La radice della Brexit è nelle tendenze del mercato del lavoro britannico e sembra avere poco a che fare con l’andamento dei conti esteri. Il voto del 23 giugno ha definito un nuovo particolare blocco sociale che lega insieme le elite conservatrici, che si sentono più vicine al Commonwealth che al continente europeo, e i settori marginali della società britannica, minacciati dalla crescente concorrenza degli immigrati, resa possibile proprio dalla deregolamentazione del mercato del lavoro.
Brexit ha scatenato, come prevedibile, un’ondata di commenti di analisti più o meno ‘esperti’, economisti più o meno autorevoli, grandi e piccole firme. In generale, si può affermare che l’evento è stato interpretato come conferma di ciò che si era previsto, soprattutto da parte di economisti che sono convinti che certamente l’UE è destinata all’implosione o – variante di questa profezia – che è vi sono rilevanti rischi che ciò accada. Su questa linea, alcuni commentatori, che hanno ritenuto e ritengono che la crisi dell’Eurozona sia imputabile agli squilibri commerciali al suo interno, hanno stabilito che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione dipenderebbe dai crescenti squilibri commerciali che il Paese ha accumulato verso l’UE negli ultimi anni, come mostrato in Tabella 1.
Seppure esiste evidenza empirica in tal senso, la causa di questi saldi negativi non può essere interamente attribuita all’adesione all’Unione (tanto più che il Regno Unito è al di fuori dell’Unione Monetaria e mantiene la sua sovranità monetaria), piuttosto è il segno di un crescente declino britannico in termini di produttività che ha cause prevalentemente endogene, come argomentato a seguire.
Del resto il deficit commerciale britannico ha radici lontane, fin dagli anni dell’Impero (v. Tabella 2), e si ripropone nel secondo dopoguerra (v. Tabella 1). Dunque, non si tratta di una novità assoluta nella Storia del Regno Unito, né è un problema che emerge ora a seguito dell’adesione all’UE.
E’ davvero quindi difficilmente credibile che gli elettori britannici siano stati guidati nella loro scelta dalla consapevolezza dei crescenti squilibri commerciali che il loro Paese ha accumulato[1]. Il reale risultato elettorale ci mostra semmai l’opposto, poiché sono stati proprio gli elettori meno colti e più anziani, e quindi meno consapevoli ed informati, a votare a favore della Brexit. D’altra parte, a ben vedere l’argomento dei crescenti squilibri commerciali, tranne poche eccezioni, è rimasto sostanzialmente ignorato nel dibattito politico sul “Leave”.
Queste analisi derivano dalla convinzione – che si vuole essere rafforzata dal voto britannico – che i problemi dell’Unione dipendono unicamente dagli squilibri commerciali al suo interno. Sia chiaro che si tratta di un problema, ma che, al tempo stesso, non è ovviamente il solo problema dell’Unione europea come si è venuta configurando e che, soprattutto, non si dà conto, trattando in tal modo il problema, né delle specificità di scelte di singoli Paesi né soprattutto del fatto che siamo di fronte a un evento mai verificatosi: un evento di enormi proporzioni, che non trova alcun precedente storico, tale da rendere sostanzialmente impossibile prevederne gli esiti. In più, il peggioramento del saldo delle partite correnti non si è avuto a ridosso del Referendum, ma è databile almeno al semestre precedente.
Un contributo in questa direzione, che non può che essere in questa sede un’analisi del tutto preliminare, rinvia ad altri fattori, che attengono alle cause remote e a quelle più prossime della scelta britannica.
1. A partire dagli anni ottanta, si è determinato, in Gran Bretagna e non solo, un crollo dei salari reali fondamentalmente imputabile alle politiche di precarizzazione del lavoro, seguite alla stagione delle privatizzazioni e al ridimensionamento del Welfare (con il conseguente aumento dei prezzi dei servizi sociali). Il modello proposto alla fine degli anni Settanta dal primo ministro conservatore, Margaret Thatcher, ha avuto pieno successo e si è consolidato in quel Paese ben prima degli altri Paesi dell’Eurozona[2]. Questo modello non è stato sostanzialmente modificato dai governi britannici che si sono succeduti negli anni novanta e, ancor più, nei primi anni duemila.
2. Si sono accentuati i processi di ‘finanziarizzazione’ che, in ambito europeo, hanno riguardato prevalentemente il Regno Unito e questi ultimi si sono associati a un forte impulso alla deindustrializzazione e, per conseguenza, alla riduzione dell’occupazione altamente qualificata, con conseguenze di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro[3].
3. Al tempo stesso, l’aumento delle diseguaglianze distributive su scala globale ha contribuito a generare imponenti flussi migratori che hanno riguardato soprattutto i Paesi ‘core’ del continente. In modo “razionale” o meno, i lavoratori britannici e i settori più marginali della società britannica hanno risposto a queste dinamiche provando, con il “Leave”, a difendersi. Brexit, in quest’ottica, è l’esito della paura (parzialmente fondata) dei lavoratori inglesi low-skilled della concorrenza degli immigrati. Queste crescenti tendenze xenofobe hanno alimentato la crescita elettorale dell’UKIP (United Kingdom Independence Party) di Nigel Farage che è risultato il primo partito britannico (con il 26,6% dei suffragi) alle elezioni europee del 2014 e terzo nelle elezioni generali del 2015 (con il 12,7% dei suffragi). Parte del partito conservatore britannico ha cavalcato la stessa onda emotiva costringendo la leadership di David Cameron alla scelta referendaria. A completare il quadro, la scarsa presa del Labour Party su parte del suo elettorato che non ha seguito le indicazioni a favore dell’UE date della leadership laburista.
Forse conviene partire da questi fattori per capirne qualcosa.
Il voto referendario del 23 giugno ha di fatto definito un nuovo particolare blocco sociale che lega insieme le elite conservatrici, nostalgiche del vecchio Impero vittoriano, e che si sentono più vicine al Commonwealth che al continente europeo, e i settori marginali della società britannica, minacciati dalla crescente concorrenza degli immigrati, resa possibile proprio dalla deregolamentazione del mercato del lavoro e dal peso crescente della concorrenza degli immigrati nei confronti dei working poor.
La radice della Brexit va quindi trovata nelle tendenze che hanno caratterizzato il mercato del lavoro britannico soprattutto dopo la crisi dell’eurozona, quando le politiche di austerità – combinate con i crescenti divari regionali all’interno dell’UE - ha spostato masse crescenti di lavoratori, qualificati e non, verso il Regno Unito, alla ricerca di opportunità più vantaggiose.
La tabella seguente mostra l’andamento dei flussi migratori nel Regno Unito a partire dagli anni cinquanta.
E’ esplicito il riferimento al mercato del lavoro come causa del referendum in alcuni esponenti del partito conservatore.
Il progetto di questo nuovo blocco sociale, che tiene insieme working poor e conservatori nostalgici della supremazia imperiale, appare finalizzato a trasformare il Regno Unito, o quello che resterà di esso, in un’isola protetta, sul modello svizzero, dove le protezioni verosimilmente saranno destinate a bloccare – o a limitare significativamente - i flussi di ingresso di manodopera nel Paese.
Se questo scenario è ragionevole, non lo si può utilizzare né per sostenere che l’UE potrebbe rafforzarsi a seguito della fuoriuscita della Gran Bretagna né che, a seguito di questa, possono accentuarsi i rischi di implosione: siamo di fronte a eventi mai verificatisi e di portata storica. E’ ovvio che l’Unione vive una crisi profondissima, ma è altrettanto ovvio che stabilire che vi è il rischio del suo fallimento, a condizione che non vi sia un’inversione di rotta delle politiche economiche, come spesso si sostiene ‘a sinistra’ in Italia, è come stabilire che se un paziente le cui condizioni di salute sono in continuo peggioramento non cambia terapia vi sono seri rischi che muoia. Qui il rischio è di far passare come previsioni pure tautologie.
NOTE
[1] Sembra di rilevare in questa tesi l’ipotesi implicita in base alla quale gli elettori votano come agenti razionali perfettamente informati (nello specifico sull’andamento del saldo delle partite correnti).
[2] Sul tema si rinvia a F. Daveri, Le conseguenze della signora Thatcher, La Voce info, 16.4.2013.
[3] Per un’analisi dettagliata degli effetti della caduta dei salari reali, del crescente indebitamento privato e dei fattori che trainano la recessione inglese si rinvia al Rapporto The cracks begin to show: A review of the UK economy in 2015 by Economists for rational economic policies, December 2015.
(29 giugno 2016)
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