Con la crisi economica scoppiata nel 2008 il potere detenuto dalle
tradizionali istituzioni rappresentative si è sempre più ridotto a
favore della nuova aristocrazia delle banche centrali. A loro è
demandato il compito di tenere a bada l'inflazione, ideologicamente
ritenuta il peggior male dell'economia. Si tratta tuttavia di
un'ideologia sbagliata e decisamente antiquata.
La
recente indomabile crisi ha definitivamente portato al governo della
globalizzazione nuove ambigue élite economiche, le quali si sono andate
via via imponendo con alterne priorità alle élite politiche.
di Guido Rossi, Il Sole 24 Ore
Politica
ed economia, insieme con capitalismo e democrazia, diritti, interessi e
privilegi, hanno da qualche tempo subìto pericolose e devastanti
derive, le quali ne hanno intaccato i valori fondamentali. Il cittadino è
stato così degradato a protagonista ignaro nel teatro di un mondo
governato da registi, "ignoti sovrani". Questa realtà ha purtroppo
favorito un'invasata estraneità e un incosciente distacco del cittadino
nei confronti della politica e dell'esercizio dei suoi diritti, cosicché
l'impeto mediatico di un becero populismo va sempre più favorendo gli
"ignoti sovrani".
Una scossa, sia pur estremamente tardiva, a
tentare di risvegliare, nel nostro Paese, una democrazia politica,
istituzionalmente in coma, è giunto dalla recentissima sentenza della
Corte Costituzionale, che ha finalmente bocciato una legge elettorale
antidemocratica, con l'adatto nome di "Porcellum", invitando il
Parlamento a rifare una legge elettorale in grado di restituire ai
cittadini i loro diritti politici e democratici. Pur con tutte le
riserve del caso, è una forte spinta - da parte della Corte
Costituzionale che come le altre istituzioni del nostro Stato è rimasta
sovente assente - contro il disinteresse verso la politica, spinta
diretta soprattutto ai giovani, indotti quotidianamente a sottovalutare
il loro fondamentale diritto di voto ed il loro ruolo politico.
Tuttavia,
una parte meno occulta degli ignoti sovrani sta emergendo con estrema
importanza e qualche trasparenza. È la nuova aristocrazia delle banche
centrali, quelle che avevo qualche mese fa individuato su questo
giornale come "i nuovi alchimisti". Le banche centrali sono divenute
sempre più determinanti nell'economia dei vari Paesi e nella vita di
ciascuno di noi. E ciò è avvenuto con una sorta di automatismo, questo
certamente non sempre trasparente, ma confermato dalle soventi ambigue
clausole statutarie, che indicano come funzione principale delle banche
centrali il controllare, o meglio nevroticamente tenere a bada,
l'inflazione - oggi considerata corretta sotto il limite del 2% -
ideologicamente ritenuta il peggior male dell'economia.
Si
tratta tuttavia di un'ideologia decisamente antiquata, poiché il maggior
problema che questa nuova aristocrazia deve affrontare, quanto meno nei
Paesi meno poveri, è che l'inflazione è troppo bassa (con una media
Ocse inferiore all'1,5% e 1,2% negli Usa), con conseguente irrimediabile
caduta dei prezzi, scomparsa degli investimenti e aumento della
disoccupazione. Ne è conferma la recentissima dichiarazione di Christine
Lagarde, presidente dell'Fmi, che questa situazione ha avvantaggiato
grandemente le banche a danno delle imprese.
Un primo importante
cambiamento di rotta è preannunciato a breve dalla grande banca centrale
americana, la Federal Reserve (Fed), che per decenni è stata il maggior
sovrano della politica economica e mondiale dai tempi di Bretton Woods.
Ebbene, dopo un'importante immissione di moneta nel sistema, oltre che
coi tassi di interesse sempre più vicini allo zero e con l'abbondante
acquisto dei titoli di Stato, che ha invero finora favorito il sistema
bancario palese ed occulto ("Shadow banks"), sembra vicino un radicale
cambiamento. La politica della Fed pare pronta a cambiare rotta a breve
con l'entrata in carica, in sostituzione di Ben Bernanke, il 1° gennaio
2014, con Janet Yellen. L'attenzione si sta spostando dalla nevrosi
inflazionistica all'opportunità di porre in essere decisivi stimoli per
la crescita, considerato che fra l'altro il tasso di disoccupazione è
diminuito al 7%, cioè al livello più basso degli ultimi cinque anni, e
si è affiancato a un contemporaneo consistente aumento del Pil, dovuto
alla produzione.
Su una scia solo parzialmente analoga, ma
sostanzialmente diversa, pare presentarsi la situazione giapponese.
Haruhiko Kurada, il governatore della Bank of Japan, ha di recente
dichiarato che la banca centrale è pronta a una fase monetaria di
quantitative easing, per facilitare la nuova politica del governo Abe,
al fine di uscire definitivamente da quindici anni di penosa deflazione,
aumentando finalmente i salari e incoraggiando spese ed investimenti.
Con
specificità particolari dovute a una politica monetaria e bancaria
autonoma, che più di ogni altra è influenzata dalla finanza globale, si
presenta la situazione del Regno Unito, che sta attraversando una fase
di ripresa sia pure accompagnata da vari timori.
S'innesta
peraltro pesante nella operatività delle banche centrali lo sviluppo
tecnologico dei mercati, nonché la considerazione che tutti gli
operatori, dalle grandi banche agli Hedge funds e ai fondi di ogni altro
genere, nonché i prodotti finanziari, sono per loro natura sempre più
internazionali e internazionalmente operano. Ed è questa stessa
tecnologia che ha tolto credibilità alle pretese scientificità delle
élite economiche, soppiantate dai matematici, dagli ingegneri ed ora
persino dai fisici, come tante altre volte ho già ricordato.
È
pur vero, giova ripeterlo, che gli animal spirits degli imprenditori
difficilmente possono essere racchiusi in un algoritmo ed è bene
ricordare alle élites che la durata del loro potere è limitata, in
ragione di quel che ha sostenuto Pareto che: "la storia è un cimitero di
aristocrazie". Ed è proprio la combinazione fra internazionalizzazione e
tecnologia a tenere anche gli alchimisti delle banche centrali in
continuo ambiguo rapporto con la politica dei singoli Stati, nei
confronti della quale rivendicano spesso, a torto o a ragione, la loro
indipendenza.
Tra queste élites e aristocrazie dei banchieri
centrali, la Bce ha il compito di gran lunga più difficile, poiché è
l'unica a dover svolgere una politica monetaria per tutti i Paesi
dell'Eurozona senza essere legittimata da rapporti e istituzioni
fiscali, economiche e politiche unitarie. Le continue pressioni sulla
Bce da parte del Governo, della Bundesbank e della Corte Costituzionale
tedesca, le hanno imposto una esclusiva politica di austerity
favorevole, sì all'economia tedesca, ma disastrosa per i Paesi debitori
dell'Eurozona, sempre più spinti verso la palude di una persistente
deflazione.
È così che giovedì scorso il governatore Mario Draghi
ha confermato che i tassi di interesse praticati alle banche, dello
0,25 e dello zero per i depositi overnight rimarranno invariati almeno
fino al 2015, né cambierà il tasso di inflazione, che a novembre ha
toccato lo 0,9%, ben al di sotto del limite del target del 2%. È pur
vero che la Bce due anni fa ha fornito al sistema bancario dell'Eurozona
mille miliardi di euro di prestiti triennali. E fu questa operazione
che certamente salvò l'euro e gran parte delle banche europee - che
stanno già ripagando il prestito - ma non fornì nessuno stimolo a
prestiti alle imprese e ai cittadini di Europa, con una domanda
aggregata sempre decrescente ed una ripresa lontana.
Una conferma
più chiara della continuazione indiscriminata di una politica di
austerity, imposta ai Paesi debitori, fra cui il nostro, e voluta
soprattutto dalla Germania e dalla troika, sembrano porre la Bce in una
posizione nettamente opposta a quella delle altre principali banche
occidentali. Queste non univoche politiche monetarie si rivelano sempre
più incerte nell'affrontare le scorribande del capitalismo finanziario
globale, che aumenta le sue ricchezze speculando nei confronti degli
Stati debitori e provoca effetti pericolosi sui loro assetti
democratici, soffocati dal populismo da un lato e dalla povertà
dall'altro. Val forse allora la pena, in conclusione, di comparare
l'attuale confusissima situazione a quella che si presentò negli anni
dell'immediato dopoguerra. Gli effetti del sistema sovranazionale di
Bretton Woods e la politica egemonica degli Stati Uniti furono, anche
attraverso le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza con le altre
istituzioni internazionali, un forte strumento di stabilizzazione
economica e di straordinaria crescita.
Ma proprio l'incerta e
incompleta situazione dell'Unione Europea, con la cui cultura e civiltà
nessun altro può competere, debbono oggi far comprendere che l'unico
coordinamento sovranazionale possibile è ancora quello di completare
l'Unione politica europea, dando legittimazioni democratiche alle varie
istituzioni, compresa la Bce, e prendendo finalmente coscienza da parte
dei cittadini europei che l'Europa, che costituisce nell'insieme una
delle grandi potenze mondiali, è l'unica che ha ancora davanti a sé un
processo di democrazia politica da completare, per il cui impegno
singolarmente nessuno può alimentare o indurre ad alimentare l'abbandono
o il distacco dei diritti politici di ciascuno
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martedì 10 dicembre 2013
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