C ONTROLACRISI
Quali sono le ripercussioni della rivoluzione digitale del XXI secolo incombenti sull’ assetto sociale e politico europeo?
Il
digitale rappresenta più che una rivoluzione, rappresenta un passaggio
di paradigma. Per alcuni versi è molto più profondo di qualsiasi
cambiamento sociale, culturale ed economico concepibile da un’idea
politica. Dall’altro sembra che possa riproporre una dialettica tra le
classi. Ma di nuova generazione. Oggi se il digitale resta confinato,
egemonizzato dal capitalismo globale e a dimensione planetaria, rischia
di produrre una società suddivisa tra pochissimi ricchi e tantissimi
poveri, tra una piccola parte di sfruttatori e una massa sterminata di
sfruttati. La metafora creata da Occupy Wall Street è la più efficace:
l’1% contro il 99% del mondo.
Quali cambiamenti ha apportato sulla nostra società e sullo scenario politico?
È
cambiata la forma della socializzazione. Quando cambia la natura e la
modalità con le quali gli umani si scambiano le relazioni, cambia tutto.
E la politica non può restare al palo, pena la propria decadenza, la
propria marginalità, la messa in fuori gioco. Ma non è solo un problema
dei partiti. Anche le istituzioni, le forme codificate tra l’Ottocento e
il Novecento delle nostre democrazie sono investite da nuove domande,
da nuove richieste di partecipazione e di decisione. L’avvento della
rete pone, da tempo, la questione di un rapporto diverso tra l’idea
della democrazia diretta e delle forme della rappresentanza. Lo scrissi
nel 1997 nel saggio sulle forme della politica e l’avvento di Internet
quando in Italia discutemmo della nostra Costituzione e dei Poteri, un
importante convegno del Partito della Rifondazione Comunista.
Come si sono trasformati il mondo della produzione e del lavoro ?
Beh
molti hanno pensato che la rete, il digitale riguardasse le forme dello
scambio comunicativo, che fossimo nell’ambito della libertà di
espressione, del diritto a comunicare ed essere informati. Ma questi
aspetti sono solo quelli più eclatanti, non quelli “strutturali”. La
grande trasformazione digitale, come accade sempre all’interno delle
società capitalistiche, riguarda il lavoro e la valorizzazione del
capitale. Solo che la sinistra non ha voluto vedere ed è restata ferma
agli schemi validi a metà del secolo scorso. Il risultato è che la
sinistra è su un binario morto da un trentennio e chi si occupa di
innovazione è senza la bussola di ciò che significa socialmente e
produttivamente il digitale. Forse è arrivato il momento per un incontro
fecondo. Ma per farlo c’è bisogno di un salto di qualità.
Quali sono i nuovi problemi che affiorano per la politica della sinistra?
Infatti
di questo parlo. Da un lato, quello della sinistra, c’è bisogno di un
quadro teorico nuovo e di nuovi gruppi dirigenti che sappiano
comprendere e analizzare le nuove forme del capitalismo digitale e
dall’altro, da parte dei movimenti che si sono poggiati
sull’innovazione, l’abbandono del determinismo tecnologico,
dell’illusione che la tecnologia risolva tutto, che all’interno della
tecnologia ci sia la salvezza. Abbiamo bisogno di un bagno di umiltà da
entrambe i lati.
Lei è stato prima nel Partito Comunista
Italiano e poi un importante dirigente del Partito della Rifondazione
Comunista e Presidente del quotidiano di partito Liberazione. Secondo
Lei ha senso di parlare, ancora oggi, di destra e di sinistra in uno
scenario sociale ed economico così diverso da quello a cui noi tutti
eravamo abituati al tempo in cui il Suo partito lottava contro le
ineguaglianze sociali per una nuova forma di comunismo in liberta'?
La
trasformazione incessante delle nostre società ha cambiato, anzi forse
aggravandole, le questioni di fondo inerenti le diseguaglianze sociali
così come anche inasprendo la lotta già esistente tra i potenti e i
deboli, di chi sta in alto su chi sta in basso, degli sfruttatori sugli
sfruttati. Ma tutto lo scenario che abbiamo davanti è completamente
diverso dalle geografie che abbiamo prodotto con il pensiero dell’800 e
del ‘900. Non che quelle analisi siano tutte da archiviare, ma quello
che serve oggi, è capire quello che è cambiato per adeguare le scelte
politiche ad una nuova situazione economica sociale e politica, il tutto
mantenendo salda una capacità di critica e la linea di ricerca onde
saper cambiare tutto quello che non funziona più, che è diventato o
obsoleto o ha perso la “spinta propulsiva” per dirla con Enrico
Berlinguer.
A mio avviso nel ‘900 si sono prodotti tre grandi
cambiamenti che gli occhiali otto-novecenteschi della sinistra hanno
avuto difficoltà a vedere e poi a comprendere. La prima grande
trasformazione è stata quella dell’impatto delle tecnologie digitali nel
mondo del lavoro. Il lavoro investito dalle potenzialità delle tecniche
digitali è stato ridescritto totalmente. Ma non si è liberato. Anzi. Io
sostengo che il passaggio che abbiamo vissuto nell’ultimo ventennio del
secolo scorso è stato quello della evoluzione del processo
tayloristico. Per trent’anni, a sinistra, abbiamo discusso se la
fabbrica fosse terminata, finita oppure no. Molti hanno chiamato queste
nostre società post-industriali quando, in realtà, la nuova forma
industriale che si stava generalizzando, in modo ancora più pervasivo di
quanto non avesse fatto quella del periodo fordista, conquistava anche
le forme più relazionali della vita. Io ho chiamato questa
trasformazione, nel mio libro E-Work. Rete, Lavoro, Innovazione, il
passaggio dal taylorismo fordista al taylorismo digitale.
Può
spiegarci che couali sono le ripercussioni della rivoluzione digitale del XXI secolo incombenti sull’ assetto sociale e politico europeo?
Il
digitale rappresenta più che una rivoluzione, rappresenta un passaggio
di paradigma. Per alcuni versi è molto più profondo di qualsiasi
cambiamento sociale, culturale ed economico concepibile da un’idea
politica. Dall’altro sembra che possa riproporre una dialettica tra le
classi. Ma di nuova generazione. Oggi se il digitale resta confinato,
egemonizzato dal capitalismo globale e a dimensione planetaria, rischia
di produrre una società suddivisa tra pochissimi ricchi e tantissimi
poveri, tra una piccola parte di sfruttatori e una massa sterminata di
sfruttati. La metafora creata da Occupy Wall Street è la più efficace:
l’1% contro il 99% del mondo.
Quali cambiamenti ha apportato sulla nostra società e sullo scenario politico?
È
cambiata la forma della socializzazione. Quando cambia la natura e la
modalità con le quali gli umani si scambiano le relazioni, cambia tutto.
E la politica non può restare al palo, pena la propria decadenza, la
propria marginalità, la messa in fuori gioco. Ma non è solo un problema
dei partiti. Anche le istituzioni, le forme codificate tra l’Ottocento e
il Novecento delle nostre democrazie sono investite da nuove domande,
da nuove richieste di partecipazione e di decisione. L’avvento della
rete pone, da tempo, la questione di un rapporto diverso tra l’idea
della democrazia diretta e delle forme della rappresentanza. Lo scrissi
nel 1997 nel saggio sulle forme della politica e l’avvento di Internet
quando in Italia discutemmo della nostra Costituzione e dei Poteri, un
importante convegno del Partito della Rifondazione Comunista.
Come si sono trasformati il mondo della produzione e del lavoro ?
Beh
molti hanno pensato che la rete, il digitale riguardasse le forme dello
scambio comunicativo, che fossimo nell’ambito della libertà di
espressione, del diritto a comunicare ed essere informati. Ma questi
aspetti sono solo quelli più eclatanti, non quelli “strutturali”. La
grande trasformazione digitale, come accade sempre all’interno delle
società capitalistiche, riguarda il lavoro e la valorizzazione del
capitale. Solo che la sinistra non ha voluto vedere ed è restata ferma
agli schemi validi a metà del secolo scorso. Il risultato è che la
sinistra è su un binario morto da un trentennio e chi si occupa di
innovazione è senza la bussola di ciò che significa socialmente e
produttivamente il digitale. Forse è arrivato il momento per un incontro
fecondo. Ma per farlo c’è bisogno di un salto di qualità.
Quali sono i nuovi problemi che affiorano per la politica della sinistra?
Infatti
di questo parlo. Da un lato, quello della sinistra, c’è bisogno di un
quadro teorico nuovo e di nuovi gruppi dirigenti che sappiano
comprendere e analizzare le nuove forme del capitalismo digitale e
dall’altro, da parte dei movimenti che si sono poggiati
sull’innovazione, l’abbandono del determinismo tecnologico,
dell’illusione che la tecnologia risolva tutto, che all’interno della
tecnologia ci sia la salvezza. Abbiamo bisogno di un bagno di umiltà da
entrambe i lati.
Lei è stato prima nel Partito Comunista
Italiano e poi un importante dirigente del Partito della Rifondazione
Comunista e Presidente del quotidiano di partito Liberazione. Secondo
Lei ha senso di parlare, ancora oggi, di destra e di sinistra in uno
scenario sociale ed economico così diverso da quello a cui noi tutti
eravamo abituati al tempo in cui il Suo partito lottava contro le
ineguaglianze sociali per una nuova forma di comunismo in liberta'?
La
trasformazione incessante delle nostre società ha cambiato, anzi forse
aggravandole, le questioni di fondo inerenti le diseguaglianze sociali
così come anche inasprendo la lotta già esistente tra i potenti e i
deboli, di chi sta in alto su chi sta in basso, degli sfruttatori sugli
sfruttati. Ma tutto lo scenario che abbiamo davanti è completamente
diverso dalle geografie che abbiamo prodotto con il pensiero dell’800 e
del ‘900. Non che quelle analisi siano tutte da archiviare, ma quello
che serve oggi, è capire quello che è cambiato per adeguare le scelte
politiche ad una nuova situazione economica sociale e politica, il tutto
mantenendo salda una capacità di critica e la linea di ricerca onde
saper cambiare tutto quello che non funziona più, che è diventato o
obsoleto o ha perso la “spinta propulsiva” per dirla con Enrico
Berlinguer.
A mio avviso nel ‘900 si sono prodotti tre grandi
cambiamenti che gli occhiali otto-novecenteschi della sinistra hanno
avuto difficoltà a vedere e poi a comprendere. La prima grande
trasformazione è stata quella dell’impatto delle tecnologie digitali nel
mondo del lavoro. Il lavoro investito dalle potenzialità delle tecniche
digitali è stato ridescritto totalmente. Ma non si è liberato. Anzi. Io
sostengo che il passaggio che abbiamo vissuto nell’ultimo ventennio del
secolo scorso è stato quello della evoluzione del processo
tayloristico. Per trent’anni, a sinistra, abbiamo discusso se la
fabbrica fosse terminata, finita oppure no. Molti hanno chiamato queste
nostre società post-industriali quando, in realtà, la nuova forma
industriale che si stava generalizzando, in modo ancora più pervasivo di
quanto non avesse fatto quella del periodo fordista, conquistava anche
le forme più relazionali della vita. Io ho chiamato questa
trasformazione, nel mio libro E-Work. Rete, Lavoro, Innovazione, il
passaggio dal taylorismo fordista al taylorismo digitale.
Può
spiegarci che cosa è il taylorismo digitale e se questa nuova forma di
capitalismo presenta dei pericoli per i margini di autonomia di cui
godeva la persona umana prima dell’ avvento di questa nuova forma di
capitalismo?
Il taylorismo digitale è la teoria della nuova forma del taylorismo
conseguente le innovazioni introdotte nella organizzazione del lavoro
dalle tecniche digitali. Il primo cambiamento avvenuto è che le forme
del taylorismo - cioè la parcellizzazione, la cooperazione e il
controllo del ciclo produttivo - vengono portati alle loro estreme
conseguenze. Per quello che è possibile si smaterializzano all’interno
del software diventando così come “neutre”, al punto che il sottostare
alle logiche del processo produttivo appare come un dato naturale. La
sottomissione della persona alle necessità del ciclo produttivo, del
sistema macchinico al quale è sottoposto nella produzione diviene non
solo molto più estesa, ma in qualche modo più “oggettiva”. È come se le
persone fossero spinte ad adeguarsi alle performance richieste dalla
produzione ancor più che in passato, con una riduzione sia di capacità
critica sia di possibilità rivendicativa. Una situazione sicuramente
peggiore dal punto di vista dell’autonomia individuale e umana. La
qualità tecnologica del digitale è diversa da quella di altre tecnologie
umane perché interviene sul processo comunicativo, sul processo di
scambio e valutativo dell’informazione. Le tecnologie digitali sono
tecnologie relazionali e mutano le forme delle relazioni umane,
arrivando a ridescrivere addirittura le forme delle strutture cognitive
degli individui. Per dirla con un’affermazione, le forme dei processi
sociali di relazione (tra gli individui e i gruppi) e le forme dei
processi produttivi (a prescindere dalle vecchie divisioni della prima
era industriale pre-digitale) tendono a coincidere. Man mano che il
digitale si estende nella sua presenza nel corpo della società, le forme
sociali e le forme produttive divengono sempre più simili. Diciamo che
il lavoratore di oggi non vive la percezione del processo di alienazione
come accadeva in passato. Prima la differenza tra le 8 ore in fabbrica e
le 8 ore di vita era totale. Oggi la forma del lavoro e quella del
tempo libero tende a coincidere. Si producono e controllano le relazioni
con i nostri amici esattamente come si produce e si controlla la
macchina che produce o il servizio che si genera. Tutto passa per un
device che ci interfaccia con la cosa che dobbiamo fare, la relazione
che dobbiamo curare. Si tratta di un processo che ha mantenuto, anzi
esteso, il controllo del potere preesistente. Il punto di comando che
dirigeva i processi politici e sociali si è rafforzato.
Il taylorismo digitale ha quindi prodotto un arretramento delle condizioni lavorative?
Il
taylorismo digitale oltre ad essere più pervasivo di quello esistente
nella fase meccanica, ha indebolito le strutture difensive che il
movimento operaio si era conquistato con lotte faticose. Con una
risposta breve potrei dire solo, si. Ma in realtà le cose non stanno
semplicemente così. I processi, per fortuna o per sfortuna, sono sempre
più complessi. Da un lato si è diffusa una vulgata, anche a sinistra,
che afferma che la fase che stiamo vivendo sia un semplice
“arretramento” rispetto alle conquiste del secolo scorso. Ma non è così.
La storia non torna mai indietro, anche quando le sconfitte segnano dei
punti di non ritorno. Lo sfruttamento dell’era digitale non è quello
dell’era meccanica. Può essere anche più pervasivo e totalizzante, e
necessita di una critica e di un conflitto di nuova generazione, ma apre
a potenzialità nuove sia di conflitto di tipo classico, sia in forme di
riorganizzazione della vita, della produzione, delle relazioni che nel
secolo scorso potevamo tenere nella sfera dell’utopia. Ma per fare
questo c’è bisogno di saper guardare oltre quello che immaginavamo ieri.
Chi pensa di riproporre gli schemi che hanno funzionato un secolo fa è
come se, all’inizio del ‘900, qualcuno avesse proposto un processo di
liberazione e modalità di conflitto utili nell’era dello schiavismo. Era
nel giusto, dal punto di vista del principio, ma totalmente fuori tempo
massimo per i processi che il capitalismo aveva generato.
Lei ha parlato prima di tre trasformazioni… Che cosa intende al riguardo?Quella
del lavoro e del taylorismo digitale (che tra l’altro sta evolvendo
velocemente verso esiti ancora più alti di innovazione dei processi di
organizzazione del lavoro) è solo la trasformazione socialmente più
rilevante. Gramsci, nelle pagine dedicate ad Americanismo e Fordismo,
affermava che il fordismo forgiava l’uomo di cui aveva bisogno. Con
quelle parole ci annunciava una verità sempre più fondamentale per le
forze che si propongono delle trasformazioni politiche consapevoli e
profonde. Gramsci ci diceva che il processo produttivo forgia l’umanità
di cui ha bisogno. Produce una cultura, un ambiente, una società atta a
“sopportare” lo schema della produzione imperante in quella fase. Ma in
quella fase la differenza tra lo schema delle ore di lavoro e quello
delle ore della socialità era ancora diverso. Il digitale sta producendo
un “ambiente unico”, uno schema totale. Nuove forme di lavoro che non
esistevano in precedenza e che la sinistra e in particolare gli
economisti della sinistra, non riescono né a vedere né ad inserire nei
loro schemi del ‘900. Penso ad esempio a quello che io chiamo il Lavoro
Implicito e di cui ho parlato sempre nel mio E-Work. Insomma la
trasformazione non è puntuale ma sistemica. Ho chiamato questo schema
che sta emergendo come il processo di “terraformattazione capitalistica”
del pianeta. E per questo serve uno schema “complesso”…
Ho preso al riguardo in prestito un neologismo dagli scienziati
spaziali. Gli scienziati che si occupano dei viaggi spaziali e della
possibilità di vivere su altri pianeti, infatti, hanno coniato questo
termine per indicare tutte le cose che vanno compiute per trasformare
l’ambiente di un pianeta per renderlo abitabile dall’uomo. È quello che
stanno pensando di fare con Marte…
E quindi il capitalismo starebbe facendo una cosa analoga con la Terra?
Quello
che è in atto è proprio un processo di produzione di un ambiente
“totale” all’interno del quale l’uomo deve vivere. Tutto quello che non è
all’interno del processo di valorizzazione del capitale semplicemente…
non serve, diviene uno scarto. E paradossalmente questo coincide sempre
più con il processo di digitalizzazione del mondo. Tutto quello che non
può essere digitalizzato è uno scarto perché sfugge al processo di
totale controllo che si sta generalizzando nel mondo.
Perché pensa che si stia lavorando alle Smart Cities?
Perché
serve estendere il controllo dei processi di scambio che avvengono,
istante per instante, nelle e fra le vite delle persone. Solo così sarà
possibile continuare a valorizzare il capitale circolante. Tutto ciò che
non è matematizzabile diviene un orpello, un peso, uno scarto. Ma
questo attiene alla seconda novità del capitalismo di questo secolo.
Cioè, la seconda delle tre novità di cui hai parlato in precedenza?
Esatto.
È il punto estremo della novità, quello sul quale il capitale sta
lavorando in questi anni. Tutto è iniziato con la possibilità di
smaterializzare il ciclo produttivo e introdurre una nuova forma di
merce, quella immateriale.
Merce immateriale, è quello di
cui Lei ha parlato nel libro Lo spettro del Capitale. Per una critica
dell’economia della conoscenza?
Non solo merce immateriale.
Con essa, infatti, si è prodotto un ciclo produttivo totalmente nuovo,
il ciclo immateriale. La prima grande applicazione di tale processo è
proprio la smaterializzazione della moneta. Il capitale finanziario,
quando ha incontrato il digitale, si è trasformato, si può dire che è
diventato adulto ed esteso la sua potenza sul mondo. Ma ciò che è
pervasivo ancor di più è la logica sottostante, la logica che ha
abilitato la trasformazione della finanza. Questa logica, infatti,
riesce ad innervare tutti i processi ed estendersi al resto della vita.
Appunto “terraformattando” il pianeta.
Il ciclo legato alle
potenzialità del digitale è un ciclo che può avere bisogno di un
supporto fisico sempre più marginale. La moneta è addirittura arrivata
ad avere smaterializzato oltre il 90% della sua forma esistente. Ma il
ciclo immateriale riguarda flussi di comunicazione destinati agli umani,
flussi di informazione necessari alla produzione di altre merci
materiali o immateriali che siano.
Paradossalmente tutto diviene
merce e tutta la nostra vita diviene lavoro. Anche quando le persone non
ne sono consapevoli. Appunto come accade con il lavoro implicito. Ogni
nostro atto nell’ambito della vita inserita nell’era digitale diviene un
atto di produzione di informazioni e, quindi, di un valore sul mercato
digitale. Il mondo dei Big Data, l’estrazione di informazioni sui nostri
comportamenti, di vita, di consumo, di lavoro, è uno dei grandi
business che cresce ogni anno a due cifre. I sindacati dovrebbero
interrogarsi su come è cambiato il lavoro e provare a produrre conflitti
di nuova generazione altrimenti rischiano una sconfitta strategica.
La produzione immateriale cambia lo scenario del lavoro, quindi?
Il
digitale sta abilitando un mondo diverso dal precedente. Il passaggio è
un passaggio di paradigma. Molto più di una semplice “rivoluzione”. Ma
tutto questo si intreccia con una novità ulteriore. Nel ‘900, proprio
durante la grande crisi del ’29, si forgiò una novità che ha innervato
tutto il secolo e che rappresenta una novità storica impressionante. In
quegli anni, negli USA, nacque quella che io chiamo l’Industria di
Senso. L’industria che lavora nella produzione del “senso della vita”,
la modalità con la quale noi percepiamo “naturale” vivere con lo schema
del modello di consumo che troviamo nei supermarket di tutto il mondo.
Quindi il cerchio si sta chiudendo?
Dipende
dalle forze che vogliono continuare a puntare sull’uomo. Non tutto,
infatti, può essere programmato. Vorrebbero che fosse così. Ma non lo è.
Ci sono individui e forze che si stanno schierando, dopo svariati
decenni di accecamento, su trincee nuove.
A chi pensa al riguardo?
Alla
Chiesa di Papa Francesco, ad esempio. Ma non solo. Ci sono fenomeni che
stanno girando in positivo quello che il digitale comporta. Le logiche
del web 2.0, ad esempio, sono logiche che poggiano su alcuni assi
storici della cultura della sinistra: condivisione, cooperazione,
consapevolezza, creatività, collaborazione, autogestione sono a
fondamento del digitale 2.0, ma sono parole e pratiche antiche della
cultura della sinistra e germoglieranno presto in forme nuove della
politica e delle nuove forme di rivendicazione.
La sinistra deve cambiare le forme della propria lotta?
Andremo
al di là della semplice “rivendicazione” di spazi e diritti ad un
potere che rimane inamovibile e centrale. Stiamo andando verso forme
nuove di appropriazione di spazi di vita che possono uscire dallo schema
classico del capitalismo, quello della produzione di valore di scambio,
cioè di merci. Stiamo entrando in un’era della vita in cui le
tecnologie e le pratiche sociali che si stanno diffondendo, aprono alla
possibilità di produzione diretta di valore d’uso. Una vera e propria
realizzazione diretta di nuove forme di produzione, di scambio, di dono,
di consumo, di relazione. E così via. Questa è la forma della
Rivoluzione del XXI secolo.
Bellucci la socialdemocrazia
non ce la fa’ a tener fede ai suoi principi di eguaglianza nel
capitalismo. Secondo Lei i partiti della sinistra europea hanno trovato
un nuovo pensiero politico adeguato a fare fronte alle necessità
impellenti dovute agli inasprimenti sociali causati dalla rivoluzione
tecnologica e quindi a riempire i vuoti lasciati da una politica
socialdemocratica considerata da molti oramai obsoleta?
La
socialdemocrazia nasce con la consapevolezza che all’interno dello
schema capitalistico non possa prodursi il processo di liberazione e di
consapevolezza dell’uomo. Per questo è nata e questa esigenza non è
stata cancellata dal periodo d’oro del Welfare State. Certo, per quel
periodo transitorio della storia del ‘900 è sembrato che fosse possibile
una “sintonia di intenti” tra capitale e movimenti socialisti, almeno
nel ristretto novero dei paesi europei. Al di fuori di tale perimetro mi
sembra che il successo del modello sia stato scarso o addirittura
nullo. Ora anche all’interno dei confini europei quel compromesso mostra
la corda, non riesce né a distribuire ricchezza attraverso il lavoro e
il welfare, né a garantire la percezione di un senso di marcia sociale
della storia umana. Sembra aver smarrito, nella semplice opera di
gestione amministrativa, il senso della propria funzione. Quindi ha
perso l’anima, la forza derivante dall’interpretazione di bisogno di
trasformazione radicale del mondo. Ma intorno alle novità che si
schiudono all’interno delle innovazioni prodotte dal capitale,
riemergono nuove esigenze, nuovi bisogni, nuove pratiche. La politica
rinasce sulle contraddizioni nuove, necessita delle analisi adeguate a
comprendere le innovazioni economico-sociali e di un gruppo dirigente in
grado di socializzare queste nuove acquisizioni. In Europa, alla
sinistra, serve un processo di questo livello. E questa necessità può
oggi prefigurare un superamento delle divisioni otto-novecentesche della
sinistra. Serve un nuovo inizio, ma non partiamo da zero. Molte
analisi, molta sperimentazione sociale, qualche tentativo di esperimento
sul piano politico. Insomma qualcosa si muove, ma troppo lentamente.
Occorre estrarre intelligenza organizzativa di nuova generazione dai
processi in atto. Un po’ come fece il movimento operaio nell’ottocento
fino alla nascita della nuova forma organizzativa che prese il nome di
partito. A quel tempo impiegammo qualche decennio, ora speriamo di
metterci meno tempo…
Secondo Lei dopo la caduta del
socialismo reale di stampo sovietico si è voluto dare spazio ad una
altra forma di comunismo, per esempio al famoso eurocomunismo creato da
Enrico Berlinguer?
Una parte dei partiti comunisti europei
negli anni ’70 del secolo scorso compresero che il modello sovietico non
era in grado di rappresentare un modello politico, economico e sociale
per l’Europa e forse per il mondo intero. Ricordiamoci, infatti, che la
proposta arrivò a contagiare partiti comunisti fino al Giappone. Ma il
modello dell’Eurocomunismo cadde prima del crollo del muro. La necessità
era stata individuata ma la ricetta non riuscì a mettere le radici per
molte ragioni. Alcune erano legate alle novità del mercato capitalistico
che stavano arrivando; penso, ad esempio, all’arrivo in Europa
dell’industria di senso a partire dal 1980 con l’arrivo della
televisione commerciale prima in Italia, poi in Francia e poi nel resto
dell’Europa. Altre, alle sconfitte del movimento operaio di quella fase,
penso alla marcia dei 40.000 della Fiat in Italia e alla lotta dei
minatori in Gran Bretagna. Il resto lo stava facendo lo scontro politico
nei vari paesi ove le forze conservatrici stavano poggiando sulla
rinnovata funzione della finanza che le tecnologie digitali stavano
facendo diventare non solo globali, ma automatiche e in tempo reale. In
altre parole, l’esigenza di coniugare democrazia politica e democrazia
economica, di costruire una società politica, fondata sui partiti ma
permeabile dalle istanze della società, una società ove i diritti
sociali e civili avrebbero potuto poggiare uno sull’altro per aumentare
il grado di libertà dell’individuo ma non a scapito della collettività,
una proposta, per dirla con uno schema tutto politico, ove democrazia e
socialismo potessero incontrarsi nella possibilità di forgiare un uomo
consapevole e sociale, questa essenza dell’eurocomunismo si andò ad
infrangere sulle nuove dinamiche del capitalismo che stava mutando e
sulla cecità dei vecchi regimi sovietici. Gorbaciov arrivò troppo tardi e
troppo debole per poter giocare di sponda con questa proposta
innovativa. Enrico Berlinguer era già morto e l’Eurocomunismo era stato
archiviato, di fatto, dal Partito Comunista Francese.
Ci può spiegare che cosa significava allora l’ Eurocomunismo?
Tale forma di comunismo potrebbe essere attuabile ora in Europa e se sì
con quali conseguenze a livello della politica mondiale?
L’Eurocomunismo
era il tentativo di rileggere il conflitto tra movimento operaio e
capitale alla luce delle acquisizioni che si stavano conquistando nei
modelli sociali ove esisteva il welfare state. Fu importantissimo perché
apriva alla consapevolezza che non si inseguiva un modello
precostituito, schematicamente assunto. Oggi quella fase è superata e
non è riproponibile. Le nostre società sono diverse da quelle degli anni
’70 del secolo scorso. La composizione delle classi è diversa, le forme
della politica sono mutate. Il capitalismo finanziario ha imposte forme
produttive e luoghi decisionali che prima non esistevano. Le forme del
potere sovranazionale e, spesso, totalmente a-democratiche, hanno un
ruolo preponderante rispetto ai parlamenti e alle istituzioni del secolo
scorso. Ma le motivazioni della proposta, l’idea di una società a
dimensione più umana, rimangono inalterate. E la proposta di costruire
una politica capace di trasformare il mondo e portarlo al di là dei
limiti del capitalismo e di farlo con un processo democratico, con la
costruzione del consenso, sono ancora tutte valide. Io chiamo questa
necessità la “transizione possibile”.
Ecco, andare oltre i limiti del
capitalismo, oltre la sua inefficienza, oltre le sue diseguaglianze,
oltre la rapina delle risorse che stanno mettendo in ginocchio i cicli
di riproduzione naturale, oltre l’idea che il mondo sia pensabile e
gestibile come una fabbrica, con le sue logiche produttive, oltre l’idea
che il regno animale e vegetale siano due comparti di quell’unica
grande corporation in mano all’umano capitalista. Un’esigenza ancora
oggi presente, anzi ancora più incessante di trent’anni or sono.
Quali cambiamenti nella politica interna ed economica, quindi, apporterebbe oggi? Cosa significa la transizione possibile?
Credo
che il primo passo sia quello di superare le etichette che hanno diviso
le forze del mondo del lavoro nel ‘900. Socialiste, comuniste,
socialdemocratiche, sono etichette che non dicono più molto agli
individui di oggi e, spesso, quello che dicono sono cose che non aiutano
chi vuole continuare la lotta per la liberazione e la consapevolezza
umana. Abbiamo bisogno di organizzare la politica che serve al mondo del
lavoro di domani, quello che dovrà affrontare la battaglia dei processi
di robotizzazione generalizzata, di cancellazione di una miriade di
lavori classici. Dobbiamo sapere che il tema di oggi è sapere se la
ricchezza prodotta dall’intero apparato produttivo mondiale dovrà essere
redistribuito attraverso il lavoro oppure no. Nel primo caso ci
apriremo ad una nuova fase interessantissima di liberazione, anche per
le nuove forme di lavoro e di produzione possibili, nel secondo caso
avremo una società suddivisa tra un numero ristretto di lavoratori con
scarse tutele e bassi salari, una fetta altrettanto grande di lavoratori
precari senza tutele e una fetta estesa di persone che saranno
stabilmente fuori dal ciclo produttivo a cui spetterà un salario di
sopravvivenza. È questa la strada che l’Europa ha intrapreso. E poi ci
si lamenta che le persone sono relegate ai margini, hanno riflussi di
destra, si allontanano dalle lotte per i diritti e si scagliano contro i
migranti. È il modello introdotto dalla normativa Bolkestein.
Noi
abbiamo bisogno di una politica che sappia guardare al domani con una
proposta radicalmente nuova. In primo luogo la sinistra di questo secolo
non può essere semplicemente “rivendicativa”. Lasciare, cioè, il
compito di guidare i processi di innovazione al capitale – sempre più,
tra l’altro, basandosi sulla economia condivisione, cioè sull’apporto
diffuso della socialità – e limitarsi a rivendicare diritti e
redistribuzione della ricchezza mettendoci ai margini del processo. La
sinistra di questo secolo sarà una sinistra capace di costruire proprie
forme di produzione, di decisione, di socializzazione da contrapporre
alla produzione di merci. Produzione di valore d’uso contro la
produzione di valore di scambio. Nel fare questo sarà possibile e
necessario demercificare la forma della vita umana. Non misureremo le
nostre società su parametri come il PIL. Attività come il riuso, il
risparmio, la rigenerazione, la riduzione delle merci saranno attività
sociali che saranno retribuibili con monete sociali di diversa
circolazione, sul modello delle blockchain su cui ci si è basati per le
monete come i bitcoin. Potremmo reingegnerizzare le forme sociali
basandoci sulle potenzialità della rete, soddisfacendo bisogni sempre
più immateriali, riducendo l’impronta umana sul pianeta e riducendo lo
spazio della vecchia forma della produzione dell’era capitalistica.
Consumeremo il possibile a Km0, produrremo molte delle merci necessarie
in spazi sociali che abbiano strumentazioni 3D e quelle che non potremmo
produrre saranno scambiate attraverso le forme della condivisione con
altri luoghi che baseranno lo scambio sempre più senza le transizioni
classiche. Siamo noi che non avremo più bisogno del capitale, non lui
delle persone. Questa è la transizione possibile. Il ripensare le nostre
società dalle fondamenta. Oggi è possibile e realizzabile perché c’è
una nuova generazione in campo che è veloce, digitale e pronta ad un
cambiamento di paradigma che la vecchia politica stenta a comprendere.
Marx pensava ad un futuro poggiato sui liberi produttori associati. Beh
anch’io penso che questo sia il destino che abbiamo davanti. Le
innovazioni che necessitano per arrivare a quel livello di libertà ora
possiamo intravvederle. 30 anni fa era impossibile. In quel tipo di
società posso calare la più bella visione del comunismo di Marx quando,
nei manoscritti economico-filosofici del ’44, ci fa comprendere come il
comunismo sia per lui l’educazione dei 5 sensi. Cioè una società in cui
la consapevolezza del singolo sia integrale.
Come
cambierebbe la politica economica europea se noi guardiamo alle crisi
dei paesi del sud dell’ Europa e ai tentativi della banca centrale
europea di far uscire l’Europa dalla deflazione e reintrodurre di nuovo
l’ inflazione?
L’illusione della politica è che questa crisi
possa essere superata attraverso il governo della moneta. Anni di
ricette liberiste hanno prima creato le premesse della grande crisi del
2008 e poi ridotto i livelli di welfare in Europa senza significative
redistribuzioni di ricchezza nei vari Sud del mondo. Anzi, la
disperazione sembra essere aumentata. Alla crisi strutturale,
l’incapacità di tornare a produrre ricchezza da redistribuire in maniera
sistemica, si è risposto con l’illusione che ci si possa salvare da
soli. In Europa le politiche della Germania hanno ipotizzato la
possibilità di divenire l’unico vero paese industriale del continente,
senza fare i conti che indebolendo le economie degli altri paesi europei
la debolezza strutturale della domanda interna nazionale ed europea
avrebbe garantito solo alcuni anni di benessere, ma a scapito di un
peggioramento sociale e politico di tutta l’area Euro con le conseguenti
ricadute politiche ed economiche nel medio periodo. Un quadro che si
sta consolidando ad una velocità crescente. L’Inghilterra pensa ad uno
sganciamento dal quadro europeo con la stessa miopia e le politiche
monetarie della BCE non sono riuscite a invertire il quadro deflattivo e
quello di crisi dei paesi dell’Europa mediterranea. Senza la ripresa di
un po’ di inflazione arriveremo alla fine del mandato di Draghi con una
nuova sterzata monetarista che aggraverà molto il quadro della
situazione. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha
anticipato, in un recente viaggio in Italia, la linea del dopo Draghi:
fine del sostegno ai debiti pubblici da parte della Banca Centrale
Europea e ripristino delle semplici regole liberiste della concorrenza.
Una nuova illusione di garantire un periodo di ripresa all’economia
tedesca sganciata dai destini degli altri paesi europei. Ma è lo stesso
che l’Europa nel suo complesso sta facendo verso il Medio-Oriente e
l’Africa. Non c’è salvezza se non attraverso la collaborazione e la
pace. E non è possibile garantire un futuro solo al proprio paese. È una
visione, oltre che sbagliata sul piano etico-morale, miope e inefficace
dal punto di vista di garantire una vera fuoriuscita dalla malattia che
sta corrodendo il tronco sul quale siamo tutti poggiati.
Nell’isolamento nazionale e nella politica monetarista non è possibile
invertire o uscire dall’ attuale crisi strutturale e sistemica.
La
sinistra, in primo luogo quella europea, deve sganciarsi da questa
illusione. Servirebbe un grande incontro, una grande assise per
rilanciare una prospettiva diversa e superare le fratture in avanti. La
crisi sistemica è un intreccio della crisi monetaria e finanziaria, del
grande cambiamento introdotto dalle trasformazioni che il digitale sta
producendo e, per complicare ancor di più il quadro, tutto il fare umano
deve fare i conti con le compatibilità che l’astronave Terra ci ha
segnalato. L’accordo COP21 di Parigi ancora non si è integrato con le
scelte di politica quotidiana. Esattamente come la trasformazione
introdotta dal digitale. La politica continua a parlare solo di moneta e
finanza e delle sue compatibilità. Una visione miope e incapace di
indicare una via e scaldare i cuori. Per questo serve una “transizione”…
L’esperienza
politica in Italia che cosa le ha insegnato tenendo conto che Lei ha
una visione dal di dentro della sinistra italiana? Che cosa e’
necessario che cambi acche’ una politica di sinistra in Italia possa
venire attuata giacche’ il partito democratico non risponde alle
esigenze di un partito vero di sinistra?
La crisi che
investe la sinistra in Italia è una crisi profonda, una crisi che
deriva, in qualche misura, proprio dalla forza che essa ha avuto nella
storia dell’Italia repubblicana. Le strutture che ancora sono in piedi, e
sono ancora molte e sufficientemente forti, tendono a comportamenti
inerziali, a proseguire sulla stessa strada. Invece abbiamo bisogno di
grandi novità, di nuove analisi, di nuove pratiche. Qualcosa si sta
muovendo. Il processo che si è aperto per la costruzione di un nuovo
partito, Sinistra Italiana, sta provando a raccogliere le forze
disponibili ad una partenza di nuovo tipo. A Febbraio abbiamo tenuto una
grande assemblea nazionale delle persone, delle associazioni, delle
forze politiche che fanno riferimento alla sinistra. L’abbiamo chiamata
Sinistra Italiana che ha un acronimo che in Italia suono bene SI.
Abbiamo provato a innovare sia nelle forme della convocazione, sia in
quelle della discussione, della individuazione di un punto di
coordinamento e ha adottato una piattaforma digitale per la militanza.
Certo c’è bisogno di un grande sforzo, ma qualche tassello si inizia a
vedere. Come in altre parti d’Europa. Penso al dialogo tra Podemos e la
sinistra tradizionale in Spagna, ad esempio. Penso alle novità del
Labour inglese diretto da Jeremy Corbyn o del confronto nelle primarie
USA tra la linea della Clinton e quella di Bernie Sanders. Penso al
nostro tentativo di Sinistra Italiana, ma anche a quello di personaggi
come Varoufakis. Insomma, qualcosa si muove, ma ancora troppo lentamente
e soprattutto troppo spezzettato. Manca non tanto lo sforzo di una
ricerca, ma una visione complessa e innovativa che sappia essere
inclusiva delle diversità, ma salda nella radicalità della ricerca.
Quali ripercussioni avrebbe una svolta a sinistra italiana anche per gli altri stati europei?
Credo
che per la storia della sinistra italiana, per le radici sociali
profonde che ancora esistono, per il ruolo che il nostro paese può
tornare a svolgere, non solo sul piano della elaborazione ma anche su
quello della proposta e delle alleanze, la costruzione di una Sinistra
Italiana forte possa determinare anche un rilancio della stessa ipotesi
europea. Negli anni ’70 dal PCI venne avanti la proposta
dell’Eurocomunismo che cambiò la storia della sinistra in Europa. Chissà
che non sia proprio dalla attuale crisi della sinistra italiana che
emerga una proposta di una transizione per le società europee. La
transizione possibile…
sa è il taylorismo digitale e se questa nuova forma di
capitalismo presenta dei pericoli per i margini di autonomia di cui
godeva la persona umana prima dell’ avvento di questa nuova forma di
capitalismo?
Il taylorismo digitale è la teoria della nuova forma del taylorismo
conseguente le innovazioni introdotte nella organizzazione del lavoro
dalle tecniche digitali. Il primo cambiamento avvenuto è che le forme
del taylorismo - cioè la parcellizzazione, la cooperazione e il
controllo del ciclo produttivo - vengono portati alle loro estreme
conseguenze. Per quello che è possibile si smaterializzano all’interno
del software diventando così come “neutre”, al punto che il sottostare
alle logiche del processo produttivo appare come un dato naturale. La
sottomissione della persona alle necessità del ciclo produttivo, del
sistema macchinico al quale è sottoposto nella produzione diviene non
solo molto più estesa, ma in qualche modo più “oggettiva”. È come se le
persone fossero spinte ad adeguarsi alle performance richieste dalla
produzione ancor più che in passato, con una riduzione sia di capacità
critica sia di possibilità rivendicativa. Una situazione sicuramente
peggiore dal punto di vista dell’autonomia individuale e umana. La
qualità tecnologica del digitale è diversa da quella di altre tecnologie
umane perché interviene sul processo comunicativo, sul processo di
scambio e valutativo dell’informazione. Le tecnologie digitali sono
tecnologie relazionali e mutano le forme delle relazioni umane,
arrivando a ridescrivere addirittura le forme delle strutture cognitive
degli individui. Per dirla con un’affermazione, le forme dei processi
sociali di relazione (tra gli individui e i gruppi) e le forme dei
processi produttivi (a prescindere dalle vecchie divisioni della prima
era industriale pre-digitale) tendono a coincidere. Man mano che il
digitale si estende nella sua presenza nel corpo della società, le forme
sociali e le forme produttive divengono sempre più simili. Diciamo che
il lavoratore di oggi non vive la percezione del processo di alienazione
come accadeva in passato. Prima la differenza tra le 8 ore in fabbrica e
le 8 ore di vita era totale. Oggi la forma del lavoro e quella del
tempo libero tende a coincidere. Si producono e controllano le relazioni
con i nostri amici esattamente come si produce e si controlla la
macchina che produce o il servizio che si genera. Tutto passa per un
device che ci interfaccia con la cosa che dobbiamo fare, la relazione
che dobbiamo curare. Si tratta di un processo che ha mantenuto, anzi
esteso, il controllo del potere preesistente. Il punto di comando che
dirigeva i processi politici e sociali si è rafforzato.
Il taylorismo digitale ha quindi prodotto un arretramento delle condizioni lavorative?
Il
taylorismo digitale oltre ad essere più pervasivo di quello esistente
nella fase meccanica, ha indebolito le strutture difensive che il
movimento operaio si era conquistato con lotte faticose. Con una
risposta breve potrei dire solo, si. Ma in realtà le cose non stanno
semplicemente così. I processi, per fortuna o per sfortuna, sono sempre
più complessi. Da un lato si è diffusa una vulgata, anche a sinistra,
che afferma che la fase che stiamo vivendo sia un semplice
“arretramento” rispetto alle conquiste del secolo scorso. Ma non è così.
La storia non torna mai indietro, anche quando le sconfitte segnano dei
punti di non ritorno. Lo sfruttamento dell’era digitale non è quello
dell’era meccanica. Può essere anche più pervasivo e totalizzante, e
necessita di una critica e di un conflitto di nuova generazione, ma apre
a potenzialità nuove sia di conflitto di tipo classico, sia in forme di
riorganizzazione della vita, della produzione, delle relazioni che nel
secolo scorso potevamo tenere nella sfera dell’utopia. Ma per fare
questo c’è bisogno di saper guardare oltre quello che immaginavamo ieri.
Chi pensa di riproporre gli schemi che hanno funzionato un secolo fa è
come se, all’inizio del ‘900, qualcuno avesse proposto un processo di
liberazione e modalità di conflitto utili nell’era dello schiavismo. Era
nel giusto, dal punto di vista del principio, ma totalmente fuori tempo
massimo per i processi che il capitalismo aveva generato.
Lei ha parlato prima di tre trasformazioni… Che cosa intende al riguardo?Quella
del lavoro e del taylorismo digitale (che tra l’altro sta evolvendo
velocemente verso esiti ancora più alti di innovazione dei processi di
organizzazione del lavoro) è solo la trasformazione socialmente più
rilevante. Gramsci, nelle pagine dedicate ad Americanismo e Fordismo,
affermava che il fordismo forgiava l’uomo di cui aveva bisogno. Con
quelle parole ci annunciava una verità sempre più fondamentale per le
forze che si propongono delle trasformazioni politiche consapevoli e
profonde. Gramsci ci diceva che il processo produttivo forgia l’umanità
di cui ha bisogno. Produce una cultura, un ambiente, una società atta a
“sopportare” lo schema della produzione imperante in quella fase. Ma in
quella fase la differenza tra lo schema delle ore di lavoro e quello
delle ore della socialità era ancora diverso. Il digitale sta producendo
un “ambiente unico”, uno schema totale. Nuove forme di lavoro che non
esistevano in precedenza e che la sinistra e in particolare gli
economisti della sinistra, non riescono né a vedere né ad inserire nei
loro schemi del ‘900. Penso ad esempio a quello che io chiamo il Lavoro
Implicito e di cui ho parlato sempre nel mio E-Work. Insomma la
trasformazione non è puntuale ma sistemica. Ho chiamato questo schema
che sta emergendo come il processo di “terraformattazione capitalistica”
del pianeta. E per questo serve uno schema “complesso”…
Ho preso al riguardo in prestito un neologismo dagli scienziati
spaziali. Gli scienziati che si occupano dei viaggi spaziali e della
possibilità di vivere su altri pianeti, infatti, hanno coniato questo
termine per indicare tutte le cose che vanno compiute per trasformare
l’ambiente di un pianeta per renderlo abitabile dall’uomo. È quello che
stanno pensando di fare con Marte…
E quindi il capitalismo starebbe facendo una cosa analoga con la Terra?
Quello
che è in atto è proprio un processo di produzione di un ambiente
“totale” all’interno del quale l’uomo deve vivere. Tutto quello che non è
all’interno del processo di valorizzazione del capitale semplicemente…
non serve, diviene uno scarto. E paradossalmente questo coincide sempre
più con il processo di digitalizzazione del mondo. Tutto quello che non
può essere digitalizzato è uno scarto perché sfugge al processo di
totale controllo che si sta generalizzando nel mondo.
Perché pensa che si stia lavorando alle Smart Cities?
Perché
serve estendere il controllo dei processi di scambio che avvengono,
istante per instante, nelle e fra le vite delle persone. Solo così sarà
possibile continuare a valorizzare il capitale circolante. Tutto ciò che
non è matematizzabile diviene un orpello, un peso, uno scarto. Ma
questo attiene alla seconda novità del capitalismo di questo secolo.
Cioè, la seconda delle tre novità di cui hai parlato in precedenza?
Esatto.
È il punto estremo della novità, quello sul quale il capitale sta
lavorando in questi anni. Tutto è iniziato con la possibilità di
smaterializzare il ciclo produttivo e introdurre una nuova forma di
merce, quella immateriale.
Merce immateriale, è quello di
cui Lei ha parlato nel libro Lo spettro del Capitale. Per una critica
dell’economia della conoscenza?
Non solo merce immateriale.
Con essa, infatti, si è prodotto un ciclo produttivo totalmente nuovo,
il ciclo immateriale. La prima grande applicazione di tale processo è
proprio la smaterializzazione della moneta. Il capitale finanziario,
quando ha incontrato il digitale, si è trasformato, si può dire che è
diventato adulto ed esteso la sua potenza sul mondo. Ma ciò che è
pervasivo ancor di più è la logica sottostante, la logica che ha
abilitato la trasformazione della finanza. Questa logica, infatti,
riesce ad innervare tutti i processi ed estendersi al resto della vita.
Appunto “terraformattando” il pianeta.
Il ciclo legato alle
potenzialità del digitale è un ciclo che può avere bisogno di un
supporto fisico sempre più marginale. La moneta è addirittura arrivata
ad avere smaterializzato oltre il 90% della sua forma esistente. Ma il
ciclo immateriale riguarda flussi di comunicazione destinati agli umani,
flussi di informazione necessari alla produzione di altre merci
materiali o immateriali che siano.
Paradossalmente tutto diviene
merce e tutta la nostra vita diviene lavoro. Anche quando le persone non
ne sono consapevoli. Appunto come accade con il lavoro implicito. Ogni
nostro atto nell’ambito della vita inserita nell’era digitale diviene un
atto di produzione di informazioni e, quindi, di un valore sul mercato
digitale. Il mondo dei Big Data, l’estrazione di informazioni sui nostri
comportamenti, di vita, di consumo, di lavoro, è uno dei grandi
business che cresce ogni anno a due cifre. I sindacati dovrebbero
interrogarsi su come è cambiato il lavoro e provare a produrre conflitti
di nuova generazione altrimenti rischiano una sconfitta strategica.
La produzione immateriale cambia lo scenario del lavoro, quindi?
Il
digitale sta abilitando un mondo diverso dal precedente. Il passaggio è
un passaggio di paradigma. Molto più di una semplice “rivoluzione”. Ma
tutto questo si intreccia con una novità ulteriore. Nel ‘900, proprio
durante la grande crisi del ’29, si forgiò una novità che ha innervato
tutto il secolo e che rappresenta una novità storica impressionante. In
quegli anni, negli USA, nacque quella che io chiamo l’Industria di
Senso. L’industria che lavora nella produzione del “senso della vita”,
la modalità con la quale noi percepiamo “naturale” vivere con lo schema
del modello di consumo che troviamo nei supermarket di tutto il mondo.
Quindi il cerchio si sta chiudendo?
Dipende
dalle forze che vogliono continuare a puntare sull’uomo. Non tutto,
infatti, può essere programmato. Vorrebbero che fosse così. Ma non lo è.
Ci sono individui e forze che si stanno schierando, dopo svariati
decenni di accecamento, su trincee nuove.
A chi pensa al riguardo?
Alla
Chiesa di Papa Francesco, ad esempio. Ma non solo. Ci sono fenomeni che
stanno girando in positivo quello che il digitale comporta. Le logiche
del web 2.0, ad esempio, sono logiche che poggiano su alcuni assi
storici della cultura della sinistra: condivisione, cooperazione,
consapevolezza, creatività, collaborazione, autogestione sono a
fondamento del digitale 2.0, ma sono parole e pratiche antiche della
cultura della sinistra e germoglieranno presto in forme nuove della
politica e delle nuove forme di rivendicazione.
La sinistra deve cambiare le forme della propria lotta?
Andremo
al di là della semplice “rivendicazione” di spazi e diritti ad un
potere che rimane inamovibile e centrale. Stiamo andando verso forme
nuove di appropriazione di spazi di vita che possono uscire dallo schema
classico del capitalismo, quello della produzione di valore di scambio,
cioè di merci. Stiamo entrando in un’era della vita in cui le
tecnologie e le pratiche sociali che si stanno diffondendo, aprono alla
possibilità di produzione diretta di valore d’uso. Una vera e propria
realizzazione diretta di nuove forme di produzione, di scambio, di dono,
di consumo, di relazione. E così via. Questa è la forma della
Rivoluzione del XXI secolo.
Bellucci la socialdemocrazia
non ce la fa’ a tener fede ai suoi principi di eguaglianza nel
capitalismo. Secondo Lei i partiti della sinistra europea hanno trovato
un nuovo pensiero politico adeguato a fare fronte alle necessità
impellenti dovute agli inasprimenti sociali causati dalla rivoluzione
tecnologica e quindi a riempire i vuoti lasciati da una politica
socialdemocratica considerata da molti oramai obsoleta?
La
socialdemocrazia nasce con la consapevolezza che all’interno dello
schema capitalistico non possa prodursi il processo di liberazione e di
consapevolezza dell’uomo. Per questo è nata e questa esigenza non è
stata cancellata dal periodo d’oro del Welfare State. Certo, per quel
periodo transitorio della storia del ‘900 è sembrato che fosse possibile
una “sintonia di intenti” tra capitale e movimenti socialisti, almeno
nel ristretto novero dei paesi europei. Al di fuori di tale perimetro mi
sembra che il successo del modello sia stato scarso o addirittura
nullo. Ora anche all’interno dei confini europei quel compromesso mostra
la corda, non riesce né a distribuire ricchezza attraverso il lavoro e
il welfare, né a garantire la percezione di un senso di marcia sociale
della storia umana. Sembra aver smarrito, nella semplice opera di
gestione amministrativa, il senso della propria funzione. Quindi ha
perso l’anima, la forza derivante dall’interpretazione di bisogno di
trasformazione radicale del mondo. Ma intorno alle novità che si
schiudono all’interno delle innovazioni prodotte dal capitale,
riemergono nuove esigenze, nuovi bisogni, nuove pratiche. La politica
rinasce sulle contraddizioni nuove, necessita delle analisi adeguate a
comprendere le innovazioni economico-sociali e di un gruppo dirigente in
grado di socializzare queste nuove acquisizioni. In Europa, alla
sinistra, serve un processo di questo livello. E questa necessità può
oggi prefigurare un superamento delle divisioni otto-novecentesche della
sinistra. Serve un nuovo inizio, ma non partiamo da zero. Molte
analisi, molta sperimentazione sociale, qualche tentativo di esperimento
sul piano politico. Insomma qualcosa si muove, ma troppo lentamente.
Occorre estrarre intelligenza organizzativa di nuova generazione dai
processi in atto. Un po’ come fece il movimento operaio nell’ottocento
fino alla nascita della nuova forma organizzativa che prese il nome di
partito. A quel tempo impiegammo qualche decennio, ora speriamo di
metterci meno tempo…
Secondo Lei dopo la caduta del
socialismo reale di stampo sovietico si è voluto dare spazio ad una
altra forma di comunismo, per esempio al famoso eurocomunismo creato da
Enrico Berlinguer?
Una parte dei partiti comunisti europei
negli anni ’70 del secolo scorso compresero che il modello sovietico non
era in grado di rappresentare un modello politico, economico e sociale
per l’Europa e forse per il mondo intero. Ricordiamoci, infatti, che la
proposta arrivò a contagiare partiti comunisti fino al Giappone. Ma il
modello dell’Eurocomunismo cadde prima del crollo del muro. La necessità
era stata individuata ma la ricetta non riuscì a mettere le radici per
molte ragioni. Alcune erano legate alle novità del mercato capitalistico
che stavano arrivando; penso, ad esempio, all’arrivo in Europa
dell’industria di senso a partire dal 1980 con l’arrivo della
televisione commerciale prima in Italia, poi in Francia e poi nel resto
dell’Europa. Altre, alle sconfitte del movimento operaio di quella fase,
penso alla marcia dei 40.000 della Fiat in Italia e alla lotta dei
minatori in Gran Bretagna. Il resto lo stava facendo lo scontro politico
nei vari paesi ove le forze conservatrici stavano poggiando sulla
rinnovata funzione della finanza che le tecnologie digitali stavano
facendo diventare non solo globali, ma automatiche e in tempo reale. In
altre parole, l’esigenza di coniugare democrazia politica e democrazia
economica, di costruire una società politica, fondata sui partiti ma
permeabile dalle istanze della società, una società ove i diritti
sociali e civili avrebbero potuto poggiare uno sull’altro per aumentare
il grado di libertà dell’individuo ma non a scapito della collettività,
una proposta, per dirla con uno schema tutto politico, ove democrazia e
socialismo potessero incontrarsi nella possibilità di forgiare un uomo
consapevole e sociale, questa essenza dell’eurocomunismo si andò ad
infrangere sulle nuove dinamiche del capitalismo che stava mutando e
sulla cecità dei vecchi regimi sovietici. Gorbaciov arrivò troppo tardi e
troppo debole per poter giocare di sponda con questa proposta
innovativa. Enrico Berlinguer era già morto e l’Eurocomunismo era stato
archiviato, di fatto, dal Partito Comunista Francese.
Ci può spiegare che cosa significava allora l’ Eurocomunismo?
Tale forma di comunismo potrebbe essere attuabile ora in Europa e se sì
con quali conseguenze a livello della politica mondiale?
L’Eurocomunismo
era il tentativo di rileggere il conflitto tra movimento operaio e
capitale alla luce delle acquisizioni che si stavano conquistando nei
modelli sociali ove esisteva il welfare state. Fu importantissimo perché
apriva alla consapevolezza che non si inseguiva un modello
precostituito, schematicamente assunto. Oggi quella fase è superata e
non è riproponibile. Le nostre società sono diverse da quelle degli anni
’70 del secolo scorso. La composizione delle classi è diversa, le forme
della politica sono mutate. Il capitalismo finanziario ha imposte forme
produttive e luoghi decisionali che prima non esistevano. Le forme del
potere sovranazionale e, spesso, totalmente a-democratiche, hanno un
ruolo preponderante rispetto ai parlamenti e alle istituzioni del secolo
scorso. Ma le motivazioni della proposta, l’idea di una società a
dimensione più umana, rimangono inalterate. E la proposta di costruire
una politica capace di trasformare il mondo e portarlo al di là dei
limiti del capitalismo e di farlo con un processo democratico, con la
costruzione del consenso, sono ancora tutte valide. Io chiamo questa
necessità la “transizione possibile”.
Ecco, andare oltre i limiti del
capitalismo, oltre la sua inefficienza, oltre le sue diseguaglianze,
oltre la rapina delle risorse che stanno mettendo in ginocchio i cicli
di riproduzione naturale, oltre l’idea che il mondo sia pensabile e
gestibile come una fabbrica, con le sue logiche produttive, oltre l’idea
che il regno animale e vegetale siano due comparti di quell’unica
grande corporation in mano all’umano capitalista. Un’esigenza ancora
oggi presente, anzi ancora più incessante di trent’anni or sono.
Quali cambiamenti nella politica interna ed economica, quindi, apporterebbe oggi? Cosa significa la transizione possibile?
Credo
che il primo passo sia quello di superare le etichette che hanno diviso
le forze del mondo del lavoro nel ‘900. Socialiste, comuniste,
socialdemocratiche, sono etichette che non dicono più molto agli
individui di oggi e, spesso, quello che dicono sono cose che non aiutano
chi vuole continuare la lotta per la liberazione e la consapevolezza
umana. Abbiamo bisogno di organizzare la politica che serve al mondo del
lavoro di domani, quello che dovrà affrontare la battaglia dei processi
di robotizzazione generalizzata, di cancellazione di una miriade di
lavori classici. Dobbiamo sapere che il tema di oggi è sapere se la
ricchezza prodotta dall’intero apparato produttivo mondiale dovrà essere
redistribuito attraverso il lavoro oppure no. Nel primo caso ci
apriremo ad una nuova fase interessantissima di liberazione, anche per
le nuove forme di lavoro e di produzione possibili, nel secondo caso
avremo una società suddivisa tra un numero ristretto di lavoratori con
scarse tutele e bassi salari, una fetta altrettanto grande di lavoratori
precari senza tutele e una fetta estesa di persone che saranno
stabilmente fuori dal ciclo produttivo a cui spetterà un salario di
sopravvivenza. È questa la strada che l’Europa ha intrapreso. E poi ci
si lamenta che le persone sono relegate ai margini, hanno riflussi di
destra, si allontanano dalle lotte per i diritti e si scagliano contro i
migranti. È il modello introdotto dalla normativa Bolkestein.
Noi
abbiamo bisogno di una politica che sappia guardare al domani con una
proposta radicalmente nuova. In primo luogo la sinistra di questo secolo
non può essere semplicemente “rivendicativa”. Lasciare, cioè, il
compito di guidare i processi di innovazione al capitale – sempre più,
tra l’altro, basandosi sulla economia condivisione, cioè sull’apporto
diffuso della socialità – e limitarsi a rivendicare diritti e
redistribuzione della ricchezza mettendoci ai margini del processo. La
sinistra di questo secolo sarà una sinistra capace di costruire proprie
forme di produzione, di decisione, di socializzazione da contrapporre
alla produzione di merci. Produzione di valore d’uso contro la
produzione di valore di scambio. Nel fare questo sarà possibile e
necessario demercificare la forma della vita umana. Non misureremo le
nostre società su parametri come il PIL. Attività come il riuso, il
risparmio, la rigenerazione, la riduzione delle merci saranno attività
sociali che saranno retribuibili con monete sociali di diversa
circolazione, sul modello delle blockchain su cui ci si è basati per le
monete come i bitcoin. Potremmo reingegnerizzare le forme sociali
basandoci sulle potenzialità della rete, soddisfacendo bisogni sempre
più immateriali, riducendo l’impronta umana sul pianeta e riducendo lo
spazio della vecchia forma della produzione dell’era capitalistica.
Consumeremo il possibile a Km0, produrremo molte delle merci necessarie
in spazi sociali che abbiano strumentazioni 3D e quelle che non potremmo
produrre saranno scambiate attraverso le forme della condivisione con
altri luoghi che baseranno lo scambio sempre più senza le transizioni
classiche. Siamo noi che non avremo più bisogno del capitale, non lui
delle persone. Questa è la transizione possibile. Il ripensare le nostre
società dalle fondamenta. Oggi è possibile e realizzabile perché c’è
una nuova generazione in campo che è veloce, digitale e pronta ad un
cambiamento di paradigma che la vecchia politica stenta a comprendere.
Marx pensava ad un futuro poggiato sui liberi produttori associati. Beh
anch’io penso che questo sia il destino che abbiamo davanti. Le
innovazioni che necessitano per arrivare a quel livello di libertà ora
possiamo intravvederle. 30 anni fa era impossibile. In quel tipo di
società posso calare la più bella visione del comunismo di Marx quando,
nei manoscritti economico-filosofici del ’44, ci fa comprendere come il
comunismo sia per lui l’educazione dei 5 sensi. Cioè una società in cui
la consapevolezza del singolo sia integrale.
Come
cambierebbe la politica economica europea se noi guardiamo alle crisi
dei paesi del sud dell’ Europa e ai tentativi della banca centrale
europea di far uscire l’Europa dalla deflazione e reintrodurre di nuovo
l’ inflazione?
L’illusione della politica è che questa crisi
possa essere superata attraverso il governo della moneta. Anni di
ricette liberiste hanno prima creato le premesse della grande crisi del
2008 e poi ridotto i livelli di welfare in Europa senza significative
redistribuzioni di ricchezza nei vari Sud del mondo. Anzi, la
disperazione sembra essere aumentata. Alla crisi strutturale,
l’incapacità di tornare a produrre ricchezza da redistribuire in maniera
sistemica, si è risposto con l’illusione che ci si possa salvare da
soli. In Europa le politiche della Germania hanno ipotizzato la
possibilità di divenire l’unico vero paese industriale del continente,
senza fare i conti che indebolendo le economie degli altri paesi europei
la debolezza strutturale della domanda interna nazionale ed europea
avrebbe garantito solo alcuni anni di benessere, ma a scapito di un
peggioramento sociale e politico di tutta l’area Euro con le conseguenti
ricadute politiche ed economiche nel medio periodo. Un quadro che si
sta consolidando ad una velocità crescente. L’Inghilterra pensa ad uno
sganciamento dal quadro europeo con la stessa miopia e le politiche
monetarie della BCE non sono riuscite a invertire il quadro deflattivo e
quello di crisi dei paesi dell’Europa mediterranea. Senza la ripresa di
un po’ di inflazione arriveremo alla fine del mandato di Draghi con una
nuova sterzata monetarista che aggraverà molto il quadro della
situazione. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha
anticipato, in un recente viaggio in Italia, la linea del dopo Draghi:
fine del sostegno ai debiti pubblici da parte della Banca Centrale
Europea e ripristino delle semplici regole liberiste della concorrenza.
Una nuova illusione di garantire un periodo di ripresa all’economia
tedesca sganciata dai destini degli altri paesi europei. Ma è lo stesso
che l’Europa nel suo complesso sta facendo verso il Medio-Oriente e
l’Africa. Non c’è salvezza se non attraverso la collaborazione e la
pace. E non è possibile garantire un futuro solo al proprio paese. È una
visione, oltre che sbagliata sul piano etico-morale, miope e inefficace
dal punto di vista di garantire una vera fuoriuscita dalla malattia che
sta corrodendo il tronco sul quale siamo tutti poggiati.
Nell’isolamento nazionale e nella politica monetarista non è possibile
invertire o uscire dall’ attuale crisi strutturale e sistemica.
La
sinistra, in primo luogo quella europea, deve sganciarsi da questa
illusione. Servirebbe un grande incontro, una grande assise per
rilanciare una prospettiva diversa e superare le fratture in avanti. La
crisi sistemica è un intreccio della crisi monetaria e finanziaria, del
grande cambiamento introdotto dalle trasformazioni che il digitale sta
producendo e, per complicare ancor di più il quadro, tutto il fare umano
deve fare i conti con le compatibilità che l’astronave Terra ci ha
segnalato. L’accordo COP21 di Parigi ancora non si è integrato con le
scelte di politica quotidiana. Esattamente come la trasformazione
introdotta dal digitale. La politica continua a parlare solo di moneta e
finanza e delle sue compatibilità. Una visione miope e incapace di
indicare una via e scaldare i cuori. Per questo serve una “transizione”…
L’esperienza
politica in Italia che cosa le ha insegnato tenendo conto che Lei ha
una visione dal di dentro della sinistra italiana? Che cosa e’
necessario che cambi acche’ una politica di sinistra in Italia possa
venire attuata giacche’ il partito democratico non risponde alle
esigenze di un partito vero di sinistra?
La crisi che
investe la sinistra in Italia è una crisi profonda, una crisi che
deriva, in qualche misura, proprio dalla forza che essa ha avuto nella
storia dell’Italia repubblicana. Le strutture che ancora sono in piedi, e
sono ancora molte e sufficientemente forti, tendono a comportamenti
inerziali, a proseguire sulla stessa strada. Invece abbiamo bisogno di
grandi novità, di nuove analisi, di nuove pratiche. Qualcosa si sta
muovendo. Il processo che si è aperto per la costruzione di un nuovo
partito, Sinistra Italiana, sta provando a raccogliere le forze
disponibili ad una partenza di nuovo tipo. A Febbraio abbiamo tenuto una
grande assemblea nazionale delle persone, delle associazioni, delle
forze politiche che fanno riferimento alla sinistra. L’abbiamo chiamata
Sinistra Italiana che ha un acronimo che in Italia suono bene SI.
Abbiamo provato a innovare sia nelle forme della convocazione, sia in
quelle della discussione, della individuazione di un punto di
coordinamento e ha adottato una piattaforma digitale per la militanza.
Certo c’è bisogno di un grande sforzo, ma qualche tassello si inizia a
vedere. Come in altre parti d’Europa. Penso al dialogo tra Podemos e la
sinistra tradizionale in Spagna, ad esempio. Penso alle novità del
Labour inglese diretto da Jeremy Corbyn o del confronto nelle primarie
USA tra la linea della Clinton e quella di Bernie Sanders. Penso al
nostro tentativo di Sinistra Italiana, ma anche a quello di personaggi
come Varoufakis. Insomma, qualcosa si muove, ma ancora troppo lentamente
e soprattutto troppo spezzettato. Manca non tanto lo sforzo di una
ricerca, ma una visione complessa e innovativa che sappia essere
inclusiva delle diversità, ma salda nella radicalità della ricerca.
Quali ripercussioni avrebbe una svolta a sinistra italiana anche per gli altri stati europei?
Credo
che per la storia della sinistra italiana, per le radici sociali
profonde che ancora esistono, per il ruolo che il nostro paese può
tornare a svolgere, non solo sul piano della elaborazione ma anche su
quello della proposta e delle alleanze, la costruzione di una Sinistra
Italiana forte possa determinare anche un rilancio della stessa ipotesi
europea. Negli anni ’70 dal PCI venne avanti la proposta
dell’Eurocomunismo che cambiò la storia della sinistra in Europa. Chissà
che non sia proprio dalla attuale crisi della sinistra italiana che
emerga una proposta di una transizione per le società europee. La
transizione possibile…
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venerdì 20 maggio 2016
"L'uso che il capitalismo fa del digitale si può arginare, ma dobbiamo cominciare a produrre una rivoluzione nel nostro modo di pensare". Intervista a Sergio Bellucci
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