Da una settimana 23 occupanti di case hanno deciso di cessare di alimentarsi per il diritto ad una vita dignitosa per tutti, trasformando via Santa Croce in Gerusalemme in una piazza che parla alla città.
• Campidoglio, cariche e idrante contro gli occupanti di case
dinamopress.it Rossella Marchini e Antonello Sotgia
Sono oltre diecimila le persone che vivono nelle occupazioni romane. Da alcuni giorni ventitré di loro si sono chiesti perché, e chissà per quanto tempo, dovranno continuare ad avere come casa scuole abbandonate, uffici dismessi, uno dei tanti immobili fatti marcire o consegnati alla cartolarizzazione. Quel meccanismo dove l’ingegneria finanziaria condanna a morte quella edilizia, trasformando edifici, che potrebbero diventare le case che mancano, in pezzi di carta. Da aggiungere all’elenco patrimoniale di uno dei tanti fondi immobiliari che fanno shopping edilizio nel nostro paese. Sono in costante crescita, per numero e per capienza del proprio portafoglio di edifici pubblici.È il caso del grande edificio in via di Santa Croce 55 che, fino al 2011, ospitava la Direzione Generale dell’Inpdap, l’istituto di previdenza per i dipendenti pubblici. Un ente unificato con l’INPS dal governo Monti attraverso il decreto Salva Italia.
Un mastodontico edificio che, dopo l'abbattimento di una serie di “villini” costruiti secondo il PRG del 1931, si è spiaggiato, negli anni '60, al loro posto. Secondo le indicazioni di chi, deciso a continuare ad intasare il tessuto edilizio all’interno delle mura storiche con uffici da offrire all’acquisto di compiacenti e sempre disponibili Consigli di Amministrazione, ha condannato il centro antico al deserto residenziale. Abitato allora (1960) da oltre 400 mila persone è passato agli attuali, neppure loro lontani parenti, 80 mila.
In termini urbanistici tutto questo vorrà dire vendere a chi, per farne proprio oggetto di rendita, deciderà ed imporrà al Comune che cosa farne. Il gestore del fondo (InvestiRE SGRs.p.a), che ha tra i propri compiti quello di “riposizionarli”, una volta ricevuto l’ex Inpdap, per prima cosa ha pensato di “murarlo”. L’edificio, ha resistito “sotto vuoto spinto” per meno di due anni. Poi è stato occupato da oltre cento famiglie.
Dal finire del 2013 è diventato una di quelle tante parti di quel “quartiere di Roma che non c’è”. Decine e decine di case, immobili, edifici non tenuti assieme da strade e rotonde, da servizi, da indicazioni toponomastiche o da qualche sistema infrastrutturale, ma da una negazione rappresentata dal non riconoscere, a una sempre maggiore quota di persone, il diritto alla casa. Anni ed anni di lotte, manifestazioni, ma anche proposte e sperimentazioni. Occupazioni che sono riuscite a trasformarsi in casa (Masurio Sabino) o in una manciata (esigua) di esperienze di autocostruzione.
Troppo poco per chi, magari con il massimo del punteggio, è in graduatoria, anche da più lustri, per vedersi assegnare una “casa popolare”. Troppo per chi, piegato agli interessi degli energumeni del cemento, ha fatto di ogni occupazione un pretesto per trasformarla in un problema di ordine pubblico. Come è avvenuto solo pochi giorni fa quando il commissario Tronca, rifiutandosi dispoticamente di ricevere una delegazione dei “movimenti” che manifestavano sulla piazza del Campidoglio, ha di fatto aperto la strada a blindati che sputavano acqua, incuranti delle molte famiglie che avevano davanti e del luogo così, e per la prima volta, pesantemente violato.
È stata sgomberata una manifestazione autorizzata, che chiedeva ragione del perché quando, per la prima volta, la regione Lazio aveva provveduto a stilare e a dotare di circa 200 milioni di euro un programma per l’emergenza abitativa, lo stesso Commissario, chiamato a curare l’amministrazione ordinaria della città, avesse risposto abbassando la quota degli alloggi destinata agli occupanti al solo 15% dell’intero pacchetto, introducendo così una vera e propria “clausola rescissoria” al programma regionale che parla specificatamente di “recupero” e “auto recupero” di alloggi esistenti.
Ancora una volta Tronca ha scelto di obbedire a chi ha fin qui inzeppato Roma di edifici, a chi preferisce tenerli chiusi grazie al regalino dell’esenzione ICI concessagli dal governo, a chi manda deserta ogni dichiarazione d’interesse per conferire alloggi da utilizzare per l’emergenza abitativa, a chi di fronte alla valutazione di acquisto fissata dalla Giunta regionale in 1.636 euro a metro quadro, si straccia le vesti perché lui ha costruito le case per fare rendita, non certo per tirarne fuori solo un utile d’impresa. Perché cambiare?
In una città che si vuole continuare a mantenere così, in 23 nell’occupazione di via di Santa Croce, hanno deciso di “cessare di alimentarsi”. Uno sciopero della fame in rappresentanza di chi non vuole vivere e morire in occupazione, di chi vuole strappare il diritto ad avere una vita dignitosa, di chi vede che il “dramma della casa a Roma è senza soluzione per migliaia di famiglie”.
Una campagna che ha usato come nome il titolo di un libro del 2004 del sociologo polacco Zigmunt Bauman: Vite da scarto, le vite di chi si mette in gioco in questa battaglia contro chi “vorrebbe fare di Roma una discarica umana”. 23 storie da far conoscere alla città.
Sono tante e diverse le biografie di chi si incontra nelle occupazioni. Così come tante e diverse sono le provenienze geografiche (i paesi di origine) e territoriali (gli spazi occupati) che i 23 rappresentano. Cosa hanno in comune tra loro i 23? Cosa ha in comune il pugile peso massimo - venuto dall’Uganda in Italia da 32 anni e cittadino italiano, che racconta “ho combattuto con Monzon (quello italiano, non l’argentino precisa) ho perso ai punti ma… ” - con chi è nato e vissuto a san Lorenzo, a una manciata di metri da qui, e dopo aver perso il lavoro si è ritrovato da anziano fuori da quel lungo edificio di via dei Campani? Quello dove i cortili, intrecciandosi tra loro, formano una strada interna e dove, un tempo, ci si affacciava per esprimere e praticare aiuto reciproco. Ora da lì, lui come tanti, è stato cacciato da una proprietà che se ne frega e vuole trasformare la sua “stanza” in una miriade di posti letto per studenti. Un lavoro più redditizio e (spesso) esentasse. Cosa hanno in comune con la signora rimasta senza lavoro e senza casa a Spinaceto, che nelle intenzioni delle giunte di sinistra era stato pensato come modello dell’abitare e che ha visto il serpentone di cemento e i suoi tanti palazzi franare sotto l’attacco dell’economia liberista che ti condanna prima al debito e poi ti strozza e ti spinge sulla strada a vivere in macchina? O in occupazione, appunto.
Sono tante le storie, sono tanti i paesi che ognuno dei 23 rappresenta. Così come tante sono le religioni, le usanze, le parole e alle volte, rari, i silenzi. Perché le parole sembrano non bastare. Quelle che ti raccontano dell’articolo 5 del Piano casa del ministro Lupi, che nega il diritto alla residenza e di conseguenza all’assistenza sanitaria, alla scuola dei tuoi figli. Quelle che ti raccontano di come si vive in un ufficio che ospitava la USL, del doversi ritagliare spazi tra le stanze di un ufficio. Quelle di chi si è trovato ad organizzarsi intorno una stanza di albergo, ma non era e non è una vacanza e va avanti così dal 2012. Quelle di chi, più giovane, ha vissuto sempre in un’occupazione. Da quando è nato. Quelle di chi, attivista di Action, cerca di mettere insieme tutte le tessere di un mosaico che quando si stava, con la delibera regionale, faticosamente iniziando a comporre, è stato bruscamente frantumato, perché le case devono appartenere a chi può far crescere il mercato. Non agli ultimi, non alle “vite di scarto”.
Un consiglio accolto solo in parte, perché si preferisce stare sulla strada, in quella che ora è diventata quasi una piazza attrezzata dove ci si chiede perché non transitano i candidati Sindaco che di parole ne spendono tante, ma che, stranamente, sul tema del diritto all’abitare si incartano. Tra discorsi sulla legalità, su fantomatici bandi, sul far coincidere domanda con offerta a vantaggio ovviamente di chi offre (case da pagare salato), sul diritto proprietario al riparo da ogni finalità sociale, ma che risultano incapaci di capire come le occupazioni non sono il veleno all’abitare che loro dicono. Mettere, come succede a Santa Croce 55, in gioco la propria vita di scarto è difficile per loro da capire.
Per questo da questa nuova piazza arriva una richiesta, diretta a tutti che questa città intendono trasformare lottando, di “portare una chiave ed appenderla al cancello, come simbolo dell’emergenza casa”. Un atto simbolico per riaprire il diritto all’abitare. Questo hanno in comune queste storie. Queste storie appartengono alla città.
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