Anche se non formalmente, nella sostanza sta sparendo l’unica “anomalia” del sistema politico italiano: il PD è sempre più il partito di Renzi. Quando la minoranza pensa di riprenderne il controllo mettendosi a stampare le tessere, conferma di essere alla frutta (forse, addirittura, all’ammazzacaffè).
Un PD tornato a essere vivace solo perché lo è Renzi, conferma il declino irreversibile della tradizionale forma partito.
Prenderne atto
non significa considerare superate in via definitiva modalità di
organizzazione del consenso diverse dall’uomo solo al comando; obbliga
però a constatare che dobbiamo partire da una tabula rasa. Non si tratta
di modificare i vecchi strumenti, ma di inventarne dei nuovi, che
funzionino.
Anche quando si immaginavano emanazioni nazionali di movimenti con
respiro mondiale, nella realtà i partiti ambivano a rappresentare
bisogni e interessi sufficientemente omogenei (cioè con contraddizioni
interne mediabili) cui era possibile dare risposta all’interno di ogni
singolo stato. In effetti i condizionamenti internazionali sono sempre
esistiti, ma erano visti come ostacoli di cui tenere conto nei processi
decisionali che, tuttavia, in larga misura restavano autonomi. Sulla
riduzione del ruolo degli stati, anche quando non hanno formalmente
deciso di delegare poteri a strutture sovranazionali, e sulle cause, non
cedo ci sia molto da aggiungere a quanto è ormai senso comune.
Meno evidenti sono le conseguenze della parallela disarticolazione sociale. L’impoverimento progressivo di una parte crescente della popolazione nei paesi più sviluppati, accompagnato dalla concentrazione della ricchezza e del reddito nelle mani di un numero ristretto di individui, ha pochi tratti in comune con il processo inarrestabile di proletarizzazione degli strati piccolo-borghesi di marxiana memoria.
È venuto meno il potere unificante della comune esperienza del lavoro in fabbrica o di quello meccanicamente replicato negli uffici, alla base del collettivo sentire sociale. Prendiamo la categorizzazione oggi più ricorrente. Che cosa hanno in comune il precario nella scuola e in un call center? Il primo fa il lavoro voluto nella speranza di un concorso o di una leggina che lo regolarizzi.
Il secondo passa la giornata in locali senza finestre a svolgere una mansione senza futuro, tranne quello di essere prima o poi sostituito da una persona più giovane e meno stressata. In mezzo ci sono le partite IVA fasulle per un posto di segretaria, incarico rinnovabile annualmente, i lavori manuali in nero, piccole e saltuarie attività di ogni tipo, che si svolgono a casa propria; e altro ancora, inclusa la disoccupazione completa e irreversibile.
Alla proletarizzazione si è sostituita la individualizzazione, sempre più tale anche nel cosiddetto tempo libero, con il rapporto diretto, materiale, in misura crescente sostituito da quello astratto, nei social network; una condizione che trova la propria rappresentazione politica in partiti che si annullano in un individuo. Quando la situazione diventa insostenibile, scoppiano, improvvise, le rivolte, che non sono però in grado di proporre alternative sufficientemente credibili all’attuale modello di società. Di conseguenza, come confermano le esperienze di questi anni, l’eventuale successo è solo momentaneo.
Nel vuoto di credibili programmi alternativi, paradossalmente, ma non troppo, le proposte sui temi del lavoro che il governo sta predisponendo, possono tradursi in un successo politico. Non è affatto escluso che una disoccupazione giovanile intorno al 40% e un precariato diffuso accettino la prospettiva di qualche garanzia e di qualche posto di lavoro in più, nella logica disperata del meglio un uovo oggi di una gallina domani.
Meno evidenti sono le conseguenze della parallela disarticolazione sociale. L’impoverimento progressivo di una parte crescente della popolazione nei paesi più sviluppati, accompagnato dalla concentrazione della ricchezza e del reddito nelle mani di un numero ristretto di individui, ha pochi tratti in comune con il processo inarrestabile di proletarizzazione degli strati piccolo-borghesi di marxiana memoria.
È venuto meno il potere unificante della comune esperienza del lavoro in fabbrica o di quello meccanicamente replicato negli uffici, alla base del collettivo sentire sociale. Prendiamo la categorizzazione oggi più ricorrente. Che cosa hanno in comune il precario nella scuola e in un call center? Il primo fa il lavoro voluto nella speranza di un concorso o di una leggina che lo regolarizzi.
Il secondo passa la giornata in locali senza finestre a svolgere una mansione senza futuro, tranne quello di essere prima o poi sostituito da una persona più giovane e meno stressata. In mezzo ci sono le partite IVA fasulle per un posto di segretaria, incarico rinnovabile annualmente, i lavori manuali in nero, piccole e saltuarie attività di ogni tipo, che si svolgono a casa propria; e altro ancora, inclusa la disoccupazione completa e irreversibile.
Alla proletarizzazione si è sostituita la individualizzazione, sempre più tale anche nel cosiddetto tempo libero, con il rapporto diretto, materiale, in misura crescente sostituito da quello astratto, nei social network; una condizione che trova la propria rappresentazione politica in partiti che si annullano in un individuo. Quando la situazione diventa insostenibile, scoppiano, improvvise, le rivolte, che non sono però in grado di proporre alternative sufficientemente credibili all’attuale modello di società. Di conseguenza, come confermano le esperienze di questi anni, l’eventuale successo è solo momentaneo.
Nel vuoto di credibili programmi alternativi, paradossalmente, ma non troppo, le proposte sui temi del lavoro che il governo sta predisponendo, possono tradursi in un successo politico. Non è affatto escluso che una disoccupazione giovanile intorno al 40% e un precariato diffuso accettino la prospettiva di qualche garanzia e di qualche posto di lavoro in più, nella logica disperata del meglio un uovo oggi di una gallina domani.
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