggressività imperialista ai confini dell’Europa – in Medio Oriente e nel Nord Africa – distrugge Stati e provoca esodi biblici verso i paesi più ricchi.
Bassi salari, precarietà esistenziale, distruzione del welfare, disoccupazione crescente e irrecuperabile, contrazione dei consumi e blocco dell’”ascensore sociale”, immigrazione di masse certamente consistenti e disperate (pronte dunque a lavorare in qualsiasi condizione).
Queste le molle del malessere sociale, senza dubbio ingigantito dalle politiche dell’Unione Europea.
Possono quei tre moribondi, che guardano con preoccupazione più alle prossime tornate elettorali (tutte nel 2017, probabilmente) che non alla soluzione di problemi storici creati dallo sviluppo capitalistico globale, prendere decisioni a quell’altezza?
Non è una domanda cui sia difficile rispondere…
Quindi dobbiamo necessariamente prendere sul serio la paura montante nella classe dirigente del Vecchio Continente. La democrazia parlamentare si sta rivelando una forma di gestione politica che non risponde più ai loro bisogni; lo sanno da decenni e si erano disposti a svuotarla, progressivamente e silenziosamente, in modo indolore ma con una cadenza ineluttabile. Mentre ancora non hanno completato il lavoro, la Brexit fa esplodere il problema e lo getta su tutti i tavoli.
Non è difficile capire quale sarà la loro reazione… Modesta, inefficace, ma totalitaria.
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