Analizzando la svolta liberista delle socialdemocrazie europee, Luciano Gallino1
parla di “cattura cognitiva”, riferendosi alla doppia capitolazione
delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio di fronte alla
controrivoluzione neoliberista: mancata opposizione agli attacchi del
nemico di classe e sostanziale accettazione dei suoi paradigmi teorici
(Gramsci avrebbe parlato di egemonia e di rivoluzione passiva). In un
testo recente2,
ho tentato di dimostrare come il processo di cattura cognitiva sia
andato ben oltre i confini della socialdemocrazia, coinvolgendo anche la
cultura dei movimenti e delle sinistre radicali.
kainos-portale.com Carlo Formenti
La breccia che ha
consentito lo “sfondamento” del fronte ideologico anticapitalista è
stata la rinuncia a descrivere il conflitto sociale in termini di lotta
di classe. Nel testo citato nella nota precedente, ho messo al centro
della mia analisi critica: 1) i “nuovi movimenti” che, dall’inizio degli
anni Ottanta, hanno progressivamente spostato l’asse dei conflitti
sociali verso le contraddizioni di genere, le tematiche ambientali e la
lotta per l’estensione dei diritti individuali nel quadro della
“democrazia reale” (con estrema approssimazione, si potrebbe parlare di
uno slittamento dalla lotta per l‘uguaglianza socioeconomica alla lotta
per il riconoscimento delle differenze culturali); 2) la lunga deriva
del pensiero post-operaista, a sua volta in progressivo allontanamento
dal concetto di classe. In questa sede mi occuperò esclusivamente di
questo secondo bersaglio polemico, concentrando l’attenzione su un testo
di Maurizio Lazzarato3 che ho potuto leggere solo successivamente alla pubblicazione del mio ultimo libro.
La mia critica di fondo – attorno alla quale ruotano tutte le altre – a
Negri e allievi riguarda l’incapacità di prendere atto della natura
storicamente determinata – e dunque contingente – del paradigma teorico
fondato sulla figura dell’operaio massa. Dopo la destrutturazione della
fabbrica fordista, che ha annientato la forza contrattuale della classe
operaia occidentale, la tradizione inaugurata dai Quaderni Rossi si
è avvitata nella nostalgica ricerca di nuovi soggetti in grado di
incarnare il dogma secondo cui sarebbero sempre i comportamenti del
lavoro a determinare il corso dello sviluppo capitalistico. Il glossario
neo/post operaista si è così arricchito di una serie di categorie –
operaio sociale, moltitudini, ecc. – nello sforzo di mantenere in vita
il mito dell’autonomia delle classi subalterne, proprio mentre la
«guerra di classe dall’alto»4
andava distruggendo l’uno dopo l’altro tutti gli spazi di autonomia
reale. Gli ultimi anelli di questa catena di illusioni sono stati i
lavoratori della conoscenza e i lavoratori autonomi di seconda
generazione, descritti, rispettivamente, i primi come nuova avanguardia
in grado di incarnare il punto più alto della contraddizione fra forze
produttive e rapporti di produzione, i secondi come pionieri di un
“esodo” consapevole e spontaneo dalla condizione di lavoratore
dipendente. Illusioni frustrate dalla doppia crisi della “nuova
economia” digitale (2001) e dei suprime (2007) che ha fatto
strame delle velleità di leadership economica e culturale delle “classi
creative” e ha evidenziato il carattere eteronomo dei processi di
fuoruscita dal lavoro dipendente. La dura lezione della crisi avrebbe
potuto e dovuto suggerire una riflessione autocritica: occorreva tornare
a ragionare sulla relazione fra conflitto sociale e composizione di
classe (allargando necessariamente il campo di analisi al sistema
mondo), ma soprattutto sarebbe stato necessario rispolverare la
“cassetta degli attrezzi” marxista (sia pure con le ovvie esigenze di
aggiornamento e rinnovamento), accantonando le suggestioni post
strutturaliste che hanno ispirato il pensiero tardo operaista. Non è
successo e benché lo scossone, come conferma il lavoro di Lazzarato sul
quale concentrerò l’attenzione da qui in avanti, qualche effetto lo
abbia prodotto, la deriva prosegue, continuando a generare i suoi
involontari effetti di cattura cognitiva da parte del campo ideologico
avversario.
L’analisi della crisi da cui prende le mosse l’argomentazione di
Lazzarato è ormai condivisa dalla maggioranza delle sinistre radicali,
non solo da quelle di tendenza post operaista; tale analisi si basa su
due assunti di fondo: 1) per il nuovo modello di accumulazione
capitalistica la crisi non rappresenta più un’eccezione bensì la norma;
2) tutte le chiacchiere in merito alla necessità di mettere mano alle
regole (o meglio, di reintrodurre regole che da tempo non esistono più)
di funzionamento del sistema finanziario sono, appunto, chiacchiere, dal
momento che oggi ciò significherebbe mettere in discussione il
capitalismo stesso. Si potrebbe dire che il primo assunto si limita a
riproporre una tesi che la marxiana critica dell’economia politica aveva
avanzato già più di un secolo e mezzo fa: le crisi non sono incidenti
dell’economia capitalistica ma ne rappresentano il normale meccanismo di
funzionamento. La novità consiste nel fatto che, nella attuale fase del
capitalismo finanziarizzato e globalizzato, la crisi tende ad assumere
un carattere che va al di là dell’evento ciclico: sia perché la
volatilità diventa, a mano a mano che i mercati finanziari si rendono
autonomi dai mercati industriali, uno stato permanente, sia, o meglio
soprattutto, perché la crisi è oggi il principale strumento di governo
delle classi subordinate. Una volta accettato il primo assunto, il
secondo ne discende come un corollario: quanto più l’accumulazione
assume carattere finanziario, tanto più il sistema tende a divenire
irriformabile, per cui i sogni di un nuovo New Deal sono destinati a
rimanere tali.
Non meno condivisibile suona la critica che Lazzarato avanza, proprio a
partire dalla diagnosi sulla natura della crisi, nei confronti del
concetto foucaultiano di governamentalità. Il regime dell’austerità
comporta infatti, tanto a livello di un potere politico che prescinde
ormai dalle tradizionali forme di ricerca del consenso, sia a livello di
un potere aziendale che, accantonati i miti “orizzontalisti” degli anni
Novanta, regredisce verso forme di accentramento gerarchico, il ricorso
a tecniche di imposizione, divieto, norma, direzione, comando, ordine e
normalizzazione (l’elenco è di Lazzarato). Ancora più clamoroso appare
il fallimento del progetto ideologico di sostituire – attraverso la
categoria del “capitale culturale” – la figura del lavoratore salariato
con quella dell’imprenditore di sé. Il fallimento non si riferisce tanto
allo sforzo di cattura cognitiva delle classi subalterne da parte del
potere politico ed economico, che non subisce alcuna interruzione (basti
pensare alle ossessive celebrazioni mediatiche delle virtù
taumaturgiche di auto-imprenditoria, startup, ecc.), quanto
alla delegittimazione di tutti quei discorsi che, “da sinistra”
contribuivano ad alimentare analoghe illusioni (capitalismo molecolare,
lavoro autonomo di seconda generazione, ecc.), attribuendo una patente
di “ambiguità” ai processi di privatizzazione/individualizzazione
finalizzati a smembrare il corpo di classe. Purtroppo Lazzarato non
sviluppa queste intuizioni in una critica coerente e radicale del
paradigma teorico che sostanzia il concetto di governamentalità; al
contrario, il suo discorso resta saldamente ancorato al pensiero post
strutturalista di Foucault, Deleuze e Guattari, finendo in questo modo
per dare a sua volta il proprio contributo alla cattura cognitiva. Per
dimostrarlo, prenderò in considerazione alcuni nodi tematici del suo
discorso: la condizione dell’indebitato come nuovo criterio
dell’appartenenza di classe; il capitalismo come macchina astratta e la
distinzione fra capitale e capitalismo; il rapporto fra stato e
capitale; la tesi della natura ciclica dell’accumulazione originaria; la
tesi secondo cui il capitale non avrebbe più limiti esterni; la
riproposizione della categoria del rifiuto del lavoro.
Partiamo
dal tema del debito. L’indebitamento come tecnica di assoggettamento
delle classi subordinate non è una novità storica, anche se è indubbio
che il peso del debito nei meccanismi dell’attuale crisi finanziaria –
sia in quanto debito privato (basti pensare alla bolla del debito
immobiliare scoppiata nel 2007 e a quella del debito studentesco
destinata a scoppiare nei prossimi anni), che in quanto debito pubblico –
sia decisivo; ma basta questo per affermare che la divisione di classe
non è più fra capitalisti e salariati ma fra debitori e creditori?
Personalmente penso che si tratti di un’assurdità, come ho già
argomentato a proposito di analoghe tesi avanzate da Antonio Negri e
Michael Hardt5.
L’ipertrofia del debito privato nasce: 1) dall’onda lunga della
compressione dei salari, a sua volta provocata dall’esigenza
capitalistica di recuperare i margini di profitto erosi dalla crisi e
dalle lotte operaie degli anni Settanta, 2) dalla necessità di sostenere
i consumi falcidiati dai tagli salariali. Invece Lazzarato rovescia la
relazione causa effetto: non si costruisce un’economia del debito per
ovviare agli effetti dei bassi salari ma si abbassano i salari per
costruire un’economia del debito. È grazie a questa inversione
prospettica che si arriva ad affermare che la divisione di classe non è
più fra capitalisti e salariati bensì fra debitori e creditori, mettendo
in secondo piano la lotta di classe dall’alto che ha massacrato i
salari (il rifiuto del lavoro salariato, inteso come tendenziale
riduzione a zero del livello salariale, è oggi la parola d’ordine dei
capitalisti piuttosto che quella dei proletari i quali, ridotti a working poor appaiono
costretti a pietire un lavoro qualsiasi in cambio di salari di fame).
Lazzarato arriva addirittura ad affermare che «gli operai non
rappresentano più una classe politica e non la rappresenteranno mai
più». Si tratta di una tesi quanto meno bizzarra, ove si consideri che
la classe operaia non è mai stata tanto numerosa a livello mondiale, e
che nei Paesi in via di sviluppo le sue lotte sono in continua crescita.
Ma soprattutto si tratta di abdicazione di fronte alla sfida teorica di
analizzare le mutazioni di una classe operaia occidentale che, mentre
“dimagrisce” nelle forme classiche del proletariato industriale,
prolifera sotto forma di una galassia di soggetti (disoccupati e
sottoccupati, working poor, migranti, lavoratori del terziario
arretrato, precari, ecc.) che sta a sua volta iniziando a organizzarsi e
a lottare (basti pensare alle mobilitazioni del 18 e 19 ottobre 2013 a
Roma e alle lotte dei lavoratori americani delle grandi catene
commerciali).
Tuttavia
Lazzarato, esponente di quella curiosa genia di “operaisti senza
operai” in cui si sono trasformati lui e i suoi compagni di strada, non
può riconoscere l’identità di classe di questi soggetti perché,
intrappolato com’è nel paradigma foucaultiano, deve fondare i rapporti
sociali sulla genealogia delle tecniche di controllo, piuttosto che sui
rapporti di sfruttamento socioeconomico. Per questo descrive la
relazione fra debitori e creditori come un dispositivo che induce i
primi a interiorizzare le relazioni di potere a partire dal debito
vissuto come colpa. Tesi che si accompagna a una riflessione critica nei
confronti delle teorie psicoanalitiche e antropologiche che riconducono
il debito al peccato originale, laddove esso sarebbe piuttosto «il
prodotto delle società gerarchizzate, statalizzate, monoteiste», si
tratterebbe, dunque, di una dimensione artificialmente indotta dalle
tecniche di dominio politico. Sarebbe agevole dimostrare come
l’unificazione sotto un’unica categoria di tutte le forme storiche di
dominio sopra elencate non regga: nel corso del tempo il debito ha
assunto forme diversissime, affondando le radici in dimensioni
socioculturali che spesso esulavano dalla sfera politica, la quale, in
ogni caso, se ne è servita con le modalità più diverse. Preferisco
tuttavia richiamare l’attenzione su un altro aspetto, evidenziato da
Federico Chicchi in una recensione6
– peraltro assai elogiativa – del lavoro di Lazzarato: oggi la
psicanalisi – perlomeno quella di scuola lacaniana – non richiama
affatto l’attenzione sulla colpa bensì su un altro, più potente, motore
inconscio che alimenta l’indebitamento, vale a dire su quella
“ingiunzione al godimento” senza limiti (jouissance) che rappresenta il punto di intersezione fra culture “desideranti” e consumismo7.
Passiamo
ora alla distinzione fra capitale e capitalismo. «Il capitale non
conosce né uomo, né donna, né sesso, né genere, né corpo, né razza: nei
flussi di denaro de territorializzati non ci sono soggetti, oggetti,
individuo, collettivi, professioni, mestieri, e nemmeno linguaggi,
immagini, discorsi o classi». Partendo da questa asserzione di Lazzarato
ci si potrebbe aspettare l’avvio di una riflessione convergente con le
mie critiche8
nei confronti dei movimenti che attribuiscono alle differenze di
genere, etnia, ecc. valenza antagonistica, non solo nei confronti del
patriarcato e altre forme di dominio/oppressione, ma anche del
capitalismo – illusioni ideologiche smentite dal fatto che il
capitalismo si è rivelato capace di integrare questi conflitti nei suoi
meccanismi di accumulazione, trasformando le domande di riconoscimento
identitario in altrettanti bisogni da soddisfare attraverso il mercato.
Ma Lazzarato non può imboccare tale direzione perché il concetto di
capitale cui si riferisce non è quello di Marx, bensì quello elaborato
dalla coppia Deleuze-Guattari. Partendo dal pensiero di questi due
autori, egli distingue infatti fra capitale e capitalismo: il primo
coincide con la deleuziana “macchina astratta”, il secondo, anzi i
secondi essendo qui il plurale d’obbligo, sono i capitalismi reali,
“incarnati” nelle differenti forme concrete che hanno assunto nei
differenti contesti nazionali, culturali, istituzionali, ecc. E qui è
d’obbligo aprire una parentesi epistemologica. A uno sguardo
superficiale, potrebbe sembrare che il capitale descritto da Marx sia a
sua volta una macchina astratta. Come spiegare altrimenti il fatto che
molte delle sue “leggi” trascendono le contingenze empiriche e
funzionano tuttora, pur in un contesto storico radicalmente mutato? Ma
le cose non stanno affatto così: il capitale descritto da Marx è una
“astrazione concreta”, non è, cioè, né un “idealtipo” weberiano, né una
“struttura” (con buona pace di Althusser e discepoli), è piuttosto una
descrizione semplificata della realtà storica del capitalismo
industriale del XIX secolo, e se molti elementi di tale descrizione
hanno ancora senso oggi, ciò non dipende dalla bontà del “modello”,
bensì dalla capacità di durare nel tempo di alcuni elementi di quel
concreto modo di produzione. Una continuità che si riferisce, in primo
luogo, al conflitto di classe, cioè alla categoria fondante di un
pensiero che non andava in cerca di “leggi” (preoccupazione che lasciava
volentieri agli economisti borghesi) ma si poneva come critica
dell’economia politica, come pensiero-azione del tutto interno alla
lotta di classe. La marxiana “ontologia dell’essere sociale”, come ha
ben compreso Gyorgy Lukacs9,
non conosce distinzione fra struttura e sovrastruttura (un’opposizione
inventata da epigoni maldestri) ma coglie i rapporti sociali nella loro
concreta unità storica, senza disconoscere la reciproca autonomia delle
loro articolazioni economiche, culturali e politiche.
Torniamo
ora a Lazzarato/Deleuze. Nemmeno nel suo caso la macchina astratta è un
“modello” nel senso weberiano del termine, visto che rispecchia
piuttosto il concetto di struttura che sta alla base di tutto il recente
pensiero filosofico transalpino. La struttura è qualcosa di
assolutamente reale (in un senso non molto diverso da quello in cui sono
reali le idee della filosofia classica) che tuttavia, per manifestare
la propria realtà, deve “incarnarsi”. Ecco perché la macchina
capitalistica astratta (che Lazzarato descrive anche come «un operatore
semiotico incluso nell’infrastruttura») necessita di un processo di
“personificazione”. Anche qui siamo dunque in presenza di una tensione
verso l’immanenza, che tuttavia, a differenza dell’immanenza marxiana,
non è originaria, costituiva dell’unità del reale, bensì derivata. Se
partiamo dalla macchina non troviamo soggetti concreti10
ma solo relazioni astratte che, come abbiamo appena visto, devono
essere “personificate”. Questo compito spetterebbe, secondo Lazzarato,
allo Stato: è lo Stato a produrre letteralmente dal nulla tutti i
soggetti che le incarnano. In sostanza, ci troviamo di fronte
all’intersezione fra l’anti-statalismo ideologico della tradizione
operaista (sempre più vicina alla tradizione anarchica) e il pensiero
genealogico di Foucault, che ricostruisce la storia di tutte le forme
moderne della soggettività come “produzioni” del potere. La promettente
riflessione critica di Lazzarato sui limiti del concetto di
governamentalità (vedi sopra) va così a farsi benedire, riassorbita da
questa idea di una potenza produttiva in grado di “plasmare” i soggetti.
Da
dove viene questa potenza? La domanda si fa impellente laddove
Lazzarato ripropone una tesi che è patrimonio di tutta la tradizione
marxista rivoluzionaria, quando afferma cioè che il capitalismo non è
mai stato liberale, ma è sempre stato capitalismo di stato, nel senso
che a garantire il funzionamento della smithiana “mano invisibile” non
sono gli automatismi del mercato, bensì gli effetti di una “vittoria
politica” che sta a monte del mercato . Giusto, ma la vittoria politica
di chi su chi? O si ritorna alla buona immanenza marxiana, vale a dire
al concetto dello stato come comitato di affari della borghesia (che
oggi la simbiosi fra lobby finanziarie e caste politiche rende più
attuale che mai), o ci si smarrisce nella cattiva immanenza
foucaultiano-deleuziana, che neutralizza la soggettività antagonista
ingabbiandola fra la macchina astratta del capitale e la potenza
produttiva del potere. Una volta imboccata la seconda strada, quali sono
i soggetti antagonisti? Gli indebitati? Difficile, visto che lo stesso
Lazzarato ammette che faticano a esteriorizzare il conflitto
proiettandolo su un nemico di classe. I lavoratori autonomi? Ancora più
improbabile, visto che sono gli stessi cantori del Quinto Stato e dei
lavoratori autonomi di seconda generazione i primi a riconoscere
l’individualizzazione e la totale assenza di consapevolezza politica di
questo strato sociale11?
I “cognitari”? Purtroppo quella che negli anni Novanta veniva salutata
come la nuova classe emergente, alla fine del primo decennio del XXI
secolo non esiste letteralmente più: una esigua minoranza è stata
cooptata nelle stanze dei bottoni delle multinazionali hi tech, gli altri sono sprofondati nell’inferno della sottoccupazione e dei working poor.
E allora? La risposta di Lazzarato, come chiarisce Federico Chicchi
nella già citata recensione, si fonda su tre “classiche” categorie
neo/post operaiste: bioproduzione, moltitudini, rifiuto del lavoro.
Parlare
oggi di rifiuto del lavoro salariato suona quanto meno bizzarro, dal
momento che, come ricordavo in precedenza, a praticarlo assai più dei
proletari sono i capitalisti, i quali nei paesi ricchi (ex ricchi, per
la maggioranza della popolazione) offrono sempre meno lavoro retribuito
(se e quando lo offrono, si tratta di lavoro sotto retribuito, precario
saltuario e, non di rado, gratuito), mentre nei Paesi in via di sviluppo
ne offrono tantissimo creando una enorme massa di nuovi operai che il
lavoro non lo rifiutano ma, semmai, lottano per strappare salari più
elevati, riduzioni di orario e ritmi produttivi accettabili. Ma non è a
questo lavoro che si riferisce Lazzarato, il quale pensa piuttosto al
concetto di bioproduzione elaborato da Antonio Negri e Michael Hardt,
pensa cioè alla tesi secondo cui, grazie ai processi di digitalizzazione
e finanziarizzazione, il capitalismo è oggi in grado di mettere al
lavoro la vita stessa, di appropriarsi dell’intero universo delle
relazioni sociali e di tutto il tempo vita, che divengono materia prima
dei nuovi processi di valorizzazione. Chi scrive, pur non utilizzando il
concetto di bioproduzione, ha sviluppato idee analoghe analizzando i
meccanismi di funzionamento del capitalismo digitale, la sua capacità di
appropriarsi dei saperi, delle conoscenze, delle relazioni sociali e
delle emozioni dei prosumer interconnessi in Rete12.
La differenza è che il sottoscritto non ha mai scambiato la parte per
il tutto, le tendenze per la realtà assoluta: il capitalismo digitale
non è il capitalismo tout court e non sopravvivrebbe un secondo senza l’enorme mole di attività produttive che si svolgono al difuori
della sua sfera di azione e di dominio. I post operaisti, che al
contrario eleggono la tendenza a realtà assoluta, sono costretti a
difendere il dogma secondo cui oggi non esisterebbe più alcun fuori dal
capitalismo, in palese e stridente contrasto con l’altra loro
asserzione, assai più sensata e condivisibile, la quale afferma che
l’accumulazione primitiva non è un processo che si è svolto una volta
per tutte nella fase aurorale del capitalismo ma si ripete ciclicamente,
dal momento che il capitalismo non può evolversi senza condurre
periodiche campagne di appropriazione di risorse, energie, culture,
conoscenze, soggettività, relazioni, ecc. che stanno appunto “fuori”
(sia dal punto di vista territoriale, sia in quanto irriducibile
“scarto” di relazioni e attività extra mercato presenti all’interno dei
suoi stessi confini). Si tratta di una verità ben nota a Rosa Luxemburg,
che l’aveva meglio compresa di Lenin e dello stesso Marx – verità che
smaschera l’assurdità dell’idea un “capitalismo infinito”, senza limiti
né confini. Del resto, se non esistesse un fuori il capitalismo sarebbe
già morto o agonizzante, il che, secondo lo sfrenato ottimismo
post-operaista, è appunto quanto sta avvenendo perché, se davvero non
c’è più fuori, la contraddizione non è più quella fra capitale e lavoro
bensì quella fra capitale e vita: «Oggi il rifiuto del lavoro, chiosa
Chicchi commentando le tesi di Lazzarato, mette in discussione più
profondamente il capitale di quanto non abbia fatto il rifiuto operaio,
perché riguarda la società nel suo insieme e la soggettività in tutte le
sue dimensioni, ciò che è in gioco è l’antropologia della modernità».
Pensiero stupendo ma vuoto, dato che la «soggettività in tutte le sue
dimensioni», privata di ogni connotato di classe, non è un soggetto
antagonista ma una assurda astrazione. Un’astrazione che, ricondotta con
i piedi per terra, non si incarna nelle nuove forme di lotta del
proletariato globale cui accennavo in precedenza, bensì nel volto
rabbioso delle classi medie impoverite: populismi cinquestellari,
forconi e dintorni.
Note al testo
1Vedi, fra gli altri testi in cui Gallino usa tale definizione, Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino 2013.
6Cfr. l’articolo di F. Chicchi sul sito di “Alfabeta2”, consultabile all’indirizzo: http://www.alfabeta2.it/2013/12/15/il-governo-delluomo-indebitato
7A tale proposito cfr. M. Fiumanò, L’inconscio è il sociale. Desiderio e godimento nella contemporaneità, Bruno Mondadori, Milano 2010.
10Notiamo,
per inciso, che a sparire non sono solo gli operai ma anche i
capitalisti: non ci sbarazza solo della fatica di analizzare la
mutazione della composizione del proletariato mondiale, ma anche dello
sforzo, di cui si sono fatti carico autori come Gallino (vedi note
precedenti), di dare volto, nome e cognome ai membri della nuove élite
che governano il mondo.
11Cfr. in proposito, G. Allegri, R. Ciccarelli, la furia dei cervelli, manifestolibri, Roma 2011 e S. Bologna, D. Banfi, Vita da freelance, Feltrinelli, Milano 2011.
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