mercoledì 25 dicembre 2013

Governi centripeti ed insorgenze centrifughe


Microfisica di un paese che rischia di morire democristiano

23 / 12 / 2013

Le grandi narrazioni si sa, servono a tutti. Servono a creare un sentire condiviso attorno agli eventi, alle trasformazioni sociali, alle ingiustizie collettive. Servono d'altra parte anche a semplificare i processi, a cancellarne l'imprevedibilità.
La crisi offre un buon numero di possibili grandi e medie narrazioni da utilizzare con cautela al fine di costruire un immaginario di risposta efficace, diffuso e reticolare. La crisi, oggi, a cinque anni dal suo esordio simbolico,è innegabilmente la forma di governo in cui siamo tutti immersi. Le nostre biografe si modificano con essa e le involuzioni più drammatiche alle quali ci sottopongono quotidianamente hanno il sapore amaro del corso naturale degli eventi. La crisi ci circonda, muove profondamente ogni scelta ed anche il suo contrario. Non basta più neppure parlare di impoverimento. Non c'è più in corso un processo di spoliazione ma è in scena un dramma sociale in piena regola, dalle proporzioni epocali, che ha creato le condizioni perché una fetta sociale di proporzioni immense (che non è semplicemente una generazione) non avesse diritto a un reddito dignitoso, a una vecchiaia tutelata dalla pensione, ad una abitazione, a quattro spiccioli in tasca quando si è senza uno straccio di lavoro.

Se tutte queste cose sono innegabilmente vere, tanto vere da essere sostenute a gran voce anche da chi le ha generate, bisogna fare molta attenzione alle semplificazioni alle quali questi stessi processi possono essere sottoposti. Le semplificazioni sono le nemiche peggiori dei movimenti, perché obnubilano l'irriducibilità delle situazioni, dei comportamenti singolari e collettivi, delle scelte politiche della controparte.
Evitare le semplificazioni vuol dire anche situare le declinazioni neoliberali della crisi, capire come e in che forma esse mediano con la politica e come si scrive su ogni territorio la gestione autoritaria della crisi.
L'Italia, da questo punto di vista, è un caso estremamente interessante, uno di quei casi terribilmente complessi in cui le semplificazioni si pagano con il minoritarismo e con l'esclusione dai processi reali di trasformazione dell'esistente.
La domanda provocatoria e affatto scontata è semplice: l'Italia di Monti è la stessa Italia del governo Letta? Il fatto che si tratti di due governi non eletti, immersi nella più massiccia dismissione della democrazia rappresentativa, ne fa due governi assimilabili nella natura e negli intenti?
Evidentemente no. Anche se sicuramente contigui e spesso identici sono i gruppi di potere, le lobbies e le parti politiche che ne supportano e ne hanno supportato l'operato.
Il governo Monti, al tempo del suo insediamento, fu un'anomalia europea. L'unica esperienza simile ma non uguale si trovava nella Grecia a rischio default. Si potrebbe quasi azzardare che la sua costituzione fu una risposta interna della stessa borghesia imprenditoriale di questo paese, originariamente convintamente berlusconiana, stanca della bagarre di regime ed in cerca di un po' di “sano” calvinismo mittel europeo. Il governo Monti era esplicitamente il governo delle banche, della finanza, un governo con radici profonde a Francoforte, che superava a piè pari il coacervo di piccoli, piccolissimi e microscopici poteri locali, per praticare sulla popolazione italiana una cura shock, una iniezione di indiscutibile neoliberismo proposta come cura al malanno inguaribile dello spreco, della spesa pubblica fuori controllo. Una cura dai risultati drammatici.
Per due anni abbiamo assistito ad un commissariamento esplicito del governo nazionale, voluto dalle governance europee, di cui Monti stesso, insieme con Passera, facevano parte a pieno titolo. I partiti erano complici ed entusiasti di ogni riforma. Gli stessi partiti che poi però con l'apertura della campagna elettorale delle politiche hanno speso lunghi ed argomentati comizi contro quelle stesse “riforme”, votate e difese. Monti non era un tecnico, ma solo perché la tecnica non esiste. Come abbiamo detto fino alla nausea, esiste l'economia e la politica, esistono orientamenti e posizionamenti e Mario Monti stava tecnicamente con i ragazzi di Chicago e con i loro eredi, felicemente accomodati sulle poltrone dei vertici della Fed e della Golman Sachs.
Monti era la voce in perpetua difesa dell'austerità. Era l'attore principale della performance del politico/pastore che si spoglia di qualche privilegio (formale) perché il gregge indebitato e colpevole possa accettare meglio e con più convinzione la medicina/veleno che gli viene somministrata. Monti è stato il pastore, protetto da un sommo sacerdote, una figura al contrario tutta politica che ha voluto e studiato in ogni dettaglio il passaggio decisionista del governo tecnico.
Questa figura odiosa e onnipresente nella storia politica contemporanea del nostro paese è evidentemente Giorgio Napolitano e l'atteggiamento decisionista ed autoritario con cui ha alla possibilità di decisione popolare e democratica, è il sintomo evidente di una consapevole ristrutturazione in senso autoritario dei poteri dello Stato. Una ristrutturazione necessaria alla forma di governo della crisi e alla gestione dei suoi disastri collaterali. Napolitano è andato avanti per tentativi, perché neppure lungimiranti “strateghi” come lui stesso potevano riuscire ad avere una visione premonitrice e complessiva dei comportamenti sociali del paese. Il governo Monti aveva qualche inconveniente. Era il governo più impopolare della storia della Repubblica.
L'Italia non è un paese per tecnici.
La borghesia italiana è così dipendente dalle clientele, dalla corruzione e dalla mediazione con tutti i poteri (anche quelli criminali), che alle ultime politiche è tornata massicciamente a votare Berlusconi, mentre il pd arrancava in una difficile campagna dai toni antimontiani e i giovani e meno giovani votati alla disperazione si dividevano tra astensionismo e spinte anticasta grilline.
La parentesi della macchina decisionista, affezionata all'austerità e contraria pregiudizialmente ad ogni forma di mediazione e trattativa sociale, ha lasciato la scena con un consenso elettorale da far ridere, un odio sociale di dimensioni incontrollabili e un punto interrogativo enorme sulle modalità di gestione della crisi, dinanzi al complessivo e progressivo peggioramento inarrestabile delle condizioni materiali.
Monti ha lasciato la scena nello sgomento delle governance europee, terrorizzate dall'ingovernabilità, quella si reale, dei gruppi dirigenti e dei poteri locali. Le borse si sono prodigate immediatamente per dire a parole loro, quelle parole che bruciano milioni di euro in un secondo, che l'Italia doveva ritrovare una nuova reductio ad unum, un nuovo pastore, pena, ancora una volta, il default, la recessione, il baratro.
Non è importante se gli istituti finanziari, le agenzie di rating e le banche centrali mettono bocca sui processi politici interni agli stati paventando processi socialmente già in atto da tempo. La paura dell'apocalisse sociale ed economica ha purtroppo più effetto dei drammi singolari vissuti ogni giorno dalle donne e dagli uomini che abitano questo paese.
La soluzione di ultimissima generazione l'ha trovata ancora una volta il sacerdote vero, quello che dietro un mandato di eterna reverenza si è fatto rieleggere Re Sole per “occuparsi” ancora un po' delle sue pecore (suo malgrado, certo). E' così dopo la tecnica è stata la volta della grande coalizione. Tutti insieme, come se non si fosse mai stati nemici.
La grande coalizione del governo Letta che mette in piedi una vera summa di provenienze ed interessi, culture politiche e prospettive economiche, assai eterogenee. Niente di affascinante sia chiaro. Solo un panopticon in grado di non lasciare a bocca asciutta nessun centro si potere. Il giovane Letta le ha prese tutte le lezioni utili e gestire il sistema Italia, mentre il pd elegge segretario il giovane rampante, fuoriclasse e qualunquista e il centro destra si riorganizza per apparire ancora una volta un polo di lotta e di governo e spedisce il leader maximo sulle barricate della reazione, lavandosi apparentemente dalla faccia il putridume mafioso comprovato in vent'anni di governo Berlusconi. I panni sporchi non si lavano in famiglia, si bruciano, in modo che nessuno possa più trovarli.
Si delinea in pochi mesi un governo pericolosissimo perché tentacolare, terribilmente politico, futuristicamente democristiano. Un governo che in poco tempo ha ritrovato tutti i ponti recisi dal governo Monti con tutti i gruppi di potere, che hanno delle basi sociali innegabilmente radicate. Un governo protetto da tutta la stampa main stream, Un governo che non sponsorizza a gran voce l'austerità (salvo tagliare ancora la spesa pubblica), che vanta investimenti (anche se si tratta quasi sempre di pochi spiccioli elargiti nella mani sbagliate), un governo che si siede ai tavoli sindacali (senza fare passi indietro rispetto alla realtà di lavoro semi-schiavistico che ormai percorre tutto il paese), che si rammarica della disoccupazione e della crisi, ogni santo giorno. Un governo che si racconta come un opzione differente dai suoi predecessori con la calcolatrice sempre in mano.
A partire da questa evidente discontinuità, è probabilmente necessario fare alcune riflessioni.
Innanzitutto, tenendo presente che tanta della forza storica di chi ha messo in gioco la propria vita per trasformare l'esistente, veniva proprio dalla capacità di non lasciare scampo a quell'intreccio di poteri tutti italioti, complici delle peggiori ingiustizie sociali, non bisognerebbe mai abbandonare il terreno dell'analisi e dell'attenzione alle affinità inedite che la crisi produce. Non bisognerebbe lasciare mai ad altri il ruolo di denuncia pubblica ed instancabile delle connivenze tra partiti, imprenditoria, forze dell'ordine, destra eversiva, mafie che hanno delineato nei decenni passati un panorama inquietante ma verosimile. In Italia non è mai bastata le semplificazione dialettica del potere. Tra a e b c'è sempre stato un universo irriducibile di piccole forze reazionarie, tutte dedite all'accumulazione di profitto per sé e per i loro. Non basta il termine corruzione a definire il sistema-Italia da questa prospettiva. Corruzione indica la degenerazione da uno stato di normalità. Dalle nostre parti la commistione tra politica ed economia legale ed illegale, spesso riconducibile agli stessi grandi nomi altisonanti, non ha mai conosciuto altra forma che quella del clientelismo, del favoritismo e della creazione di piccoli e grandi gruppi di pressione.
L'esempio campano da questo punto di vista è emblematico: esistono prove innegabili oramai delle trame di poteri che hanno contribuito alla perpetuazione del biocidio e della devastazione ambientale. Nessuno, tra chi ha governato la regione ed i paese negli ultimi venti anni, può assolversi dalle responsabilità, dirette o indirette. Magistratura, forze dell'ordine, politica partitica a destra come a sinistra, curia e università, sono stati complici o omertosi dinanzi ad un disastro più che annunciato. Eppure quella stessa “coalizione” di responsabili, dinanzi alla rabbia del popolo campano, senza neppure prendersi l'onere delle mentite spoglie, oggi, riuniti in grosse koalition, pontificano sulla possibilità di risolvere il dramma campano, con le bonifiche, cercando interlocutori sui territori, mediatori, gente con cui si può trattare, gente abituata al compromesso. E per farlo non si pone neppure il problema di liberarsi di quei nomi scomodi del Pd e del PdL campani, le cui responsabilità e compromissioni sono evidentemente innegabili.
E' un esempio tra tanti, che racconta uno stile di governo e gestione dei movimenti sociali.
Questa strana area territoriale chiamata Italia, fatta di storie e racconti diversi, ha bisogno di essere trattata con cautela, per non rischiare di ricorrere una narrazione che si articola sulle nostre teste, mentre sotto le scarpe il terreno frana inesorabilmente.
Dardot e Laval ne “La ragione del mondo”, descrivo il neoliberismo come una tecnologia di governo incastrata nella storia del potere, che non va liquidata troppo semplicisticamente con l'adesione al laissez-faire e alla smania di liquidazione dello Stato. Il neoliberismo è sempre caratterizzato da una razionalità politica coerente che si salda strutturalmente con l'azione dei governi al fine di controllare la condotta dei governati. Ecco perché stare con gli occhi ben piantati sull'azione dei governi stessi e sulla costruzione dei gruppi dirigenti ci dice qualcosa di importante anche su come ci si rivolta ad essi.
Il governo con cui facciamo i conti oggi è un governo che ambisce alla pacificazione sociale attraverso una strategia tipicamente democristiana, una strategia inedita dall'inizio della crisi. Crea ponti e contatti con interlocutori territoriali, sindacati, rappresentati più o meno influenti della categorie che pagano la crisi. Utilizza uno schema evidentemente vetusto ed inefficace perché tutto fondato sulla rappresentanza, in un una fase storica in cui la rappresentanza, non solo politica, vive una crisi irreversibile. Ovunque c'è la possibilità di formalizzare un legame, una forma di mediazione, il governo Latta con i suoi ministri dal volto “magnanimo” arrivano, promettono, elargiscono (sempre pochi spiccioli, ma si sa, il gesto vale sempre più del contenuto in politica).
Questa modalità di governo tentacolare in Italia ha sempre avuto la sua buona dose di efficacia. Non è un caso che i movimenti radicali hanno dovuto guardarsi costanetmente da ogni rapporto con la sinistra istituzionale (sindacale e partitica) sempre invischiata in qualche brutta storia, in qualche insopportabile compromesso.
La crisi e il decisionismo arrogante ed autoritario, prima del Governo Berlusconi e poi del Governo Monti avevano lasciato tanti naufraghi in cerca di ponti per creare coalizioni contro l'austerità e contro la crisi. I movimenti ci sono stati, perchè quello schema d'alleanze tra diversi portava buoni frutti in tutta Europa e perchè bisognava essere in tanti e potenti contro il nemico neoliberale. Bisognava partire tutti dall'idea che il mondo si stava trasformando n modo drammatico e che questa trasformazione non poteva esimersi dal trasformare e stravolgere gli schemi dei vecchi contenitori.
Invece, quello che è accaduto è che partiti e sindacati sedicenti di sinistra sono rimasti fermi, mentre attorno alle loro macerie si abbatteva un tornado. Non si sono aperti, colpevolmente, dibattiti sulle forme della sindacalizzazione del lavoro precario ed insubordinato, non è nato un vero e proprio dibattito maggioritario sul reddito di cittadinanza. E oggi, tornata da dc, nella sua forma poliglotta e un po' yuppie, sembrano tutti infila per sedere ad uno dei tanti tavoli, per ricevere una delle tante promesse.
Intanto però le condizioni materiali parlano più forte della storia politica italiana e dei suoi goffi ricorsi. Le povertà aumenta, il lavoro manca, il welfare non esiste. Si apre lo scenario per l'emersione di voci reazionarie, identitarie e razziste. C'è confusione, soprattutto nelle fila della disperazione sociale, perché la solitudine e la rabbia accolgono molto più facilmente le pulsioni distruttive, che le spinte solidali tra chi vive la stessa condizione.
E' in questo quadro che la sfida dei movimenti si fa complessa ed ambiziosa.
Essere altro, sempre altro, sempre fuori dai tentacoli della mediazione. Essere altro perchè questo paese non muoia democristiano. Essere altro ma per non essere residualità, minoranza della minoranza, voce che si autorappresenta e che si nutre delle proprie innumerevoli risorse soggettive. Essere altro per essere più della pochezza della grida isteriche che hanno animato mestamente le piazza dei forconi. Essere altro per accogliere una sfida che forse oggi viene dall'Europa e che deve spingerci verso il mare aperto. Essere altro, utilizzare al meglio le parole, dare un peso ai radicamenti territoriali del potere, recuperando la storia delle proprie trasformazioni, riconoscendosi in essa, continuando a costruire preziose isole di autonomia che siano però officine spregiudicate per saldare i ponti relazionali più solidi che servono a praticare un mondo più giusto.

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