Sognare. Collaborare. Costruire. La scrittrice sarda con un libro chiama a rapporto la sua generazione. Per un’Italia aperta ai migranti che la scelgono rischiando la vita.
La caratteristica più bella di Michela Murgia è il suo prendersi sul serio. Esistono infatti due Michela Murgia. La prima è la scrittrice molto amata dai lettori (e ancora di più dalle lettrici); e basti pensare a romanzi come “Accabadora” o “ Chirù ”. La seconda Murgia, invece è un’intellettuale pasionaria e radicale, coinvolta in prima persona in politica; candidata due anni fa alla presidenza della Regione sarda a capo di una lista indipendentista, femminista, teologa, autrice di pamphlet come “Ave Mary. Come la Chiesa inventò la donna”, pubblicato cinque anni fa; o dell’appena stampato “Futuro interiore” (tutti quanti con Einaudi).L’incontro, in un ristorante romano, è con la seconda Murgia; elegantissima, spiritosa, in apparenza molto mondana e quasi seduttiva, ma al contempo terribilmente acuta e convinta di poter cambiare il mondo grazie alla forza della propria parola. Ma poi, a pensarci bene, l’aria di mondanità unita alla convinzione che si possa mutare il mondo a mezzo di un linguaggio radicale è sempre stata la dote dei veri intellettuali.
Procediamo però con ordine. “Futuro interiore” è un libro di poco più di cento pagine, generazionale. Diviso in tre parti: la prima dedicata appunto alla responsabilità della generazione di Murgia; la seconda alla bellezza e a cosa sono le città oggi; la terza alla questione del potere declinato al femminile; il libro è una specie di appello a non arrendersi, a non rassegnarsi, a continuare a progettare un avvenire, senza più illusioni di ideologie redentrici o di trascendenza politica. Occorre agire qui e ora, dice Murgia, a partire dal concetto di responsabilità.
Nata nel 1972, a Cabras, quindi 44enne, dice: «Il futuro è la conseguenza di quello che facciamo nel nostro presente». Sembra banale, ma non lo è; prima di tutto perché le sue parole non escludono la possibilità, anzi la necessità che il futuro sia anche sognato (lo dice esplicitamente nel libro). In secondo luogo perché rimandano, implicitamente - le citazioni nel testo di Murgia sono poche e sporadiche - a un passo di un pamphlet esemplare; “Il 18 brumaio di Luigi Napoleone”, dove Marx dice: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé».
E in quali circostanze opera la generazione dell’autrice sarda («la generazione dei nati tra il 1963 e il 1980», specifica lei)? La risposta, a prima vista è devastante. Si tratta, nel vecchio continente e in Italia nello specifico, di uno strato di popolazione che per la prima volta nella storia ha la certezza di vivere non meglio, ma peggio dei propri genitori. In più, è una generazione debole numericamente e priva di un vero legame generazionale; una generazione apparentemente “perduta”, se non addirittura inesistente. Eppure, dice, la intellettuale: «Noi abbiamo un compito storico; quello di essere dei pontefici».Pontefici? «Sì, noi siamo una generazione che può costituire una specie di ponte, un passaggio tra la generazione dei nostri padri e delle nostre madri e la generazione dei ragazzini di oggi». In altre parole: «La nostra apparente debolezza è un richiamo alla nostra responsabilità, a essere dei veicoli della transizione». Spiegazione: Murgia fa un esempio semplicissimo. «La generazione dei baby boomer e cioè dei miei genitori, è composta da digitali tardivi. Da adulti hanno imparato cosa sono i computer. I nostri figli sono digitali nativi. Solo la mia generazione ha ancora un vago ricordo del mondo prima dell’epoca di Internet ma è cresciuta con i computer ed è diventata adulta con la Rete. Apparteniamo sia al passato sia al futuro, molto di più di qualunque altra generazione nella storia».
Ma allora cosa devono fare i pontefici? E in quali condizioni debbono costruire un avvenire? Sempre per Marx del “18 brumaio”, la rivoluzione sociale cercherà la poesia nel futuro e non nel passato. Ma si era nell’800 e il progresso sembrava inarrestabile. E oggi, che il progresso o meglio il suo mito è venuto meno? Piedi per terra, statistiche alla mano (non le citeremo ma si tratta dell’invecchiamento e quindi di un possibile suicidio demografico dell’Europa), Murgia suggerisce che dobbiamo ripartire dal concetto della cittadinanza. O se vogliamo; i barconi che ogni giorno affondano davanti alle nostre finestre con il carico insopportabile di bambini morti, ci chiamano non solo a una presa di coscienza umanitaria, ma anche a un ripensamento davvero radicale della nostra identità.
Ed è qui che si trova il nocciolo più interessante proprio perché più controverso del ragionamento dell’intellettuale autrice del “Futuro interiore”. Lei parte, in questa conversazione ma un po’ anche nel libro, da due premesse. L’una, che anche se sono le élite a fare la storia, «è dalle periferie e dalle aree di disagio che può cominciare l’opera di cambiamento». E infatti, ed eccoci alla seconda premessa, lei un po’ periferica è, perché si considera, da sarda indipendentista, una scrittrice e una intellettuale “post-coloniale”. È una migrante anche lei, dunque. E da migrante, Murgia pensa che il concetto di cittadinanza vada riformato.
Tra ius sanguinis e ius soli, e cioè tra l’alternativa tra cittadinanza per discendenza e cittadinanza per nascita sul “suolo patrio”, lei opta per lo “ius voluntatis”: è cittadino chi vuol esserlo e chi si impegna per il futuro condiviso. Come avviene un po’ in Canada (modello di molti teorici dello stato non nazionale e post-coloniale e molto studiato da indipendentisti sardi). «I nostri Stati già oggi non sono dei monoliti culturali», dice, sorride e cita una scrittrice a lei cara: Grazia Deledda. E i migranti? «Vanno accolti tutti, altrimenti siamo tutti morti», dice con una voce forte e risoluta e richiama «il dato di libertà a cui la nostra modernità attribuisce il massimo valore, e cioè la volontà personale».
Nel futuro auspicato da Murgia, ognuno sarà libero di coltivare e preservare la sua esperienza e la sua appartenenza a patto di metterla al servizio degli altri;,«senza una gerarchia della cultura e dell’appartenenza dominante». E non c’è solo l’esempio di Deledda e del passato. Parlando della letteratura, la scrittrice e intellettuale indica i suoi colleghi e colleghe, autori italiani che nella letteratura della Penisola e delle isole portano i sapori, ma anche le sfumature linguistiche dei propri paesi d’origine: Anilda Ibrahimi e Ornela Vorpsi, scrittrici italiane nate e cresciute in Albania, giusto per fare due nomi.
Poi, richiamandosi, sempre con un certo understatement a un filosofo migrante e senza terra come Walter Benjamin, dice: «Noi, oggi siamo dei sopravvissuti, viviamo sulle macerie e a partire da questa condizione che possiamo e dobbiamo pensare all’avvenire». Aggiunge: «Questo libro è per me una specie di testamento». Testamento precoce per una donna a metà dei suoi anni quaranta, ma eredità per la sua tensione verso le generazioni a venire. Il resto sono considerazioni sulla bellezza come categoria politica («perché la bellezza ha a che fare con i rapporti di potere»), sugli spazi pubblici che vengono privatizzati e invece esistono esempi (isolati) di come potrebbero essere luoghi di condivisione democratica dei linguaggi; e infine sul potere, che declinato al femminile non è verticalizzato, personalizzato, ma condiviso e partecipato: «Esiste un uomo solo al comando, ma una donna sola al comando è un controsenso». Ecco spiegato il mondo secondo Murgia. La discussione è aperta.
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