lunedì 30 marzo 2020

La democrazia in bilico

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La democrazia in bilicoLe convulsioni del Sistema Sanitario Nazionale, la crisi del capitalismo, i balbettii dell’UE, la dittatura di Confindustria e delle multinazionali, il ricorso - inefficace per fermare il contagio - allo Stato di Polizia e all’Esercito, la militarizzazione preventiva dei territori e della società

La democrazia infetta e la carne viva del contagio
Il rischio a cui il coronavirus SARS-CoV-2 (causa del contagio Covid-19) sta esponendo l’intera comunità umana ha evidenziato (se qualcuno ne avesse avuto ancora il dubbio) le profonde differenze di classe che attraversano le nostre società: è stata drammaticamente messa a nudo la linea di separazione tra privilegiati e sommersi, anche se al momento non ci sono farmaci o vaccini che possano garantire - neanche ai ricchi – l’immunità o una cura. In una situazione di virulenta precarietà esistenziale, con l’evidenza della fragilità e della caducità della nostra vita, non si può tuttavia affermare di condividere tutti il medesimo destino, di essere realmente tutti eguali: come è evidente dalle cronache - e anche dagli scaffali ancora pieni, brulicanti di merci nei supermercati - c’è una parte consistente di società che non può rimanere a casa per proteggersi dal contagio, riducendo i rapporti per contrastare la diffusione della pandemia e rischiando di infettare i propri familiari. Al di là di polemiche sterili, occorre analizzare il comportamento del governo Conte e le misure prese e che si annunciano. Tardivamente, cominciano ad arrivare provvedimenti a sostegno delle categorie non protette, perché non possono lavorare, perché rischiano il posto, perché non dotati di protezione nelle unità produttive, verso le famiglie con i figli a casa da proteggere ed accudire. Tuttavia, il segno dei provvedimenti resta condizionato dal mercato e dettato dal profitto.

Il lavoro ai tempi della pandemia
Assieme a professioni e mestieri fondamentali (gli operatori sanitari: medici, infermieri, barellieri, farmacisti), vi sono moltissime attività lavorative che ricoprono servizi o lavori essenziali, ma che sono esposti al rischio di contagio perché scarsamente protetti o semplicemente perché esposti al contatto con il pubblico. Vi sono inoltre una serie di lavori collegati alla produzione, alla distribuzione di merci, a servizi per la collettività e le persone (farmaceutica, produzione di macchinari, strumenti e dispositivi medici e protettivi, filiera alimentare, igiene ambientale, assistenti domiciliari e sanitari) che sono essenziali e necessari affinché il dramma non si aggravi con la disarticolazione delle relazioni sociali. Infine, vi sono addetti che lavorano in settori che non possono essere considerati essenziali e strategici, ma non si interrompono per il timore che le aziende rischino la chiusura, con la conseguente distruzione di occupazione.
Lo sfruttamento prima di salute e sicurezza
È in queste figure di lavoratori e lavoratrici che emerge con violenza la contraddizione propria del capitalismo: l'auto sfruttamento delle piccole aziende e del lavoro autonomo delle partite IVA, che non possono fermare la propria attività per non finire espulse dal mercato, assieme allo sfruttamento intensivo delle grandi aziende che spremono la manodopera per realizzare più profitti possibile, in un’economia che sta rapidamente virando verso nuovi scenari che molti assimilano a quella di guerra.
La rappresentazione che si presenta plasticamente ai nostri occhi è quella di una società stratificata, con le classi proletarie (sia lavoratori e lavoratrici dipendenti che le nuove figure del lavoro precario, a tempo determinato, a intermittenza, a chiamata, interinale e chi più ne ha, più ne metta) da parafulmine su cui si scarica tutto il peso dell’emergenza sanitaria: nonostante gli allarmi che continuano ad alzarsi da chi è già passato dalla tragica esperienza, i medici cinesi, ancora il Governo Conte non riesce ad assumere appieno l’unica decisione sensata di fermare - con un apposito e chiaro ordine tassativo – le aziende, le fabbriche, i magazzini, la circolazione delle merci non essenziali. Il risultato sono le fibrillazioni di un sistema che ha come priorità assoluta i profitti e gli interessi del padronato, che irresponsabilmente ha continuato nelle settimane passate (e continua tuttora) a infierire sui lavoratori imponendo lo svolgimento delle mansioni e dei turni con cinico spregio alla sicurezza e alla salute.
D’altronde, ci sono immagini che circolano in rete e nei servizi di alcune trasmissioni televisive che testimoniano la presenza cospicua di operai all’ingresso delle fabbriche o di aziende della logistica, e neppure i ripetuti scioperi dei giorni scorsi ha ancora determinato la chiusura di tutte le attività produttive e commerciali non essenziali. Addirittura, in piena emergenza mentre la Lombardia era dichiarata zona rossa, il Presidente della Confindustria lombarda Bonometti l’11 marzo si dichiarava contrario alla chiusura completa: una posizione che non lascia dubbi alla sensibilità e agli interessi che anche in una situazione così drammatica si vogliono imporre e preservare. D’altronde, l’ultimo decreto governativo firmato anche dalle confederazioni CGIL-CISL-UIL, ribadisce la dittatura di Confindustria che non abbandona i propri interessi neppure di fronte ad una emergenza globale. Non sarebbe invece il momento di mettere sotto il controllo diretto del governo le banche, con tutti i conti e il mercato dei titoli, e istituire una patrimoniale progressiva per avere risorse da indirizzare intanto alla ricostruzione del Sistema Sanitario Nazionale pubblico, alla cassa integrazione dei lavoratori, alla sospensione dei mutui? Sarebbe una scelta razionale, con un segno chiaramente in controtendenza.
Le convulsioni del sistema basato su mercato e profitti
La difficoltà decisionale mostrata dal Governo nazionale, con lo stillicidio di provvedimenti in sequenza con la crescita dell’intensità dei contagi e dei decessi, ha mostrato un esecutivo in stato confusionale che non ha brillato in chiarezza comunicativa e chiara senza indugi e tentennamenti, mostrata dal governo nazionale, deriva dalle troppe ferite inflitte al sistema politico-istituzionale, culminato nella modifica costituzionale del Titolo V - predisposta da D’Alema e Amato - che ha sgretolato l’integrità dello Stato e in particolare del Sistema Sanitario Nazionale nella devoluzione delle competenze alle Regioni, e dal massacro sociale operato dai governi di destra e di centro-sinistra, entrambi ammaliati dal mercato selvaggio impostosi in quaranta anni di capitalismo neoliberista: le convulsioni della sanità a cui assistiamo sono aggravate da decenni di politiche di austerità funzionali a estrarre profitti, nella lunga fase di crisi sistemica del capitale che, dagli anni Ottanta del Novecento, proietta le sue ferali ombre fino ad oggi, con scosse telluriche sempre più devastanti, provocate dalle speculazioni finanziarie.
Gli attacchi allo Stato Sociale, e in particolare alla Sanità Pubblica, hanno prodotto una vulnerabilità del sistema sanitario che si manifesta violentemente in queste settimane: l’introduzione del principio di sussidiarietà, con la concorrenza tra pubblico e privato, ha accompagnato il taglio di 37 mld di euro in circa quindici anni, contrazione delle risorse che ha causato lo smantellamento dei Pronto Soccorso, dei presidi territoriali, di decine di migliaia di posti letto, dei servizi di assistenza, dei laboratori di analisi e ricerca, la precarizzazione di medici, infermieri e ricercatori, che oggi paghiamo con uno straordinario tributo di morti che non accenna a fermarsi. In compenso, le strutture private ricevono da anni benefici fiscali dallo Stato, nonché fondi e donazioni eccellenti da ricchi facoltosi che vogliono comprarsi un’assistenza garantita: come è già stato ricordato da più parti, oggi non è più possibile avere troppi riguardi, e l’unica soluzione per sostenere le strutture pubbliche è la requisizione delle strutture private e la precettazione dei medici e del personale infermieristico che vi lavora da mettere al servizio della comunità.
Occorrerà verificare, non appena la virulenza del contagio si sarà attenuata e potremo riprendere appieno l’iniziativa politica, quanto delle misure prese in circostanze eccezionali, e quanto delle denunce ai tagli al Sistema Sanitario Nazionale e delle dichiarazioni contro la frantumazione dello Stato centrale a vantaggio dell’autonomia differenziata (regionalismo potenziato) saranno confermate o se si sarà trattato di lacrime di coccodrillo che evaporeranno ai primi segni di normalizzazione.
Prove tecniche di rimodellamento sociale
In una società nettamente divisa tra chi possiede le risorse e la possibilità economica per sostenersi in queste settimane di isolamento, o che ha la garanzia di poter continuare la propria attività attraverso il lavoro a distanza (“lavoro agile”), e chi deve uscire per raggiungere il proprio posto di lavoro, non potendo sottrarsi a questo impegno perché non ha altre fonti di reddito che un salario o una retribuzione precaria. Le misure prese con il Decreto Cura Italiacoprono una parte delle situazioni lavorative interessate da sospensione delle attività, ma tralascia molti occupati, precari o sommersi, in piccole e piccolissime attività (commerciali, di ristorazione, di cura ad anziani e indigenti), ma soprattutto non aggredisce la questione fondamentale: la necessità che grandi aziende (nazionali e multinazionali) debbano chiudere, garantendo il mantenimento di salari e di tutti gli istituti contrattuali, prima che l’infezione si diffonda esponenzialmente tra i lavoratori, vanificando gli sforzi di medici e infermieri, e gli appelli a rimanere in casa lanciati sempre più disperatamente dagli operatori sanitari che stanno per essere travolti dall’emergenza.
Oltre al cinismo e all’indifferenza di classe, si sta verificando una trasformazione nelle modalità del lavoro che già alcune aziende, supportate da intellettuali organici (al capitale), economisti e giuslavoristi allineati stanno considerando come un test per rinnovare le forme del lavoro e le mansioni degli occupati: la pandemia ha offerto alle amministrazioni e ai management un’occasione per uno straordinario esperimento sociale, che potrebbe dare soluzioni inimmaginabili con conseguenze occupazionali e mansionarie stravolgenti. Non va sottovalutata l’astuzia della borghesia, o almeno di quelle articolazioni più innovative capaci di sfruttare ogni situazione al fine di ristrutturare il proprio dominio di classe.
La democrazia infetta e la ricostruzione dopo la crisi
Lo scenario che si sta aprendo in questi ultimi giorni è quello di una precipitosa deriva verso la sospensione (temporanea ma, poiché l’emergenza si protrarrà per mesi, rischia di diventare definitiva), della democrazia, giustificata dalla necessità di misure drastiche per fermare il contagio: l’esigenza di evitare la diffusione del virus ha già portato a sospendere ogni manifestazione di piazza, e adesso si prefigura il ricorso alle forze dell’ordine - e addirittura all’esercito - per controllare e dissuadere comportamenti sicuramente irresponsabili, ma che non possono essere considerati i principali, o quantomeno gli unici, vettori del contagio. A fronte delle migliaia di lavoratori che sono costretti ad ammassarsi sui mezzi pubblici, nelle fabbriche e nei magazzini, indicare qualche corsa come responsabile principale del contagio appare inverosimile, è voler osservare il dito che indica la luna: diventa più fondato invece per giustificare la militarizzazione delle città, già presidiate abitualmente (ma inutilmente) contro il terrorismo (minaccia ormai sbiadita di fronte all'insidia del virus), come dispiegamento preventivo per una difficile - se, come si prospetta l’emergenza dovesse continuare per mesi - tenuta dell’insieme del sistema sociale, con conseguenti reazioni rabbiose di massa e disordini sociali. Non ci faranno credere che si istituisce uno stato di polizia e si ricorre all’utilizzo dell’esercito solamente per dissuadere le persone dal fare sport all’aperto, dal portare il cane ai giardinetti, dal fare la fila ai supermercati, ma per un controllo repressivo del territorio in vista di una eventuale situazione di instabilità sociale.
Si aggiunga che l’attuale esecutivo continua a emanare decreti, al di là dell'efficacia e dei limiti, da convertire in legge dal Parlamento, che si può riunire (quando si riunisce) a ranghi ridotti - la realizzazione del taglio dei parlamentari - ; che l’attività politica e sindacale è ridotta a riunioni e incontri attraverso collegamenti video o audio a distanza; che gli istituti contrattuali e i diritti sindacali sono in un limbo: dovremo vigilare perché la restrizione degli spazi politico-sindacali, che già stavano diminuendo prima dell’epidemia, non venga realizzata. Occorrerà elaborare un programma di ricostruzione dell’economia e della società che non riproponga modelli capitalistici (liberisti o semplicemente riformisti), ma inedite prospettive di collettivizzazione e nazionalizzazione dei settori strategici.
La putrescenza patologica del capitalismo
Il sistema capitalistico, nelle sue articolazioni politiche e istituzionali, sta però muovendosi in ordine sparso e disordinato, con interessi contrapposti e conflittuali (concorrenza su scala internazionale e intra-nazionale tra paesi dell'UE), con strategie difformi, contrastanti e contraddittorie.
Nelle scorse settimane, l’Italia ha ricevuto colpi bassi dai paesi più vicini, con cinici calcoli per avvantaggiare le proprie merci sui mercati, ma anche risposte irricevibili dalla Presidente della BCE Christine Lagarde, poi rettificate, fino ad un rovesciamento di atteggiamento da parte della stessa Banca Centrale e dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, con l’annuncio il 20 marzo la sospensione del Patto di Stabilità per consentire a tutti i paesi una spesa senza vincoli contro l’epidemia. Ben poco rispetto alla solidarietà e agli aiuti concreti provenienti dal colosso cinese e persino dalla piccola Cuba, nonostante l’infame embargo imposto dagli Stati Uniti.
È evidente che le fibrillazioni convulse e contraddittorie a cui stiamo assistendo sono costitutive del capitalismo, aggravate dalla concorrenza tra interessi nazionali e transnazionali.
Certo è che niente potrà essere più come prima: ciò che da comunisti (ovunque collocati e al di là delle ormai veramente esiziali divisioni) ci dovremo porre, e su cui sviluppare un’elaborazione teorica e da cui organizzare l’azione politica, è la prospettiva della rottura del sistema capitalistico, rivelatosi incapace di risolvere non solo la crisi economico-finanziaria, né tantomeno politico-sociale, ma perfino quella drammatica di un’emergenza sanitaria pandemica, la prima del XXI secolo.
È il compito immane di avviare il processo di fuoriuscita dal capitalismo e di transizione al socialismo.
29/03/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://francescapratelli.wordpress.com/2014/04/17/equilibrio-precario/

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