Un figlio costa denaro e tempo, non solo nei primi anni di vita, ma lungo tutti gli anni della crescita (e in Italia ben oltre), anche se in diversa combinazione.
Chiara Saraceno Repubblica
Se il “costo” in termini di tempo è elevatissimo nei primi anni di vita per diminuire progressivamente, quello in termini di denaro invece aumenta con gli anni. Pensare di incoraggiare la natalità concentrandosi quasi esclusivamente sul sostegno al reddito nei primi anni di vita, quindi, è un approccio sbagliato. Come emerge chiaramente dai dati statistici, molte donne non vengono assunte da datori di lavoro che “temono” una loro eventuale maternità; e molte madri sono costrette a lasciare il lavoro dopo la nascita di un figlio (soprattutto se è il secondo o il terzo) perché non riescono a conciliare le domande di cura dei figli con quelle del lavoro remunerato.Non ci riescono in un contesto, come quello italiano, in cui i servizi per l’infanzia sono scarsi e costosi, pur con forti differenze territoriali, le scuole a tempo pieno in progressiva riduzione e distribuite in modo molto disomogeneo sul territorio, le lunghe vacanze scolastiche richiedono, per essere gestibili, risorse sia economiche sia di rete famigliare. Per occuparsi del lavoro di cura troppe madri (un 20% circa) devono rinunciare in tutto o in parte ad un reddito proprio, una perdita non compensabile con un bonus bebè per quanto generoso e i cui effetti sono di lungo periodo, quando non irreversibili, rendendo quindi più difficoltoso far fronte ai costi monetari crescenti man mano che i figli crescono.
Questi rischi sono ancora più attuali e diffusi oggi, in una situazione di domanda di lavoro insufficiente e rapporti di lavoro precari ( che scoraggiano anche molti padri dal prendersi tempo per condividere la cura con le madri), specialmente per le donne a bassa istruzione e dei ceti economicamente più modesti. Aggiungo che l’Italia è uno dei paesi europei a più alta povertà minorile e questa è concentrata nelle famiglie con tre o più figli, che sono anche spesso famiglie monoreddito. L’arrivo di un figlio in più rappresenta un rischio di povertà nel breve, ma anche medio e lungo periodo non solo per i genitori, ma anche per i fratelli/ sorelle. Incoraggiare le donne e le coppie a fare un figlio in più senza mettere in conto sia l’orizzonte temporale in cui si dispiega la responsabilità del suo mantenimento sia i rischi in cui incorrono le famiglie nel loro complesso e in particolare le madri, quindi anche senza predisporre strumenti per farvi fronte, mi sembra davvero irresponsabile.
Non intendo con ciò sostenere che non occorra fare nulla sul piano del sostegno monetario al costo dei figli. Al contrario, ritengo che accanto a politiche di sostegno all’occupazione e di conciliazione lavoro- famiglia, è necessario porre mano finalmente ad una riforma organica dei trasferimenti per il costo dei figli, oggi frammentati in una molteplicità di misure, spesso scoordinate tra loro, quindi meno efficaci, ed eque, di quanto potrebbero essere a parità di spesa: assegno al nucleo famigliare per famiglie di lavoratori dipendenti a basso reddito, assegno al terzo figlio per famiglie a basso reddito ( misurato però con un altro strumento) con tre figli tutti minori, bonus bebè mensile per bambini nati o adottati nel triennio 2015- 2018, detrazioni fiscali per figli a carico (da cui sono esclusi gli incapienti). C’è chi riesce ad avere accesso a più di una di queste misure e chi a nessuna, pur essendo a basso reddito.
Invece di aumentare il bonus bebè, o estenderne il periodo di accesso, sarebbe opportuno unificare queste misure, o al massimo ridurle a due, da fruire in alternativa (come succede in Germania): un trasferimento diretto, o assegno per i figli, di importo crescente con il numero dei figli ed eventualmente decrescente in base al reddito famigliare, senza vincoli categoriali e, fino almeno alla maggiore età, una detrazione fiscale equivalente.
Chiara Saraceno, da Repubblica
(17 maggio 2016)
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