Quello che ha messo in piedi i 15 Dipartimenti di
prevenzione lombardi. Che ha affrontato l’incidente di Seveso nel 1976.
Che è tornato in prima linea nel 1986 per mettere in sicurezza la
regione dopo il disastro di Chernobyl. Ora, nel suo appartamento
milanese, Carreri segue con attenzione i dati della nuova epidemia in
cerca di una spiegazione della catastrofe lombarda.
Quali dati la fanno più riflettere?
In Lombardia solo il 40% delle persone
infette sono isolate in casa, mentre in Veneto sono tra il 65 e il 70%.
Basta questo dato per far cogliere la differenza fra sistemi
sanitari: uno centrato sugli ospedali, l’altro sulla sanità
territoriale. È evidente che se non c’è una rete di medici di famiglia e
altri servizi territoriali pronti all’emergenza, i positivi venga
spediti in ospedale, contribuendo a ulteriori infezioni, all’intasamento
delle terapie intensive e a una mortalità maggiore.
Perché ci sono differenze regionali così marcate di fronte allo stesso virus? Non ci dovrebbero essere criteri uniformi di assistenza in Italia?
La Regione Lombardia ha fatto a pezzi la
sanità pubblica con la legge 23 del 2015 in cui pubblico e privato sono
stati equiparati, laddove la legge di riforma nazionale prevedeva che
il privato avrebbe dovuto integrare quello pubblico, non concorrere con
esso ad armi impari.
L’ultima legge di programmazione ospedaliera risale
al 1974.
Le Unità socio-sanitarie locali istituite con la legge 833 del
1978 sono diventate nell’ultima versione lombarda aziende.
15
Dipartimenti di prevenzione da me istituiti, che tenevano insieme igiene
pubblica, alimenti, sicurezza nutrizionale, prevenzione nelle comunità e
veterinaria (tre nella sola Milano), sono diventate otto agenzie, di
cui una sola per tutta l’area metropolitana milanese di 3,5 milioni di
abitanti!
Da 15 siamo passati a 3 laboratori di sanità pubblica (PMIP).
In Lombardia la sanità pubblica e la prevenzione sono state fiaccate,
l’assistenza sul territorio disarticolata.
Credo che questo abbia un
peso su quello che sta accadendo oggi.
Perché è importante seguire i
malati sul territorio? In fondo la Lombardia ha ospedali di eccellenza,
normalmente cura gente che arriva da tutta Italia, mentre ora le tocca
mandare malati di Covid-19 in altre regioni.
La sanità non è solo medicina.
È assistenza, attenzione ai determinanti sociali e ambientali dei
diversi luoghi. La sanità territoriale è fondamentale e si deve
garantire la massima tempestività di informazione dei casi sospetti e
positivi in modo da garantire con altrettanta tempestività l’appropriato
ricovero ospedaliero, l’isolamento domiciliare e il suo controllo, e il
controllo dei contatti stretti con immediati supporti ai medici di
medicina generale e ai Dipartimenti di Prevenzione.
Come è noto in
Lombardia non ci sono più i distretti nella accezione della legge 833 e i
Presidi locali (ambulatori extra ospedalieri in collegamento con i
medici generalisti) sono ancora pochissimi.
Però i medici di base ci sono. Non sono abbastanza?
I MMG non sono stati supportati e i
dipartimenti di prevenzione hanno avuto estensioni territoriali enormi,
come quello di Milano. Una significativa destrutturazione e
impoverimento del settore non ha consentito di rispondere adeguatamente.
A questo si aggiunge il fatto che l’epidemia, alla quale non eravamo
preparati, ha lasciato sul campo molti medici e operatori sanitari. La
concentrazione dei ricoveri in ospedale con medici insufficientemente
dotati di dispositivi di protezione ha diffuso il contagio. I dati
dell’istituto Superiore di Sanità relativi al 13 marzo dicono che in
Italia su 19.941 casi positivi ben 1.674 pari al 8,4% erano personale
sanitario. In Regione Lombardia su un totale (sempre al 13 marzo) di
9.820 casi ben 1.089 (11%) erano sanitari. La rapida avanzata dei casi
ha messo sotto stress il sistema. Il Dipartimento di prevenzione di
Milano (competente anche per Lodi) ha avuto molti dei suoi collaboratori
contagiati, ricoverati e in quarantena con riduzione della sua
operatività già ridotta nell’ultimo decennio.
Come mai questa concentrazione
di casi a Bergamo e Brescia? Peraltro il sindaco di Bergamo segnala
molti morti anche a domicilio, gente che nemmeno ha fatto in tempo a
raggiungere l’ospedale.
Difficile rispondere. Le caratteristiche
sociali del territorio, specie di Bergamo e Brescia, e la penetrazione
del contagio in Val Seriana, possono avere influito. Già nel 1973 in uno
studio che avevo condotto sulle malattie infettive aveva osservato un
tasso di infezioni epatiche nella provincia di Bergamo doppio rispetto
alle altre province, e già allora mi domandavo cosa non andava in quella
provincia. Ora viene adombrato una possibile maggior virulenza dei
virus circolanti, ma io credo che ci siano anche fattori
socio-ambientali specifici di quel territorio vallivo, sede di attività
produttive e molta mobilità, con una sanità indebolita.
Cosa si può fare ora?
Sono stato coinvolto da amici e colleghi
in una proposta di rafforzamento del ruolo dei medici di medicina
generale basato sulla telemedicina. Anche in Lombardia dal 1994 si è
diffuso un modello di medicina generale organizzata in ambulatori con
medici, infermieri e segreteria. Questa è la prima linea, non gli
ospedali, nella gestione sia dei malati cronici, sia adesso dei malati
di Covid-19. Seguire in sicurezza parte dei pazienti al domicilio e in
remoto (sia con sintomi dubbi, sia Covid positivi ma stabili, sia in
quarantena) può sgravare gli ospedali in questa terribile emergenza.
Quale esperienza della sua vita le ricorda quello che stiamo passando in queste settimane?
Né Chernobyl, né soprattutto Seveso sono
state delle passeggiate. Ricordo anche la notte del 23 novembre del
1980, quando c’è stato il terremoto dell’Irpinia. Siamo partiti
immediatamente come squadra di sanitari della Regione Lombardia, dove
siamo rimasti – pensi lei – un anno. Mille persone, fra medici,
infermieri, tecnici e ingegneri… Cosa voglio dire con questo? Che la
sanità pubblica e i dipartimenti di prevenzione della Lombardia sono
stati un vanto per il Paese, e alcuni suoi aspetti innovativi sono stati
estesi al territorio nazionale. Che questa sia l’occasione per
ripensare il sistema e ricostruirlo.
Alla fine dell’intervista Vittorio
Carreri mi mostra la medaglia d’oro al merito della Sanità pubblica,
conferitagli da Carlo Azeglio Ciampi nel 2003. «Arrivato a Roma, mi son
presentato davanti al Quirinale chiedendo a un Corazziere dove si
entrava per andare dal presidente. All’inizio mi ha guardato stranito,
poi mi ha fatto entrare dal portone principale. Non sapevo perché mi
avessero convocato, temevo che volessero arrestarmi (ride),
invece era per una medaglia». Che recita: «Per i meriti acquisiti nella
lunga carriera svolta con alto senso dello Stato e spirito di sacrificio
in qualità di manager del servizio di prevenzione sanitaria in campo
nazionale e regionale, concorrendo alla soluzione di numerose
problematiche igienico-sanitarie e distinguendosi per l’opera di
soccorso offerto alla popolazione di Seveso invasa dalla diossina
fuoriuscita dallo stabilimento chimico».
Nessun commento:
Posta un commento