Se Leonardo Sciascia fosse ancora vivo, rischierebbe di essere condannato per avere scritto di mafia.
Marco Aime Antropologo e scrittore
Non conosco Roberta, né ho letto il suo lavoro, ma qualcosina in materia di ricerca antropologica l’ho imparata. Per studiare una comunità, non importa dove, è necessario trascorrere lunghi periodi a contatto, condividerne la quotidianità, contrarre relazioni e anche amicizie. Solo così si guadagna la fiducia della gente che porta a farvi entrare nella loro sfera culturale e a comprenderla. La cosiddetta “osservazione partecipante” si fonda sulla presenza in loco, sullo scambio (non è proprio una novità, lo teorizzò Malinowski negli anni Venti del ‘900), perché gli oggetti di studio dell’antropologo non sono enzimi, molecole, insetti o protoni, ma esseri umani come lui. Ovvio poi che se si viene coinvolti in qualche evento, che può essere una cerimonia rituale o una manifestazione di protesta, nel narrarlo si usi il “noi”. Questo non significa necessariamente che chi scrive faccia pienamente parte della comunità: se uno studia i No Tav non necessariamente deve esserlo. Dopo decine di anni di ricerca in Mali, Benin, Burkina Faso non sono ancora divenuto africano.
Di cosa dovrebbero occuparsi allora i giovani dottorandi che vogliono fare ricerca, per non essere puniti? Disinteressarsi della realtà sociale che segna il loro Paese o altri Paesi?
Se c’è un dato positivo attribuibile all’antropologia è di fare uscire dall’Accademia i suoi adepti, di portarli sul terreno a conoscere le vite degli altri. Tradizionalmente, poi, gli antropologi si occupano di piccole comunità, gruppi minoritari, vanno a frugare in quelle che Claude Lévi-Strauss chiamava “le spazzature della storia”.
È normale, pertanto, che una giovane ricercatrice sia attirata da una comunità che rivendica un diritto di scelta sul proprio territorio. Sono moltissimi i ricercatori che hanno scelto la Val di Susa come terreno di ricerca in questi anni, proprio perché laboratorio emblematico di nuove relazioni. Cosa dovrebbero fare gli antropologi? Rimanere chiusi nelle università, ignorare il mondo fuori? Purtroppo questa è una tendenza fin troppo spiccata nelle nostre accademie. La ricerca nasce da passione e curiosità per ciò che è diverso. Passione e coinvolgimento che possono anche condurre a scrivere «noi», perché non si è mai soli nel fare qualcosa. Vogliamo colpevolizzare questa passione? O peggio, vogliamo che la ricerca si occupi solo di cose innocue e non fastidiose per chi sta al timone?
David Graeber, uno dei più interessanti antropologi dell’ultima generazione, celebrato anche da una copertina di Internazionale, è stato uno dei principali attivisti del movimento Occupy Wall Street, ha scritto un libero sul debito con posizioni radicali, manifesta apertamente le sue tendenze anarchiche. Nel 2005 l’Università di Yale, dove insegnava, non gli ha rinnovato il contratto, fatto che ha alimentato il sospetto di motivazioni politiche. Anche lui, probabilmente, è stato sanzionato per un «reato scientifico», ma con una differenza: nessun giudice è sognato di condannarlo per questo. Accadevano ai tempi di Galileo cose del genere.
L’accusa, se non si traducesse in condanna (due mesi di reclusione), sarebbe ridicola, ma ciò che è ancora più inquietante è l’idea che si possa essere puniti per avere partecipato a una manifestazione in veste di osservatori e per di più studiosi. Fatte le ovvie debite proporzioni e rimanendo sul livello del principio, non siamo distanti da ciò che è accaduto a Giulio Regeni, che da studioso cercava di indagare sui movimenti sindacali anti regime.
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