Sensazionale: il debito pubblico italiano non è più ripagabile, perché ormai supera i 2.000 miliardi di euro, oltre il 130% del Pil. Per assorbirlo, l’Italia dovrebbe fare due cose, entrambe estreme: non fare più deficit (assoluto pareggio di bilancio: parità tra spesa pubblica e introito fiscale) e in più varare, per molti anni, ulterori manovre “lacrime e sangue” da 100 miliardi l’anno, irrealistiche perché palesemente insostenibili. «La verità che nessun politico è disposto ad ammettere è che il debito pubblico italiano non è più ripagabile», avverte Marcello Foa. Ma c’è di peggio. La tragedia è che nessun politico – parafrasando Foa – è disposto ad ammettere che il debito pubblico non dovrebbe mai essere un problema, essendo infatti il vero “mestiere” dello Stato: che solo attraverso il deficit – la spesa pubblica, o spesa a deficit positiva – può continuare a pagare stipendi a medici e insegnanti e costruire strade, ferrovie, scuole e ospedali, cioè strutture e servizi avanzati senza cui non potrebbe vivere neppure l’economia di mercato.
In condizioni di normale salute socio-economica, quella che in Italia ha prodotto gli straordinari progressi del dopoguerra, il debito pubblico è Mario Draghiesattaente la “benzina” (l’unica possibile) dello sviluppo complessivo della comunità nazionale, pubblica e privata. Viceversa, se si pretende – come oggi, vigendo l’ideologia neoliberista di Bruxelles – che siano i cittadini, mediante le tasse, a “finanziare” i servizi pubblici, allora cessa virtualmente la funzione principale dello Stato: in teoria, a quel punto, i cittadini potrebbero saltare l’ostacolo e privatizzare direttamente i servizi di cui necessitano. Ed è esattamente l’obiettivo strategico dei neoliberisti: eliminare lo Stato democratico dalla faccia della terra e spogliarlo dei suoi beni strategici, che vengono privatizzati – non dai cittadini, ovviamente, ma dall’élite che ha progettato l’intera operazione, cioè la stessa oligarchia feudale che ha trasformato in dogma l’illusione che il mercato sia autosufficiente. Oligarchia che ha sempre colpevolizzato lo Stato, come se il debito pubblico (cioè il suo “mestiere” fisiologico) fosse una sorta di peccato, di malattia, di vergogna da nascondere.
Secondo Foa, che pure critica spesso le sleali e pericolose politiche di rigore promosse dall’élite mondiale attraverso gli obbedienti tecnocrati della Troika europea (Ue, Bce e Fmi), giustizia vorrebbe che per riequilibrare i bilanci in rosso si facesse “un’eccezione”, come quella che dal 2009 è stata fatta per salvare le grandi banche, tecnicamente fallite, a catena, dopo il crac di Wall Street del 2007. In via del tutto eccezionale, si dovrebbe cioè consentire un temporaneo alleggerimento finanziario costituito da «misure straordinarie, uniche, non ripetibili», per poi tornare a una «normalità» nella quale, tra le altre cose, gli Stati siano «messi nelle condizioni di non abusare del proprio potere». Una “normalità” – mai esistita, peraltro – fatta di «mercati che funzionano senza correttivi o salvataggi indebiti», di tassazioni «ragionevoli, che incentivino il consumo e il risparmio e non penalizzino – anzi premino – gli imprenditori che creano ricchezza e posti di lavoro». Una normalità ideale, dunque, in cui «le banche e le banche centrali non siano più onnipotenti», e in cui «politici, cittadini, banchieri, Foaimprenditori siano chiamati a rispondere delle proprie azioni. Tutto questo è davvero irragionevole?».
No, certo: sarebbe un mondo perfetto, ancorché irrealistico. Specie se si tiene conto di un aspetto capitale: il debito pubblico – cioè quello che lo Stato contrae con i propri cittadini – è fatto apposta per non essere mai ripagato finanziariamente, perché la “paga” del debito pubblico sono i beni e i servizi che lo Stato crea per i cittadini, spendendo i loro soldi in anticipo, a deficit, per il benessere della cittadinanza. Storia: nessuno Stato moderno ha mai dovuto ripagare il suo debito pubblico. Quello italiano, poi, è esploso all’inizio degli anni ’80. Non per colpa delle “cicale” italiane, ma sotto la pressione della grande finanza anglossassone: che ha convinto la Banca d’Italia (Ciampi) a divorziare dal Tesoro (Andreatta), cessando di essere il “bancomat” del governo, cioè il fornitore a costo zero del denaro necessario alla nazione. Da quel momento, per sostenere infrastrutture e servizi per i cittadini, lo Stato ha dovuto attingere denaro dal mercato privato, a caro prezzo, mettendo in vendita titoli di Stato da ripagare (quelli sì) con gli interessi.
Risultato: il debito pubblico è praticamente raddoppiato di colpo, a vantaggio della speculazione finanziaria. Rimediare in modo naturale, cioè tornando indietro e rimettendo insieme Bankitalia e Tesoro? Operazione oggi tecnicamente impossibile, dopo l’adesione all’euro: la banca centrale italiana non è più comunque autorizzata ad emettere, per l’Italia, banconote spendibili. Di conseguenza, allo Stato – neutralizzato e paralizzato dalla finanza privata – non restano che le tasse (ora sì) per far funzionare i servizi. E non tasse qualsiasi, ma le super-tasse del rigore: quelle che strangolano le famiglie, fanno chiudere le aziende e seminano disoccupati. Un circolo mortale: se l’economia peggiora, cala di pari passo il volume dei contributi Montifiscali e quindi esplode il debito pubblico, col suo fardello cronico e ormai esponenziale di interessi passivi pluriennali.
Non è stato un incidente, ma un piano: solo così, disabilitando la funzione pubblica dello Stato sovrano – emissione di moneta per sostenere la spesa pubblica – sarebbe stato possibile privatizzare completamente la finanza e l’economia, e regalare profitti stellari ai “Masters of Universe”, i falsari di Wall Street che convocarono Mario Draghi sul Britannia per progettare la grande rapina che poi l’opinione pubblica avrebbe chiamato crisi economica, crisi finanziaria, crisi dell’Eurozona. Quando il paese cresceva, il debito pubblico era “nostro”, era decisivo per il progresso e il benessere della nazione. E’ questa la verità che conta, quella che “nessun politico è disposto ad ammettere”. Nessun politico di oggi, s’intende. Perché quelli di ieri – insieme alla loro economia e alla loro industria di Stato, così temuta dalla concorrenza tedesca e francese – sono stati spazzati via dalla cupola finanziaria non appena l’Italia, caduto il Muro di Berlino, ha cessato di avere importanza geopolitica. I politici di oggi non la ammettono, quella verità fondamentale, perché loro stessi sono stati selezionati, allevati, addomesticati e messi al potere proprio dai grandi pianificatori internazionali della rapina che continuiamo a chiamare crisi.
Tratto da terrarealtime.blogspot.it
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