Una fotografia può essere assai più di una illustrazione, e può valere molto più anche di un documento in forma scritta: in termini di capacità di comunicazione, certo, ma anche sul piano della pregnanza. Ogni tipo di documento serve, nell’attività storiografica, si sa: la massa documentaria che il passato, lontanissimo come recentissimo, ci offre è come il maiale: non si butta via nulla, tutto serve, ogni pezzo ha una sua utilità. Ma le fotografie sono un documento di tipo particolare. E a volte, lo si sa, e lo si ripete, una foto può valere più di mille parole.
È
il caso di “Torino ’69”, un volume riccamente illustrato, di Ettore
Boffano, Salvatore Tropea, Mauro Vallinotto, edito da Laterza. Le
immagini vincono, e alla grande. Al di là dei meriti eventuali del
fotografo – il bravissimo Mauro Vallinotto – e di quelli di chi scrive –
due giornalisti di lungo corso, espertissimi delle vicende torinesi,
Ettore Boffano e Salvatore Tropea, fondatori dell’edizione cittadina de
la Repubblica –, questo è un libro che racconta Torino, la Fiat, il Sud,
e il Nord, nel loro difficile incontro/scontro, e in verità l’Italia
tutta, in una stagione che va molto al di là e sta molto al di qua della
data in copertina. Al di là e al di qua: questo è uno dei punti più
complessi e discutibili del volume, devo aggiungere subito. Detto
altrimenti, la periodizzazione, uno degli elementi nodali del lavoro di
chi fa storia: individuare le cesure e le continuità, un atto non
facile, perché assai numerose sono le questioni in ballo, a cominciare
dalla soggettività di chi scrive.
Quando inizia il ’69, in primo luogo? Dai fatti di Corso Traiano, il 3 luglio, secondo gli autori. Tesi discutibile.
Il Sessantanove italiano è in realtà una parte di un’endiadi:
l’altra parte è il Sessantotto, che nel panorama internazionale
rappresenta un unicum: è un unico movimento, che occupa un biennio. In
tal senso, allora, il Sessantotto torinese inizia dall’occupazione di
Palazzo Campana (giustamente ricordata dagli autori), il 17 novembre
1967. E senza una vera soluzione di continuità si giunge al 1969.
Naturalmente è lecito tentare di distinguere i due anni, ma allora
il 1969, ossia l’autunno caldo, mi pare difficile farlo iniziare da
quell’episodio. Si aggiunga che gli autori fanno degli andirivieni
cronologici, non limitandosi affatto a quel biennio, ma risalendo
indietro, al 1962 (Piazza Statuto), ai fatti di Ungheria (1956), e via
seguitando in un tentativo comunque di mettere sotto gli occhi dei
lettori i dati che segnano la rapidissima e quasi violenta
trasformazione di Torino, da ex capitale politica a capitale industriale
dalla nostalgia alla preoccupazione, davanti all’invasione dei
“napuli”, i “moru”, le “terre da pipe”, i “terroni”, e via seguitando in
una lunga galleria di colorite espressioni dal sapore razzista, anche
quando “simpaticamente” espresso…
Le resistenze, dunque, vi furono, all’ondata dei meridionali,
quelli che, come informavano centinaia di cartelli (ma anche di annunci
sui quotidiani), non si affittava: e quello era un periodo in cui si
trovava casa con facilità, ma per quegli uomini (prevalevano di gran
lunga i maschi, d igiovane età), che giungevano dal Mezzogiorno, poteva
diventare un’odissea faticosa e umiliante. Eppure quelle resistenze
vennero travolte, malgrado gli sforzi in senso contrario da parte di
alcune delle centrali egemoniche; si pensi alle pagine cittadine della
Stampa, grondanti di razzismo, anche se i suoi padroni – la Fiat e gli
Agnelli – avevano bisogno di quella manodopera. In generale (e meglio
sarebbe stato sottolinearlo nei testi di accompagnamento alle immagini)
è, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, un’intera classe politica a
risultare impreparata, compresa quella comunista. Così come si palesa
una certa sclerosi del sindacato, sorpassato dai comitati di base, in
una inaspettata riemersione della “democrazia operaia” teorizzata da
Gramsci nel 1919…
Fu la Chiesa cattolica, rispolverando la tradizione dei santi
sociali piemontesi, a esercitare un importantissimo ruolo di supplenza,
nella gestione di una situazione del tutto nuova e dirompente. Emerge
altresì la debolezza culturale e l’assenza di un’etica dell’impresa
nella proprietà e nella dirigenza FIAT, e i contrasti interni. Diego
Novelli, mitico sindaco rosso degli anni Settanta, racconta un episodio
interessante, al riguardo, relativo alla richiesta rivoltagli da Umberto
Agnelli di metterlo in contatto con Luciano Lama, il grande capo della
CGIL. La cosa non si fece per la recisa opposizione di Cesare Romiti, da
cui si giunse poi alla grave sconfitta degli anni Ottanta. In
precedenza, il passaggio nella direzione dell’azienda da Vittorio
Valletta a Gianni Agnelli fu un passaggio dalla padella alla brace, che
non recò benefici né all’impresa né ai lavoratori. Capitalismo padronale
e neocapitalismo modernizzatore a parole, finirono per convivere in una
faticosa gestione della maggiore azienda privata italiana.
Le interrelazioni con il resto del mondo, nei testi, sono quasi
assenti, ma andrebbero tenute presenti per capire quegli anni. Nixon,
l’escalation in Vietnam, ma anche in Cambogia e Laos, con gli effetti
che produsse, anche nell’immaginario (“Agnelli l’Indocina ce l’hai in
officina”, fu uno degli slogan più fortunati di quella fine decennio…).
Meno rilevante, ma comunque importante, l’elezione di Arafat: la
questione palestinese irrompeva nel dibattito politico. Le dimissioni di
De Gaulle a fine aprile. La morte dello studente Jan Palach (inizio
anno). La rottura del gruppo del Manifesto in seno al PCI. Gheddafi al
potere in Libia (settembre). Il festival di Woodstock nello Stato di NY
(agosto). Lo scontro sul fiume Ussuri tra Repubblica Popolare Cinese e
URSS simbolo dei due comunismi ormai inconciliabili. E mentre la Russia
dei Soviet perdeva il suo appeal, la Cina di Mao ne acquistava e un
forzosamente redivivo “marxismo-leninismo” acquistava una quarta icona
da inserire accanto al “trittico” Marx Engels Stalin, il faccione di Mao
Zedong, il “grande timoniere”. E i “cinesi”, che ben presto si
frammentavano in linee contrassegnate da colori, diventano una
componente significativa, anche se non maggioritaria, del movimento di
lotta, più fra gli studenti che fra gli operai.
Altrettanto nuova la “sinistra extraparlamentare”, che mostrava le
maggiori contiguità tra movimento degli studenti e lotte operaie. A
Torino la Lega Studenti Operai fu un fenomeno interessante, e
addirittura vi fu un Gruppo Gramsci, rara avis in un mondo in cui a
dispetto dei richiami oggettivi tra le due ondate di consiliarismo, a
distanza di mezzo secolo (1919-1969), il rivoluzionario sardo venne
ignorato quasi totalmente. Fu Bruno Trentin a cogliere, con la sua
lucida intelligenza, le somiglianze, parlando per primo (e bene fanno
gli autori a richiamarlo) di un “secondo biennio rosso”, aggiungendo che
questo era più importante del primo: e il giudizio viene avvalorato
dagli esiti di quel biennio, opportunamente elencati nel libro.
Personalmente non condivido l’enfasi con cui Giovanni De Luna parla,
nelle conversazioni con gli autori (“Fu un momento magico e
irripetibile…”, p. 204) e uno sforzo di valutazione critica è
necessario, ed è ciò che fanno, pure direi sotto traccia gli autori, i
quali comunque si limitano per lo più a tentare di rappresentare,
“fotograficamente” – e qui si percepisce l’egemonia del linguaggio delle
immagini – non solo quell’anno ma l’intero dopoguerra fino oltre gli
anni Settanta, con la più volte evocata marcia dei 40.000.
Il libro dal punto di vista della ricostruzione appare rapsodico, a
dispetto degli sforzi degli autori di costruire delle sequenze, e
questo se da una parte rende più debole sul piano storiografico, ne
aumenta la leggibilità, in quanto risulta una chiacchierata, ricca di
stimoli, con giudizi generalmente condivisibili.
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