giovedì 26 dicembre 2013

Umberto Eco. Come terremotare di nuovo Pompei

Come terremotare di nuovo PompeiNel 1988 un gruppo di esperti mise a punto un progetto di valorizzazione dei beni culturali italiani. Renzo Piano ne curò una parte dedicata al sito archeologico campano. L’allora ministro Bono Parrino lo guardò...

L'Espresso Umberto Eco















A leggere i giornali tornano regolarmente le notizie, ovviamente preoccupate, sul destino di Pompei, che minaccia di scomparire come l’Atlantide. E, benché qualcuno abbia detto che con la cultura non si mangia, con Pompei, meta ininterrotta di flussi turistici, si potrebbe mangiare moltissimo. Ma accade invece come se, per invogliare la gente alla sobrietà, si bruciassero i ristoranti e le pizzerie.

Vorrei allora ricordare un evento di cui evidentemente si è persa memoria. Nel 1988 la Ibm, come atto di mecenatismo, aveva commissionato e pagato un libro (e le moltissime riunioni di lavoro) su come prendersi cura del nostro patrimonio culturale. Il libro, molto bello a vedersi, si intitolava “Le isole del tesoro - Proposte per la riscoperta e gestione delle risorse culturali” e conteneva degli studi miei, di Federico Zeri, Renzo Piano e Augusto Graziani, con un contributo di Omar Calabrese e un dibattito moderato da Carlo Bertelli. Nel libro si cercava di studiare che cosa fosse un giacimento culturale, dalle opere d’arte seppellite nelle cantine delle grandi gallerie, a distese di rovine o a luoghi storici come la piana di Marengo, se ne tentava un regesto e se ne esaminavano i problemi economici, comprese le possibilità di quel marketing colto che già da tempo funzionava come forma di autofinanziamento in molti musei europei e americani.

Nello spazio di una Bustina non posso che limitarmi a citare la proposta di Renzo Piano, che aveva ideato un progetto straordinario centrato proprio su Pompei - e solo per quello Piano avrebbe meritato di essere nominato già allora senatore a vita, se i suoi oppositori di oggi avessero praticato l’arte della lettura. Il progetto, minuziosamente sviluppato con la collaborazione tecnica di un team di altri architetti, prendeva in considerazione la ristrutturazione degli accessi e dei servizi, la creazione di nuovi assetti didattico-informativi per il complesso archeologico (compreso un sito destinato al racconto storico dell’eruzione), un nuovo arredo urbano, un centro di raccolta e conservazione dei reperti da nuovi scavi. Naturalmente tutto questo implicava dei costi, ma il progetto tentava di trarre vantaggi economici proprio da queste iniziative. Infatti prevedeva installazioni sopraelevate, da cui i visitatori potevano seguire gli scavi a mano a mano che avvenivano, e quindi non solo vedere quello che della città appariva già in superficie ma anche quello che ne veniva a poco a poco alla luce.

Ne veniva fuori la possibilità di vedere al tempo stesso - grazie a questo percorso aereo - e la città sopravvissuta e quella ancora sepolta e sino ad allora ignorata. E siccome anche i siti dedicati all’informazione storica e all’esposizione di nuovi tesori erano sotterranei, la città quale appare ora e la natura circostante non ne venivano alterati. La nuova Pompei poteva autofinanziarsi incrementando l’afflusso (e la soddisfazione) di nuovi visitatori paganti.

Gli autori e il committente erano andati a consegnare il volume al presidente Pertini il quale, sia pure assai compiaciuto, non aveva potuto far altro che consegnarlo ufficialmente al ministro dei beni culturali, allora la signora Bono Parrino, la quale ci aveva dato subito l’impressione di portarlo perplessa a casa per sostenere un mobile pericolante. Forse eravamo troppo sospettosi ma, siccome la storia è, come è noto, “magistra vitae”, il nostro sospetto è stato in seguito confortato dal fatto inoppugnabile che di quel progetto nessuno ha più parlato.

Il piano di Piano è ancora da qualche parte, sepolto come i tesori di cui parlavamo, e Pompei continua a crollare. Non sono dunque i soldi o le idee che mancano, ma la buona volontà. O forse ci sono ragioni per cui a qualcuno l’andazzo presente, coi tanti piccoli e miserabili interessi che favorisce, fa comodo. Ma di questo “Le isole del tesoro” non poteva occuparsi altrimenti il suo titolo non avrebbe dovuto riecheggiare Stevenson ma forse Saviano.

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