L’Uruguay è il paese dell’anno per l ’Economist, con un presidente “singolare”: o forse è il paese dove una generazione di rivoluzionari ora al governo sta provando a modificare lo stato di cose presenti a colpi di democrazia e diritti.
30 / 12 / 2013
L’Uruguay ha legalizzato i matrimoni
gay, l’uso della marijuana venduta e prodotta dallo Stato e
l’utilizzo del software libero nell’amministrazione pubblica. Una
rivoluzione politica, sociale ed economica a colpi di diritti e
democrazia che passa per il suo presidente Josè Mujica e una classe
dirigente in gran parte legata all’esperienza politico/militante
dei Tupamaros.
“O ballano tutti o non balla nessuno”
era lo slogan dei Tupamaros formazione rivoluzionaria armata
costituita nei primi anni sessanta in Uruguay che da subito si
caratterizzò per la radicalità delle sue azioni come le rapine alle
banche, l'attacco ai circoli della destra paramilitare, alle attività
imprenditoriali ed i sequestri di persona a cui seguiva la
distribuzione ai poveri nelle città e nelle campagne del cibo e dei soldi raccolti
da queste azioni.
Il loro motto era anche "Il mondo
ci divide; l'azione ci unisce" e l'esperienza dei Tupamaros è da sempre riconosciuta come
il prototipo internazionale delle formazioni armate e guerrigliere
urbane, sopratutto in Europa. I Tupamaros furono duramente criticati
dalla sinistra comunista ufficiale per i metodi di organizzazione e
pratica politica, autonoma e armata, non ortodossa ai dettami della forma
partito soprattutto quando tra il 1969 e 1971 fecero ricorso al
Cárcel del Pueblo (ossia Carcere del Popolo) in cui tennero
prigionieri quanti erano stati sequestrati, sottoponendoli a
interrogatori, senza tuttavia ricorrere alla tortura, prima di
renderene di pubblico dominio i risultati.
Arrivati a contare fino a diecimila militanti, dopo una fuga dal carcere in più
di 100, i Tupamaros furono il primo movimento politico e l’Uruguay
il paese del Latino America a subire gli effetti dell’Operazione
Condor; squadroni della morte, carcere brutale, torture e omicidio
dei dissidenti politici. Dalla fine della dittatura quando furono
scarcerati e dopo una lunga battaglia per l’amnistia molti dei
dirigenti e militanti dei Tupamaros sono tornati alla politica
attiva.
Eletti in parlamento dopo aver
rivestito incarichi istituzionali di vario titolo alla vittoria
elettorale del Frente Amplio il 31 ottobre 2004, due militanti dei
Tupamaros, José Mujica e Nora Castro, sono diventati presidenti
delle due Camere che compongono il Parlamento. Il 30 novembre 2009
José Mujica è stato eletto presidente dell'Uruguay. Ed è ricominciato il tempo dell'azione.
Ex guerrigliero tupamaro, 78 anni,
"Pepe" Mujica è diventato molto famoso fuori dal suo paese
quando la rivista londinese "Monocle" lo ha definito "il
miglior presidente del mondo" e ora l’Economist, sempre
inglese ha eletto l’Uruguay paese simbolo del 2013. Per "Le
Monde" è diventato "il presidente più povero del mondo",
mentre "El Paìs" lo descrive come leader di un nuovo
"radicalismo a bassa intensità", opposto e lontano, in
America Latina, dal populismo alla Chávez e dalla demagogia
Kirchner.
Appena eletto Mujica ha rifiutato la
residenza presidenziale e continua a vivere, insieme alla moglie, la
senatrice Lucia Topolansky, in una piccola fattoria alla periferia di
Montevideo dove si dedica all'orto e alla coltivazione di fiori. Non
usa Twitter, non ha email e neppure un conto in banca. Vive con il 10
percento del suo stipendio da presidente, circa mille euro dei
diecimila che riceve, visto che il 90 percento lo versa ad
associazioni di promozione sociale.
Nelle interviste ricorda sempre quale è
stato il suo percorso politico. Fu uno dei famosi "nove ostaggi"
durante la dittatura, definiti così perché i militari dichiararono
che li avrebbero fucilati se i guerriglieri Tupamaros ancora in
libertà avessero commesso attentati ed è stato rinchiuso in carcere
quattordici anni. Fu un'epoca terribile - ricorda Mujica - trascorsa
nel più totale isolamento. Poi la libertà e il nuovo impegno politico, perchè come ha ricordato
all’approvazione della legge sulla depenalizzazione della marijuana
“ la libertà comporta dei rischi ma chi crede in essa deve essere
disposto a correrli”.
Un’affermazione che richiama la
storia di una generazione che non si è arresa e che ha saputo
mantenere e modificare la propria idea di trasformazione
dell’esistente rispetto alla materialità e alle possibilità del
presente.
L’Uruguay non è il paese di un vecchio presidente ex
rivoluzionario, pauperista ed eccentrico che si presenta alle
conferenze stampa in sandali e camicia: è la dimostrazione di una
pratica differente frutto di un analisi delle dinamiche del mondo reale che apre al possibile e non solo nelle
politiche sulle droghe e i diritti civili e non solo per l'Uruguay.
Come ha sottolineato anche lo scrittore
Vargas LLosa è un esempio che si caratterizza anche e soprattutto
per il vissuto personale dei suoi protagonisti che non si sono
rassegnati a rappresentare solo il mito di una pratica rivoluzionaria
ma sono disposti ancora a correre ogni rischio necessario; perché la
libertà è tutto.
* * *
Riportiamo il testo dell’articolo
dello scrittore Vargas Llosa pubblicato sul ElPais del 29/12/13 e dedicato all'Uruguay:
El ejemplo uruguayo
La libertad tiene sus riesgos y quien
cree en ella debe estar dispuesto a correrlos. Así lo ha entendido
el Gobierno de José Mujica al legalizar la marihuana y el matrimonio
gay. Y hay que aplaudirlo
Ha hecho bien The Economist en declarar
a Uruguay el país del año y en calificar de admirables las dos
reformas liberales más radicales tomadas en 2013 por el Gobierno del
presidente José Mujica: el matrimonio gay y la legalización y
regulación de la producción, la venta y el consumo de la marihuana.
Es extraordinario que ambas medidas,
inspiradas en la cultura de la libertad, hayan sido adoptadas por el
Gobierno de un movimiento que en su origen no creía en la democracia
sino en la revolución marxista leninista y el modelo cubano de
autoritarismo vertical y de partido único. Desde que subió al
poder, el presidente José Mujica, que en su juventud fue guerrillero
tupamaro, asaltó bancos y pasó muchos años en la cárcel, donde
fue torturado durante la dictadura militar, ha respetado
escrupulosamente las instituciones democráticas —la libertad de
prensa, la independencia de poderes, la coexistencia de partidos
políticos y las elecciones libres— así como la economía de
mercado, la propiedad privada y alentado la inversión extranjera.
Esta política del anciano y simpático estadista que habla con una
sinceridad insólita en un gobernante, aunque ello le signifique
meter la pata de cuando en cuando, vive muy modestamente en su
pequeña chacra de las afueras de Montevideo y viaja siempre en
segunda clase en sus viajes oficiales, ha dado a Uruguay una imagen
de país estable, moderno, libre y seguro, lo que le ha permitido
crecer económicamente y avanzar en la justicia social al mismo
tiempo que extendía los beneficios de la libertad en todos los
campos, venciendo las presiones de una minoría recalcitrante de la
alianza.
Hay que recordar que Uruguay, a
diferencia de la mayor parte de los países latinoamericanos, tiene
una antigua y sólida tradición democrática, al extremo de que,
cuando yo era niño, se llamaba al país oriental “la Suiza de
América” por la fuerza de su sociedad civil, el arraigo de la
legalidad y unas Fuerzas Armadas respetuosas de los gobiernos
constitucionales. Además, sobre todo después de las reformas del
batllismo, que reforzaron el laicismo y desarrollaron una poderosa
clase media, la sociedad uruguaya tenía una educación de primer
nivel, una muy rica vida cultural y un civismo equilibrado y
armonioso que era la envidia de todo el continente.
Yo recuerdo la impresión que
significó para mí conocer Uruguay hacia mediados de los años
sesenta. No parecía uno de los nuestros ese país donde las
diferencias económicas y sociales eran mucho menos descarnadas y
extremas que en el resto de América Latina y en el que la calidad de
la prensa escrita y radial, sus teatros, sus librerías, el alto
nivel del debate político, su vida universitaria, sus artistas y
escritores —sobre todo, el puñado de críticos y la influencia que
ejercían en los gustos del gran público— y la irrestricta
libertad que se respiraba por doquier lo acercaban mucho más a los
más avanzados países europeos que a sus vecinos. Allí descubrí el
semanario Marcha, una de las mejores revistas que he conocido, y que
se convirtió para mí desde entonces en una lectura obligatoria para
estar al tanto de lo que ocurría en toda América Latina.
Esta política del anciano estadista
ha dado a Uruguay una imagen de país estable, moderno, libre y
seguro
Sin embargo, ya en aquel tiempo había
comenzado a deteriorarse esa sociedad que daba al forastero la
impresión de estar alejándose cada vez más del tercer mundo y
acercándose cada vez más al primero. Porque, pese a todo lo bueno
que allí ocurría, muchos jóvenes, y algunos no tan jóvenes,
sucumbían a la fascinación de la utopía revolucionaria e
iniciaban, según el modelo cubano, las acciones violentas que
destruirían aquella “democracia burguesa” para reemplazarla no
por el paraíso socialista sino por una dictadura militar de derecha
que llenó las cárceles de presos políticos, practicó la tortura y
obligó a exiliarse a muchos miles de uruguayos. El drenaje de
talento y de sus mejores profesionales, artistas e intelectuales que
padeció el Uruguay en aquellos años fue proporcionalmente uno de
los más críticos que haya vivido en la historia un país
latinoamericano. Sin embargo, la tradición democrática y la cultura
de la legalidad y la libertad no se eclipsaron del todo en aquellos
años de terror y, al caer la dictadura y restablecerse la vida
democrática, florecerían de nuevo con más vigor y, se diría, con
una experiencia acumulada que sin duda ha educado tanto a la derecha
como a la izquierda, vacunándolas contra las ilusiones violentistas
del pasado.
De otro modo no hubiera sido posible
que la izquierda radical, que con el Frente Amplio y los tupamaros
llegara al poder, diera muestras, desde el primer momento, de un
pragmatismo y espíritu realista que ha permitido la convivencia en
la diversidad y profundizado la democracia uruguaya en lugar de
pervertirla. Ese perfil democrático y liberal explica la valentía
con que el Gobierno del presidente José Mujica ha autorizado el
matrimonio entre parejas del mismo sexo y convertido a Uruguay en el
primer país del mundo en cambiar radicalmente su política frente al
problema de la droga, crucial en todas partes, pero de una agudeza
especial en América Latina. Ambas son reformas muy profundas y de
largo alcance que, en palabras de The Economist, “pueden beneficiar
al mundo entero”.
El matrimonio entre personas del mismo
sexo, ya autorizado en varios países del mundo, tiende a combatir un
prejuicio estúpido y a reparar una injusticia por la que millones de
personas han padecido (y siguen padeciendo en la actualidad)
arbitrariedades y discriminación sistemática, desde la hoguera
inquisitorial hasta la cárcel, el acoso, marginación social y
atropellos de todo orden. Inspirada en la absurda creencia de que hay
solo una identidad sexual “normal” —la heterosexual— y que
quien se aparta de ella es un enfermo o un delincuente, homosexuales
y lesbianas se enfrentan todavía a prohibiciones, abusos e
intolerancias que les impiden tener una vida libre y abierta, aunque,
felizmente, en este campo, por lo menos en Occidente, se han ido
desmoronando los prejuicios y tabúes homofóbicos y reemplazándolos
la convicción racional de que la opción sexual debe ser tan libre y
diversa como la religiosa o la política, y que las parejas
homosexuales son tan “normales” como las heterosexuales. (En un
acto de pura barbarie, el Parlamento de Uganda acaba de aprobar una
ley estableciendo la cadena perpetua para todos los homosexuales).
La represión no ha funcionado, y el
narcotráfico es hoy el factor principal de la corrupción en América
Latina
Respecto a las drogas prevalece
todavía en el mundo la idea de que la represión es la mejor manera
de enfrentar el problema, pese a que la experiencia ha demostrado
hasta el cansancio que no obstante la enormidad de recursos y
esfuerzos que se han invertido en reprimirlas, su fabricación y
consumo siguen aumentando por doquier, engordando a las mafias y la
criminalidad asociada al narcotráfico. Este es en nuestros días el
principal factor de la corrupción que amenaza a las nuevas y a las
antiguas democracias y va cubriendo las ciudades de América Latina
de pistoleros y cadáveres.
¿Será exitoso el audaz experimento
uruguayo de legalizar la producción y el consumo de la marihuana? Lo
sería mucho más, sin ninguna duda, si la medida no quedara
confinada en un solo país (y no fuera tan estatista) sino
comprendiera un acuerdo internacional del que participaran tanto los
países productores como consumidores. Pero, aun así, la medida va a
golpear a los traficantes y por lo tanto a la delincuencia derivada
del consumo ilegal y demostrará a la larga que la legalización no
aumenta notoriamente el consumo sino en un primer momento, aunque
luego, desaparecido el tabú que suele prestigiar a la droga ante los
jóvenes, tienda a reducirlo. Lo importante es que la legalización
vaya acompañada de campañas educativas —como las que combaten el
tabaco o explican los efectos dañinos del alcohol— y de
rehabilitación, de modo que quienes fuman marihuana lo hagan con
perfecta conciencia de lo que hacen, al igual que ocurre hoy día con
quienes fuman tabaco o beben alcohol.
La libertad tiene sus riesgos y
quienes creen en ella deben estar dispuestos a correrlos en todos los
dominios, no sólo en el cultural, el religioso y el político. Así
lo ha entendido el Gobierno uruguayo y hay que aplaudirlo por ello.
Ojalá otros aprendan la lección y sigan su ejemplo.
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