mercoledì 8 giugno 2016

L'agricoltura nella tempesta perfetta.


L'agricoltura nella tempesta perfettaDeflazione che comprime i prezzi, cambiamenti climatici sempre più estremi, una burocrazia feroce e il colpo di grazia con l'embargo russo: per chi lavora la terra è un momento difficilissimo. Dal latte alle arance siciliane, spesso i prodotti dei campi sono venduti sottocosto con il risultato che in 15 anni sono fallite oltre 300mila imprese. A salvarsi è solo chi riesce a saltare la filiera distributiva, ma non tutti se lo possono permettere 
repubblica.it di ANTONIO FRASCHILLA, VALERIO GUALERZI e JENNER MELETTI. Video LIVIA CRISAFI

Un caffè vale 11 uova, il paradosso dei prezzi
 

di JENNER MELETTI
ROMA - Bisognerebbe tornare al baratto per capire l'economia "reale". Il contadino italiano, per avere un caffè da 1 euro, dovrebbe andare al bar mettendo sul bancone 11 uova, oppure un chilo di carne di toro o di maiale, 6 chili di frumento tenero o di mais, quasi 3 chili di riso o 2 di mele. Se produce arance, in cambio della tazzina, ne deve consegnare 6 chili. Gli va meglio con le patate o con i pomodori di serra: ne bastano 2 chili. L’allevatore di vacche deve portare almeno 3 litri di latte e magari il barista gli chiede 10 o 20 centesimi in più in cambio della "macchia". Non è in incubo e nemmeno uno scherzo: questi sono attualmente i prezzi veri dell’agricoltura italiana, ovviamente all'ingrosso, che entrano nei bilanci delle aziende agricole rischiando di farle crollare. Deflazione è purtroppo una parola ora conosciuta anche nelle campagne: secondo l'indice alimentare della Fao i prezzi all’inizio del 2016 sono scesi al livello di sette anni fa.

Scarse differenze. Fra l'Italia, l'Europa ed il resto del mondo non ci sono molte differenze. La Fao registra in particolare i prezzi dei cereali, della carne, dei prodotti lattiero caseari, degli oli vegetali e dello zucchero. L'ultimo rilevamento – gennaio 2016 contro dicembre 2015 – ha accertato una diminuzione dei prezzi pari all’1,9%, riportando così il listino ai livelli del 2009. Calo dello zucchero del 4,9% (per la maggior produzione del Brasile), calo del 3,0% per i lattiero caseari, calo dell’1,7% per i cereali, stessa percentuale per gli oli vegetali. Per la carne i prezzi diminuiscono dell’1,1% (lieve aumento solo per la carne di maiale).Esiste un preicolo crack per i coltivatori italiani? "C’è un rischio consistente – risponde Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti nazionale – di abbandono delle attività, soprattutto in settori che richiedono fortissimi investimenti".
L'esempio del latte. "Facciamo l'esempio del latte - continua Bazzana - Il prezzo è fermo o in diminuzione ormai da anni. Il latte spot – quello che non è sotto contratto ma viene messo sul mercato per la trasformazione – nel 2000 veniva pagato 33,83 centesimi al litro. Nel 2008 è salito a 50,62 e in questi giorni è pagato 23,46. Il latte alla stalla – con contratto e raccolta – oggi viene pagato 37,29 centesimi. Per questo latte nel 2008 l’allevatore incassava 43,29. Basterebbero questi numeri per comprendere la gravità della crisi. Ma c’è di più. In questi anni i coltivatori hanno dovuto fare investimenti giusti ma anche pesanti per il benessere animale, la sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente. Nelle stalle le sale di mungitura sono piastrellate, negli allevamenti di polli gli animali sono a terra o nelle gabbie più spaziose. In agricoltura sono stati eliminati 500 principi attivi ritenuti dannosi ed al loro posto ci sono prodotti più ecologici ma più costosi. Tutto questo mentre i prezzi di vendita continuano a diminuire. Sarà difficile andare avanti. Dalla fine delle quote latte sono già state chiuse 1500 stalle. Senza interventi seri - stabilendo ad esempio che il prezzo della vendita non deve essere inferiore al costo di produzione - le stalle vuote (basta un giorno per chiuderle, servono anni per trovare i milioni necessari per riaprirle) saranno solo l'inizio di un ulteriore abbandono dell’agricoltura".

Non è solo una questione di soldi. "Se non sei più in grado di produrre alimenti sani perché non ti pagano il prezzo giusto, il cibo arriverà  – anzi, sta arrivando - da altri paesi che hanno regole e controlli più leggeri o comunque diversi dai nostri. Così la sicurezza viene messa in discussione. Il mercato alimentare è come quello della benzina: il petrolio va su e soprattutto giù ed i prezzi alla pompa restano fermi. Così è per il latte, la pasta, il pane e quasi tutto il resto. Crollano i prezzi in campagna ma il consumatore non se ne accorge. Se invece, di fronte al crollo del latte, si abbassassero anche i prezzi del formaggio, il consumo salirebbe e aiuterebbe la ripresa". Un’illusione, almeno per ora. Con il latte a 37,29 – il migliore – un mezzo litro di microfiltrato oggi costa 1 euro. Paghi soprattutto la lavorazione, il packaging, il trasporto, la pubblicità e tutto il resto. E così in tasca all’allevatore, dell’euro pagato per mezzo litro microfiltrato, arrivano poco meno di 19 centesimi.
Pochi centesimi decidono. Nella guerra commerciale spesso sono proprio pochi centesimi a decidere il successo o il fallimento. Si risparmia su tutto. In tante pubblicità si cita la mitica nonna con i suoi biscotti, le torte, dolci vari. La "nonna" però usava il burro, mentre adesso vanno alla grande l'olio di palma e la margarina. Tutto spiegato dai prezzi. Il burro in questi giorni sul mercato europeo costa 2823 euro la tonnellata, la margarina 980 euro e l'olio di palma scende a 751. Se vuoi battere la concorrenza, non hai scelta. "Noi della Coldiretti – dice Lorenzo Bazzana – crediamo che solo fissando un prezzo non inferiore al costo di produzione si possano salvare le aziende contadine e risalire la china. Se invece si va avanti così, si rischia forte. Se costruisci un’automobile puoi cercare di risparmiare sugli optional. Ma non puoi usare materiali scadenti nelle gomme o nei freni.  Altrimenti vai a sbattere".
Il peso di burocrazia, cemento e sanzioni
 
di JENNER MELETTI
BOLOGNA - Dal 2000 ad oggi – questa la denuncia di Confagricoltura, Cia e Copagri – in Italia sono state chiuse oltre 310mila imprese agricole. Per dire basta sono scesi in piazza, nei giorni scorsi, migliaia di contadini e allevatori. Antonio Dosi è il presidente della Cia, Agricoltori italiani, dell’Emilia Romagna ed è vice presidente nazionale della stessa associazione.

È possibile fermare questa emorragia?
"Il numero è enorme ma può salire ancora vertiginosamente se non si mette mano ai tanti problemi 'in campo': i ritardi nei pagamenti comunitari, la burocrazia asfissiante, i prezzi all’origine in caduta libera e le vendite sottocosto, le incognite dell'embargo russo, gli investimenti bloccati, la difesa del “Made in Italy”, la cementificazione del suolo, l’abbandono delle aree rurali, i danni da fauna selvatica. Sono ancora troppi i problemi non risolti: dalla burocrazia ai prezzi sul campo, che schiacciano inesorabilmente il reddito, impedendo innovazione e sviluppo. Basti pensare che solo la macchina amministrativa - tra ritardi, lungaggini, disservizi e inefficienze - sottrae all’agricoltura 4 miliardi di euro. Ogni azienda è costretta a produrre ogni anno 4 chilometri di materiale cartaceo per rispondere agli obblighi burocratici, 'bruciando' oltre 100 giornate di lavoro. Per non parlare del crollo vertiginoso dei prezzi alla produzione e della forbice esorbitante nella filiera tra i listini all’origine e quelli al consumo".

Quanto resta, rispetto al prezzo pagato dal consumatore, nella tasche di chi produce?
"In media per ogni euro speso dal consumatore finale, solo 15 centesimi vanno nelle tasche del contadino. Solo per fare alcuni esempi le arance sono pagate agli agricoltori il 40% in meno di un anno fa: ovvero 18 centesimi al chilo, contro i 2 euro al supermercato, con un rincaro che dal campo alla tavola tocca il 1111%. O ancora un agricoltore, per pagarsi il biglietto del cinema, deve vendere 30 chili di melanzane che oggi 'valgono' 26 centesimi al kg (-61% in un anno), mentre al consumatore vengono proposte a 1,90 euro con un ricarico del 731%".

L'embargo russo ha poi aggravato i problemi.
"Tra frutta, verdura, carni e prodotti lattieri, il blocco di Mosca alle nostre produzioni agricole è costato finora 355 milioni di euro, con esportazioni 'made in Italy' dimezzate in quasi due anni. Anche per questo siamo scesi in piazza. Ci sono tematiche fondamentali che vanno affrontate e risolte al più presto e che devono essere comprese anche dall’opinione pubblica. Perché il settore primario ha un valore inestimabile a livello produttivo, culturale e di salvaguardia dell’ambiente che deve essere sostenuto e non lasciato, appunto, nell’immobilità".

Il costoso pedaggio del clima che cambia
 

di VALERIO GUALERZI
ROMA – "Sotto la neve il pane, sotto la pioggia la fame". Come ci ricorda il proverbio, è dalla sua invenzione che l’agricoltura è costretta a fare i conti con i capricci del tempo. L’ultimo bollettino dei danni diramato dalla Cia è eloquente: le bombe d’acqua che hanno colpito a maggio il Paese hanno causato grosse perdite soprattutto alle ciliegie. In Puglia sono andati distrutti quasi 80 milioni di euro di frutti da inizio campagna. Mentre a Ferrara, ma anche in diverse aree del Bolognese, del Basso Veneto e del Mantovano, la situazione climatica atipica ha provocato nei frutteti un grave fenomeno di "cascola", la caduta anormale e prematura dei fiori e dei frutti. La confederazione parla di "un colpo durissimo, tanto più che la Puglia è la prima regione in Italia in termini di produzione di ciliegie, rappresentando il 40% del totale nazionale, con 17mila ettari investiti (di cui 15mila nella sola provincia di Bari), 600mila quintali prodotti, un volume d'affari di 300 milioni di euro e un fabbisogno annuo di manodopera stimato in 2 milioni di ore lavorative". Tempi difficili anche per peri e albicocchi del ferrarese, con perdite tra il 50 e il 60%. Qui a compromettere l’andamento sono state le brusche e improvvise variazioni di temperatura dalla fine di aprile con minime tra 0 e 4-5 gradi e fenomeni di brina seguiti da termometri schizzati, nei momenti centrali della giornata, anche a 28 gradi in pieno sole.

Se è vero che da sempre una grandinata, una gelata o un botta di caldo possono facilmente rovinare il raccolto, è altrettanto vero però che quanto sta accadendo ora nei campi italiani è qualcosa di molto diverso dal naturale rischio che ogni contadino si assume nel momento in cui pianta un seme e sceglie di affidarsi alla clemenza del tempo. L'eccezionale si sta trasformando in normale e l'anomalo in consueto. Il riscaldamento globale aumenta infatti la sia frequenza che la violenza degli episodi meteo estremi e l’Italia, come certificano il IV e il V Rapporto realizzati dall'Ipcc (l'organismo Onu che analizza, valuta e sintetizza le pubblicazioni scientifiche in materia di clima), si trova nel cuore di un cosiddetto hot spot, ovvero in una zona particolarmente sensibile a cavallo di diverse fasce climatiche dove i cambiamenti saranno (e hanno iniziato ad essere prima di quanto stimato a suo tempo) particolarmente accentuati.

Il puntuale "piagnisteo" che arriva dalle associazioni di coltivatori e agricoltori sui danni del maltempo non è più quindi maliziosamente attribuibile solo alla proverbiale furbizia contadina per mettere le mani avanti sui prezzi, ma è un problema concreto che purtroppo promette solo di peggiorare. Solo per rimanere alla produzione delle ciliege, il pezzo pregiato di questa stagione, in un articolo pubblicato sul sito dell’Accademia dei Georgofili, il professor Carlo Fideghelli del Centro ricerche per la frutticoltura, spiega: "La frutticoltura europea è prevalentemente concentrata nei paesi mediterranei e la maggior parte delle cultivar attualmente coltivate ha un fabbisogno in freddo invernale che varia da 6-700 a 1000-1200 ore (calcolate convenzionalmente da ottobre a febbraio al di sotto di 7,2°C), in linea con il normale andamento climatico. Il progressivo innalzamento delle temperature invernali, che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni, fa registrare, con sempre maggiore frequenza, un accumulo di freddo che non supera le 500-600 ore, riportando di attualità un problema che sembrava risolto".

Anche le gravissime perdite con cui hanno dovuto fare i conti l'olivicoltura italiana nel 2014 in seguito all’attacco della mosca olearia, sono stata favorite dal clima che cambia. "Purtroppo gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti e hanno conseguenze dirette sulle coltivazioni: dal 2007 a oggi, per gli effetti combinati di maltempo e siccità, caldo e gelate improvvise, l’agricoltura ha già pagato un conto di 6 miliardi di euro.", commenta il presidente nazionale della Cia, Dino Scanavino. Il bilancio stilato da Coldiretti è persino più pesante: 14 miliardi di euro di danni nell'ultimo decennio a causa delle bizzarrie del tempo. "È chiaro, quindi - insiste la Cia - che ora come in futuro, c’è bisogno di azioni più incisive tanto per la prevenzione quanto per i risarcimenti alle perdite subite dagli agricoltori". In tal senso, conclude Scanavino, "è sempre più necessario rafforzare e rendere più tempestivi sia gli interventi in caso di crisi sia gli strumenti di gestione del rischio, come ad esempio quelli assicurativi e mutualistici".

Arance crack: prodotte a 20, vendute a 5

di ANTONIO FRASCHILLA

PALERMO - Una crisi senza fine. Ogni anno un nuovo record negativo. La produzione di quello che era una volta l’oro della Sicilia, adesso è soltanto un peso. Anche nell’ultima stagione la vendita di agrumi, arancia rossa su tutti e limoni, ha fatto registrare numeri a dir poco bassi e perdite per tutti i produttori.  "È stata un’annata disastrosa, credo sia stata la peggiore di sempre – dice Giovanni Pappalardo, agrumicoltore e direttore Coldiretti Catania – quest'anno i prezzi sono scesi a 5 centesimi al chilo e non si sono coperti i costi di produzione perché per il coltivatore il costo al chilo per le arance è di circa 20 centesimi. Insomma, nessuna remunerazione per il lavoro, ancora piante con arance non raccolte e dove le arance sono rimaste sulla pianta l’imprenditore non può fare i lavori per mantenere l’agrumeto pronto per la prossima stagione. Quindi crescerà ancora l’abbandono della coltivazione di quello che una volta era il fiore all’occhiello dell’agricoltura siciliana e italiana".

I numeri dell’ultima stagione sono impietosi. Nell'Isola, leader assoluta nella coltivazione di agrumi in Italia, la superficie di arance coltivate è 53mila ettari: soltanto dieci anni fa erano 60mila. La produzione totale è scesa quest'anno a 11,7 milioni di quintali, nel 2006 si produceva un milione di quintali in più di arance. Ma il problema è che questi numeri non sono sufficienti a spiegare il calo della redditività: prima un quintale valeva quattro volte di più. Adesso il prezzo alla vendita scende di anno in anno a causa di una filiera troppo lunga, di una concorrenza agguerrita e per certi versi sleale dei paesi del Nord Africa e di un settore produttivo che non riesce a fare sistema: in Sicilia non vi sono grandi cooperative di produttori che possono imporre prezzi e marchi. L'arancia rossa nei supermercati di Catania è venduta a 1 euro e in alcuni casi anche 1,5 euro al chilo, nel resto d'Italia i prezzi sono stati ancora più alti. Qui ci guadagnano tutti: dal commerciante che acquista sulla pianta alla grande distribuzione. Tutti tranne i coltivatori.

Ma a cosa è dovuto il crollo del prezzo? "La risposta è semplice – dice Pappalardo -  incide l'embargo russo, che di fatto riduce la domanda. E incidono gli accordi commerciali di Tunisia e Marocco con l’Unione Europea a dazio zero. Lì la mano d'opera costa 30 dollari al mese, noi un operaio lo paghiamo 50 euro al giorno più contributi. Loro in Nord Africa possono utilizzare pesticidi, noi no. Questa è concorrenza sleale".

Secondo l’osservatorio Coldiretti il rischio è che la produzione di agrumi scompaia e con questa anche la spremuta di arancia rossa. Negli ultimi quindici anni una pianta di arance su tre è sparita, una su due se si parla di limoni. Se si allarga poi l'orizzonte a tutta la produzione agrumicola italiana, negli ultimi 15 anni sono andati persi 60mila ettari di agrumi e ne sono rimasti 124mila, dei quali 30mila in Calabria e 71mila in Sicilia. "Il disboscamento delle campagne italiane – sostiene la Coldiretti - è il risultato di una vera invasione di frutta straniera con le importazioni di agrumi freschi e secchi che negli ultimi 15 anni sono praticamente raddoppiate per raggiungere nel 2015 il massimo storico di 480 milioni di chili".

Asparago contro mais, vince chi salta la filiera
 
di JENNER MELETTI
FERRARA - Loris Braga, quando lo andiamo a trovare, sta seminando il mais nelle immense campagne del ferrarese, in quella che era la valle paludosa del Mezzano. Roberto Lodi sta raccogliendo gli asparagi nel suo fondo, Corte Roeli di Malalbergo. Due modi diversi di coltivare la terra, e soprattutto di affrontare il mercato. "Sto seminando – racconta Loris Braga – e ancora non ho venduto il mais dell’anno scorso. Prezzi troppo bassi, ci avrei rimesso. In questi giorni il prezzo sembra in leggera ripresa, sopra i 17 euro al quintale, e ogni settimana cresce di una decina di centesimi, che sono poi quelli che permettono di pagare il magazzino. Ma basta la notizia di una nave che arriva carica di mais per fare abbassare subito il prezzo. In sintesi: sto spendendo soldi e fatica per seminare e ancora non so se e a quanto venderò la produzione dello scorso anno".

Sognando 20 euro al quintale. Grandi campi – qui imperava il latifondo – di soia, barbabietole e mais. "Il mercato dei cereali c’è sempre stato. A rovinare noi produttori è soprattutto la speculazione. Il 70% del mais viene comprato all’estero – anche se è meno ricco di proteine e grassi – e con il 30% italiano gli speculatori giocano come il gatto con il topo. Se in prezzo scende, comprano. Appena sale anche di poco, non si fanno più sentire, fino al nuovo ribasso. Fino a una ventina di anni fa c'era più stabilità dei prezzi ed era possibile programmare una rotazione delle colture sapendo che comunque il pane lo avresti portato a casa. Fino a quattro o cinque anni fa il mais era venduto ancora a 20 o 21 euro al quintale e si faceva reddito. Venti euro sarebbe un prezzo onesto anche oggi ma ormai sembra impossibile. Perché continuo a seminare? Questa è terra benedetta per i cereali e soprattutto per il mais. Qui vicino a Comacchio produciamo 120-130 quintali per ettaro contro un media della provincia di Ferrara di 90-100 e medie ancora più basse in quasi tutta la Valpadana. Chi produce molto meno di noi, e magari non ha ancora venduto i sacchi dell’anno passato, non so proprio come possa tirare avanti. Capisce adesso perché ogni anno l’agricoltura perde migliaia di ettari?".

Davanti alla bottega di Campagna Amica alla Corte Roeli di Malalbergo c'è la fila. Al momento della nostra visita è tempo di asparagi verdi: i migliori sono venduti a 4 euro al chilo. Roberto Lodi ha 8 ettari di terra. “Inizio a fine marzo con gli asparagi e finisco a novembre con i miei cachi che hanno ormai cento anni. In mezzo, albicocche, pesche, prugne, pere, mele, con tanta attenzione a quelle specie che stavano scomparendo, come le pere dottor Guyot e abate Fetel".

C'è anche l’agriturismo. Nei prossimi giorni arriveranno cuochi stranieri per imparare a cucinare gli asparagi e a preparare i tortelloni. “Ho capito da tempo che se non tagli la filiera non ci salti fuori. I miei asparagi a 4 euro costano comunque molto meno di quelli dei supermercati e sono più freschi e buoni. È per questo che i miei clienti arrivano da Ferrara, da Bologna, da Modena, in un raggio di 20-25 chilometri". Una posizione fortunata (poche centinaia di metri da un casello autostradale) e soprattutto la capacità di tenere aperta la Bottega tutto l’anno. "Vendo frutta e verdura fresche ma soprattutto le conservo. Faccio l’esempio delle pere Abate, che sono Igp. Se le do ai commercianti, prendo 0,37 euro al chilo. Nella Bottega, appena raccolte, sono vendute a 1,50 al chilo. Le altre le faccio sciroppare in un laboratorio e mezzo chilo è venduto a 3,5 euro. Ci sono spese in più, certo,per la lavorazione, il vasetto, lo sciroppo ma un chilo di Abate così mi viene pagato 7 euro. E posso incassare tutto l’anno".

Le ricette valore aggiunto. Non pretende di insegnare agli altri agricoltori, Roberto Lodi. "E chiaro che chi produce migliaia di quintali di grano o di mais non può certo vendere a bottega in azienda. Io dico soltanto che, dove è possibile, questa è la strada giusta da prendere. Arrivi qui, vai nei campi di asparagi, li puoi anche mangiare nel nostro agriturismo, magari ti fai insegnare qualche ricetta… Ci sono verdurai di Bologna che mi telefonano e mi dicono: portami gli asparagi, il prezzo fallo tu, non importa. Sono soddisfazioni. Quando penso che ci sono colleghi che consegnano i frutti del loro lavoro ai commercianti o all’industria e non sanno quando e quanto saranno pagati, sto male per loro. L’agricoltura deve cambiare. Io posso solo indicare il pezzo di strada che ho scelto".

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