Un altro eloquente dettaglio, solo in apparenza un dettaglio, si ritrova nella lettura della scheda relativa all'Egitto presente sul sito "Viaggiare sicuri", il portale della Farnesina destinato ai turisti italiani. Qui, nella sezione dedicata alla "sicurezza", non si trova traccia della vicenda del sequestro, delle torture e dell'assassinio di Giulio Regeni. E invece vengono riportati eventi - altrettanto drammatici, sia chiaro - come l'incidente aereo che ha interessato un veicolo della Egypt Air del maggio scorso; l'assalto armato contro il Resort Bella Vista di Hurghada avvenuto a gennaio; lo schianto di un aereo commerciale russo nel Sinai nell'ottobre del 2015; e l'esplosione di un ordigno di fronte all'Ambasciata italiana nel luglio dello stesso anno, che ha causato una vittima. Manca qualcosa, e qualcuno? Semplice e atroce: mancano il nome e cognome di Giulio Regeni.
Abituato, da sempre, a sottrarmi a qualunque tentazione complottistica e a non scorgere coincidenze maliziose, persino le più evidenti, vorrei attribuire al caso anche questa singolarissima lacuna. Un vuoto che risulta ancora più incomprensibile se si tiene conto che la funzione di quel sito internet è esattamente quella di avvertire i visitatori italiani dei rischi individuali e collettivi che si corrono in quel Paese. Ora, la sorte di Giulio Regeni non riassume proprio molti dei pericoli che potrebbero insidiare un giovane curioso e intelligente, che voglia conoscere l'Egitto fuori dai circuiti del turismo di elite? Ma una simile omissione rivela ben altro. Ovvero quello che appare, al presente, un gravissimo stato di inerzia in cui è precipitato il governo italiano. Da quell'8 aprile scorso nulla, proprio nulla, sembra sia stato fatto. E niente è dato sapere di quanto annunciato dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, il 29 aprile scorso a proposito della "pressione diplomatica esercitata dall'Italia in tante forme". Eppure, dall'altra parte - dalla parte del regime egiziano - si è rinnovato un atteggiamento di totale chiusura, talvolta tradottosi in aperta ostilità, talaltra appena travisato da una generica volontà di collaborazione.
Nessun atto di vera e propria cooperazione tra i due Stati, nessuna reale integrazione tra procura egiziana e procura italiana, nessuna dichiarazione politica che annunciasse l'intenzione di un cambiamento radicale di rotta da parte del regime di Al-Sisi. E, all'opposto, una costante diffidenza, con alcuni tratti di aggressività malcelati o apertamente espressi, nei confronti dell'Italia. Dunque, che cosa si deve aspettare ancora? Capisco tutte le esigenze della riservatezza e della cautela nelle relazioni sovranazionali, ma la prudenza che connota la politica del governo non sembra accompagnare un intenso e operoso e incisivo lavorìo, bensì, una desolante inattività. E da settimane e settimane il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio sono straordinariamente laconici sulla vicenda.
C'è da augurarsi che questa sia la forma solo esteriore di un'incessante azione capace di coltivare insieme franchi rapporti diplomatici e strumenti di pressione, canali di comunicazione costantemente attivi e ricorso a mezzi persuasivi sotto il profilo economico, commerciale e turistico. Se così non fosse, si avvererebbe l'ipotesi più infausta. Quella che prevede la soluzione del caso Regeni attraverso la sua non soluzione.
Nella constatazione, cioè, che non c'è proprio nulla da fare. È il messaggio terribile che lo stesso comportamento delle autorità accademiche di Cambridge sembra trasmettere, e al quale in tanti sembrano lavorare. Conservare, cioè, una forma di memoria, fatta solo della materia del dolore e del rimpianto, della perdita e del lutto: una memoria dolente che si dichiari incapace, tuttavia, di indagare, se non trovare, la verità dei fatti e delle cause. Ma una simile memoria rassomiglia tanto all'oblio.
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