venerdì 6 maggio 2016

Per favore non chiamateli nativi digitali

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Tempo fa siamo rimasti tutti colpiti da una ricerca che registrava un aumento disperante della percentuale di “analfabeti funzionali” nelle popolazioni occidentali. Anche noi avevamo provato a ragionare sul fenomeno – evidentissimo, per lo meno a chi fa politica, conflitto sociale e istruzione – individuando (qui e qui) proprio nella diffusissima fruizione passiva di mezzi informatici una delle cause principali di un scadimento fortissimo delle capacità cognitive individuali.
La definizione data da un’insegnante, Vanessa Niri, su Wired, ci era apparsa lapidaria:

Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.
Non un analfabeta classico, insomma, ossia un essere umano che non sa leggere e scrivere, ma possiede comunque una individuale capacità di capire. Al contrario, un analfabeta funzionale sa leggere e scrivere, ma non capisce il senso di quel che legge, non lo sa riassumere, spiegare e, soprattutto, mettere in relazione il contenuto appena letto con tutti gli altri letti in precedenza e magari attinenti allo stesso tema.
Ora quest’altra riflessione basata su esperienze scolastiche pluriennali, da parte di un esperto in tecnologie digitali, conferma la “diagnosi”, purtroppo infausta, sul carattere genocida – per l’intelligenza umana diffusa – della sostituzione dello sforzo di apprendimento con la “facilità tecnologica”.
E’, su scala infinitamente più grande, quel fatto che “gli anziani” avevano già registrato al momento della diffusione di massa delle calcolatrici da tasca. Comodissime, certo, ma letali per le capacità di calcolo di qualsiasi ragazzo. Non serviva più “far di conto”, magari sbagliando e correggendosi, ma era sufficiente “chiedere” all’infallibile algoritmo aritmetico.
Quel piccolo “buco nel cervello” – cosa volete che sia la rinunica a fare personalmente le quattro operazioni di fronte alla liberazione di intelligenza, tempo ed energie sottratte alla tortura dell’ora di matematica! – si è allargato a quasi tutte le materie dello scibile. Marchionne e Google ci promettono che nel giro di pochi anni ci saranno automobili che non è necessario guidare. Così anche quell’ultima funzione umana collegata a questa merce – saper guidare non ha mai significato, infatti, saperla manutenere, riparare o addirittura costruire – verrà eliminata. Chissà a chi farrano correre la Formula 1…
In estrema sintesi. Tutte queste trasformazioni tecnologiche ci consegnano una crescente percentuale di individui capaci di cliccare e “touch-are”. Ma incapaci di intendere la complessità del mondo. Dunque di volerlo anche cambiare.
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Per favore, non chiamateli nativi digitali
Vado spesso nelle scuole a insegnare le basi della sicurezza informatica e della gestione della privacy in Rete, per cui incontro sovente i cosiddetti “nativi digitali”: i giovani che hanno sempre vissuto attorniati dalle tecnologie digitali e dalle consuetudini sociali che li caratterizzano. Quelli che non si ricordano del mondo prima di Internet, cellulari, tablet, Playstation e smartphone e quindi li considerano elementi assolutamente ovvi e naturali della propria esistenza. I genitori di questi nativi li contemplano spesso estasiati, ammirando la naturalezza con la quale maneggiano i dispositivi digitali, come se vedessero Mozart al clavicembalo, e sospirano rassegnati, convinti di non poter competere con chi è cresciuto sbrodolando omogeneizzati sul touchscreen e sicuri che basti dare ai loro virgulti un iCoso per garantire loro l’articolata competenza informatica di cui avranno bisogno nella carriera e nella vita quotidiana. Se solo sapessero.
Pochi giorni fa, durante una delle mie lezioni, ho chiesto agli studenti di quinta elementare (tutti già dotati di iPad o iPod touch) se c’era per caso qualcuno di loro che non usava Internet. Si è alzata una mano. Ho chiesto al ragazzo come mai non navigasse in Rete e mi ha risposto, perplesso per la mia domanda, che lui non va su Internet. Lui usa Youtube. I suoi compagni non hanno fiatato per contraddirlo o correggerlo. Mi sono reso conto che dal suo punto di vista avevo fatto una domanda stupida.
È un bell’esempio di come ragionano i “nativi digitali”: poiché usano dispositivi che si connettono in modo trasparente, invisibile, non percepiscono Internet come un’infrastruttura di base alla quale ci si deve prima collegare per poter fare qualcosa. Vedono soltanto i servizi commerciali che Internet veicola e interagiscono con quei servizi toccando un’icona separata per ciascuno di essi. E questa separazione grafica è diventata un ghetto mentale. Non mandano più mail, ma messaggi su Facebook o WhatsApp. Guardano e riguardano i video di Miley Cyrus in streaming, scaricandoli ogni singola volta invece di salvarli localmente: non hanno alcuna percezione del consumo di banda. Con pochissime eccezioni, non hanno la più pallida idea di come funzionino realmente i dispositivi che usano. Si scambiano foto intime tramite SnapChat, convinti che le immagini vengano davvero cancellate per sempre dall’app e non siano recuperabili; si fidano delle promesse di privacy di Facebook, senza rendersi conto che il social network vive raccogliendo e vendendo i loro dati personali.
Non è un fenomeno limitato ai giovanissimi. Una recente indagine dell’Università di Milano-Bicocca sull’uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde indica che due su tre non sanno come funziona Wikipedia, non sanno riconoscere una pagina di login fasulla guardandone l’URL (e non chiamatelo URL, se non volete che vi guardino basiti) e non hanno idea di come si reggano in piedi economicamente i siti commerciali più popolari. Due su tre hanno uno smartphone e la metà lo usa per andare online tutti i giorni: la fruizione della Rete da postazione fissa sta diventando minoritaria. Il computer, se c’è, è prevalentemente un portatile: sigillato, non modificabile, da usare a scatola chiusa, come lo sono i tablet e gli smartphone.
Questo rende molto più difficile che in passato l’apprendimento di come funzionano i dispositivi e le tecnologie di uso quotidiano. I “nativi digitali” stanno crescendo in un mondo nel quale non solo non sanno, ma nonpossono smontare, smanettare, sperimentare, in parole povere diventare hacker, nell’accezione originale, positiva e sempre più spesso dimenticata, di questo termine. Non hanno le possibilità che hanno avuto gli “immigrati digitali”, che anzi erano costretti a imparare per riuscire a far funzionare modem, schede audio e periferiche bisbetiche. Quelli di oggi sono meri utenti, e non è neanche tutta colpa loro: è la tecnologia stessa ad ostacolarli. L’emancipazione, il brivido di libertà che offrivano i PC autocostruiti, i modem, le BBS e Internet sono stati accecati dalla lucentezza dello specchio scuro nel quale questi “nativi” si riflettono per una media di tre ore al giorno: lo schermo del telefonino e del tablet.
Non stiamo semplicemente crescendo una generazione di falsi nativi digitali, che non hanno una reale competenza informatica (chiedete loro come si fa a mandare una mail in BCC o che cos’è un sistema operativo, per esempio; per loro Tor è un personaggio della Marvel). Intorno a loro si sta evolvendo, non per cospirazione ma per aggregazione spontanea, un giardino cintato e privatizzato dal quale diventa sempre più difficile uscire per diventare competenti. E in questo contesto affidare un tablet a un’adolescente non farà di lei un’informatica provetta, esattamente come rinchiuderla tante ore in garage non la trasformerà in un’automobile.
L’origine del potere dirompente dei primi personal computer, in particolare del PC IBM, era il fatto che era basato su standard tecnici aperti. Dopo decenni di calcolatori incompatibili, farciti di componenti proprietari e non intercambiabili, arrivava sul mercato un oggetto che accettava componenti di marche differenti tra loro. Con poche eccezioni, i protocolli e i linguaggi di comando di quei componenti erano noti e liberamente utilizzabili. Chiunque poteva essere hacker e sviluppare software, driver, sistemi operativi. Questo fece prosperare in modo esplosivo la cultura dell’informatica amatoriale. Il personal computer era, appunto,personal. Ci mettevi su il software e l’hardware che volevi, senza renderne conto a nessuno. Ora considerate invece un iPad: è bello, funziona bene, ma è sigillato. Niente aggiunte hardware. Provate a installarvi software non autorizzato da Apple: potete farlo soltanto pagando una licenza ad Apple o ricorrendo a un jailbreak. Il dispositivo è fisicamente vostro, ma per essere liberi di metterci il software che vi pare dovete scavalcare attivamente gli ostacoli e le restrizioni che il costruttore ha imposto. Il salto da consumatore passivo a utente creativo è diventato più lungo.
Com’è cambiato il paradigma dell’informatica personale: da uno scatolone rustico, flessibile e aperto a una tavoletta patinata, rigida e chiusa. Nel terzo trimestre del 2013 sono stati venduti nel mondo 80 milioni di PC (8,6% in meno rispetto a un anno prima) contro 250 milioni di smartphone, e le previsioni di IDC indicano che le consegne di tablet, da sole, supereranno quelle di PC prima della fine di quest’anno. Il PC sta morendo per abbandono: troppo scomodo, troppo ostico come manutenzione, troppo vulnerabile al malware. Un universo di app sterilizzate e verificate, su un dispositivo che fa di tutto per non sembrare un computer, è molto più allettante e rassicurante per il consumatore medio.
La stessa china scivolosa si sta delineando per Internet. Il boom della Rete è avvenuto per merito dei suoi standard e protocolli aperti e interoperabili, a differenza di tutte le reti telematiche commerciali chiuse che l’avevano preceduta. Su queste fondamenta aperte, accessibili a chiunque volesse semplicemente studiare, è stato possibile costruire liberamente di tutto: mail, Web, ftp, VoIP sfruttabili con qualunque client e qualunque sistema operativo, anche fai da te (Linux, e scusate se è poco). La mancanza di un gestore centrale ha impedito l’introduzione di sistemi di censura e controllo liberticidi e ha intralciato i tentativi commerciali monopolistici d’imporre il Browser Unico e il Sistema Operativo Unico: non dimentichiamo, infatti, che nel 2002 Internet Explorer era usato dal 96% degli utenti e Windows deteneva oltre il 90% del mercato desktop.
Confrontate questa situazione con quella di oggi: Facebook per molti utenti è l’unico sito visitato, tanto da essere per molti sinonimo e sostituto integrale di Internet. Qui le regole d’uso vengono decise unilateralmente, senza dibattito, col risultato che per esempio il video di una donna che viene decapitata va benissimo, ma un seno del quale si veda l’areola è tabù, e la mannaia della sua censura può colpire anche un museo che osa pubblicare una foto di nudo femminile parziale in bianco e nero (però Rate My Bikini o Boobs, Butts and Cleavage Collection non sono un problema). È un ambiente chiuso, controllato secondo criteri bizzarri e soprattutto insindacabili. Il parco pubblico è stato sostituito dal centro commerciale. E a un miliardo e cento milioni di utenti questo va benissimo.
I dati indicano che stiamo rinunciando progressivamente agli elementi tecnici fondamentali che hanno permesso lo sviluppo della Rete, sostituendoli con un ecosistema hardware e software progressivamente sempre più chiuso. La mia preoccupazione è che tutto questo non crea nativi digitali. Crea polli di batteria.

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