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I giorni grami che stiamo vivendo hanno improvvisamente ridestato
l’interesse popolare per il tema della moneta. Oggi più che mai ce n’è
bisogno e ce n’è bisogno sempre di più. E allora, come al solito,
andiamo col cappello in mano a Bruxelles, dalla Von der Leyen, oppure a
Francoforte, dalla Lagarde, a chiedere “risorse” fresche. E La Lagarde,
giustamente, ci risponde di andare a farci un giro perché Sua Maestà, ai
sensi dell’articolo 123, comma 1 del Trattato di Lisbona non può
finanziare direttamente gli Stati. E la Von der Leyen, a sua volta, ci
manda a farci un altro bel giro (e pure largo largo) perché, nella UE,
la competenza esclusiva, in materia di politica monetaria, è della Banca
Centrale Europea, ai sensi dell’articolo 3 del TFUE: ping-pong,
ping-pong.
Oppure, in subordine, la Ursula ci offre flessibilità “in deroga”
al Fiscal Compact: cioè ci fa indebitare un po’ di più in attesa di
farci rientrare nei ranghi quando la crisi sarà finita e potrà, così,
imporci di ridurre il debito con il consolidamento fiscale (nuove tasse)
o con il contenimento di spesa (austerity). Ecco allora che il pissi
pissi bao bao del popolo, giustamente incazzato, si trasforma in un
fiume in piena di giustificato risentimento. E a qualcuno viene in mente
(anzi torna in mente) un’idea meravigliosa: facciamoci una moneta
complementare, tutta italiana e tutta per gli italiani.
A questo punto, si impone una seria riflessione giuridica.
Ho detto “giuridica”, non economica, non finanziaria, non di opportunità
e neanche da Bar Sport. I discorsi “limitrofi” al perimetro della
legge, per così dire, li lasciamo, per il momento, ai grandi economisti
(ne abbiamo a bizzeffe) o ai milioni di “commissari tecnici” di cui
pullula questo Paese. Concentriamoci solo sull’aspetto squisitamente
legale, allora. Può l’Italia emettere una nuova moneta parallela
all’euro, senza violare i trattati? Perché di questo stiamo parlando:
farlo adesso, farlo subito. Senza dover aspettare la “Rivoluzione
francese” in salsa tricolore, che non arriva mai. Ebbene, la risposta
deve essere senz’altro positiva. Ecco perché.
Innanzitutto, una premessa metodologica e semantica, per quanto
superflua. In tutti i trattati non troverete mai l’espressione “unica
moneta”, bensì “moneta unica”. C’è una sostanziale differenza: la prima
costituirebbe la sola ed unica moneta consentita in una certa area. La
seconda rappresenta invece la moneta “unica” di un gruppo di Stati, da
intendersi, quindi, come la “sola” moneta riconosciuta alla stregua di
“condivisa”, “uguale” per tutti e “spendibile” in ciascuna delle Nazioni
coinvolte. Ma non è questo, sia chiaro, l’argomento dirimente.
Piuttosto, andiamo ad esaminare in cosa si concretizzi la famosa
“moneta unica” detta “euro”. Ce lo spiega l’articolo 128 del Trattato di
Lisbona. Essa può materializzarsi in due tipologie (secondo il citato
articolo): banconote dette euro (disciplinate dal primo comma) e monete
metalliche (disciplinate dal secondo comma). Le banconote sono quello
strumento di pagamento cartaceo colorato che abbiamo tutti nel
portafoglio: recano il logo della BCE e appartengono, stando a quanto
lorsignori ci dicono, all’Eurosistema. Le può emettere solo la BCE
oppure una banca centrale nazionale (degli Stati dell’eurozona) su
autorizzazione della BCE. Queste “banconote” costituiscono le uniche
“banconote” aventi corso legale nell’Unione.
Cosa vuole dire “a corso legale”? Uno strumento di pagamento è a
“corso legale” quando, in un dato territorio, nessuno dei consociati può
rifiutarsi di accettarlo perché l’autorità ne impone la circolazione.
Quindi, nell’eurozona, se voi pagate con banconote in euro un venditore –
o chiunque vi presti un qualsiasi servizio – costui non può rifiutarsi
di acconsentire al vostro pagamento (a meno che non si tratti di denaro
palesemente falso).
Questo è un primo aspetto fondamentale e quindi va ripetuto con una
bella sottolineatura (sotto forma di aperte virgolette, chiuse
virgolette): la “banconota” in euro è l’unica “banconota” a corso legale
nell’eurozona. Abbiamo messo la parola “banconota” tra virgolette per
far capire che si tratta di un mezzo di pagamento (ben preciso e
cartaceo) emesso da una “Banca” centrale, non da uno “Stato”. Veniamo
ora alle monetine in euro. Queste, al contrario delle banconote, non
sono emesse dalla BCE, ma coniate dai singoli Stati. Per intenderci,
tutti gli spiccioli che avete nel borsellino sono stati “fusi” dalla
zecca dello Stato italiano oppure di qualche altro degli Stati
dell’eurozona: ne riconoscete la provenienza da un minuscolo acronimo
(nel caso degli euro coniati in Italia, esso è RI: Repubblica Italiana).
Tuttavia, lo Stato non può “farne” quanta ne vuole, di tale ferraglia.
Ha bisogno della approvazione, quanto al volume di conio, da parte della
BCE (art. 128, secondo comma TFUE). Aperta parentesi: la Germania,
negli ultimi anni, ne ha prodotte una caterva rispetto a noi di monete
(a costo quasi zero e con signoraggio percepito tutto dallo Stato), ma
non importa. Il fatto che i tedeschi, almeno in materia monetaria ed
europea, siano più furbi degli italiani, ormai lo sanno anche i sassi.
Semmai, ora la domanda diventa: e se lo Stato italiano decidesse di
emettere uno strumento di pagamento diverso da una “Banconota”, cioè un
“Biglietto di Stato”, potrebbe farlo? Da un punto di vista pratico e
giuridico, s’intende. Dal punto di vista pratico, la risposta ce la
fornisce la storia. L’Italia, ai tempi della Lira, fece un esperimento
in tal senso; semplicemente esercitando il più classico potere di uno
Stato sovrano: quello legislativo. Con legge numero 171 del 31 marzo
1966, infatti (Presidente del Consiglio: Aldo Moro), la Repubblica
autorizzò se stessa ad emettere “biglietti di Stato” (di valore nominale
500 lire) che entrarono in circolazione accanto alle “banconote”,
sempre di valore nominale 500 lire, emesse dalla Banca d’Italia.
Più precisamente, la realizzazione pratica (del precetto di tale
norma di rango primario) venne data attraverso due regolamenti attuativi
che consentirono la stampa di biglietti serie “Mercurio” e “Aretusa” da
500 Lire: il DPR 20.06.1966 e il DPR 20.10.1967 per le 500 lire serie
“Aretusa” e il DPR 14.02.1974 per le 500 Lire serie “Mercurio”. Ciò
dimostra, inoppugnabilmente, che una moneta “statale” può
tranquillamente convivere con una moneta di provenienza “bancaria”. La
differenza la sanno tutti: la prima “nasce” senza debito, la seconda,
invece, sorge ab initio indebitando lo Stato, il quale deve
emettere e cedere in garanzia titoli del debito pubblico onde ottenere
(dalla propria banca centrale) la “liquidità” desiderata. Ed è il motivo
per cui, in genere, il debito pubblico degli Stati, in valore assoluto,
tende inesorabilmente ad aumentare. Il problema, poi, diventa
esponenziale se la Banca Centrale non è più un istituto che “risponde”
allo Stato (come Bankitalia, quantomeno fino al fatidico “divorzio” dal
Ministero del Tesoro del 1981), ma una “entità” straniera (come la BCE)
cui è addirittura proibito “per legge” di finanziare il debito pubblico
dello Stato.
“Eh, ma oggi c’è la BCE” – ti obbietta il saputone – “e la BCE è
una banca centrale indipendente pura e ha la governance esclusiva della
politica monetaria nell’area euro”. Obiezione da rispedire al mittente,
“codici alla mano”. Infatti, va rimarcato che i biglietti di Stato di
cui sopra possono tranquillamente convivere con un sistema dove esiste
una Banca Centrale indipendente pura nonché titolare esclusiva della
governance della politica monetaria di un Paese (come è oggi, a tutti
gli effetti, la BCE). Lo dimostra, inconfutabilmente, il fatto che la
legge del 1965 rimase in vigore anche “dopo” che fu approvata la legge 7
febbraio 1992, n. 82 (“Modificazioni alle procedure stabilite dal testo
unico sugli istituti di emissione e sulla circolazione dei biglietti di
banca”); la legge 82 del 1992 è il provvedimento normativo con cui si
attribuì – nello stesso giorno della firma del trattato di Maastricht! –
il diritto-potere esclusivo a Bankitalia di determinare il tasso di
sconto del denaro senza doversi interfacciare con il Ministero del
Tesoro.
Per la precisione, la legge 171 del 1965 rimase in vigore fino al
1998, quando fu abrogata per effetto del decreto legislativo del 10
marzo di quell’anno, il numero 43. Cerimonieri d’eccezione, due nostre
vecchie conoscenze: Presidente della Repubblica era Oscar Luigi Scalfaro
e Presidente del Consiglio, Romano Prodi. Ciò avvenne, non a caso, a
ridosso dell’entrata a regime dell’euro sui mercati finanziari (primo
gennaio 1999). Cionondimeno, l’abrogazione di una legge dello Stato
italiano, da parte del Parlamento italiano, non impedisce, di per sé,
allo stesso Stato italiano di ri-emanare una legge identica a quella
abrogata. È solo una questione di “volontà” politica, non di
“possibilità” giuridica. A maggior ragione ove si consideri che –
proprio a cavallo tra l’esordio dell’euro sui mercati finanziari (primo
gennaio 1999, abbiamo detto) e lo “zampillare” dell’euro dalle nostre
tasche (primo gennaio 2002) – il Parlamento italiano, con legge
costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3, riformò l’articolo 117 della
Costituzione: scrivendo, nero su bianco, che lo Stato (sia pur nel
rispetto dei vincoli derivanti dai trattati internazionali) ha esclusiva
competenza in materia di “moneta”.
L’unico dubbio residuo sul tappeto potrebbe quindi essere il
seguente: eventuali nuovi “biglietti di Stato” (come quelli famosi di
Moro, per intenderci) sarebbero compatibili con il Trattato di
Maastricht e con quello di Lisbona? Ragioniamo: se tali “Stato-note” le
concepissimo e producessimo come semplice “formato” alternativo alle
monetine metalliche, la risposta sarebbe ovviamente affermativa. Già
oggi lo Stato conia 1 euro, 2 euro e i vari centesimi. Che lo faccia
sotto forma di moneta metallica piuttosto che sotto forma di
“Stato-nota” non cambierebbe granchè. Anzi, in passato (e per mere
ragioni pratiche e “simboliche”) lo aveva addirittura proposto l’allora
Ministro Giulio Tremonti. Ma ce ne gioveremmo davvero, e in modo
significativo? No, visto che incorreremmo nella necessità della
approvazione del volume di conio da parte della BCE ex art. 128, comma
due di Lisbona, già citato.
Allora, facciamo un passo più in là. E se lo Stato stampasse dei
“biglietti” aldilà e oltre il perimetro dell’art. 128, secondo comma?
Qui dobbiamo intenderci. Innanzitutto, se si trattasse di biglietti di
stato “non” a corso legale (la cui accettazione, cioè non fosse
obbligatoria per i cittadini, ma solo volontaria), certamente sì.
Infatti, l’articolo 128 di Lisbona attribuisce l’esclusiva alla BCE solo
sulle banconote “aventi corso legale”. Le nostre “Stato note” sarebbero
invece (nell’ipotesi testé prospettata) ad accettazione volontaria. Ma
ciò non significa che i cittadini non le userebbero per i propri scambi.
Non essere obbligati ad accettare uno strumento di pagamento non
significa essere tenuti a rifiutarlo. Anzi, lo Stato potrebbe
addirittura rendere appetibile una tale moneta dando ad essa valenza
fiscale, cioè accettandola per il pagamento delle tasse.
Ma si potrebbe addirittura spingersi oltre, e sostenere che lo Stato
potrebbe emettere “biglietti di Stato” anche “a corso legale” (cioè ad
accettazione obbligatoria) purché solo entro i confini del proprio
territorio. Infatti, l’articolo 128, primo comma, del Trattato di
Lisbona attribuisce l’esclusiva alla BCE in materia di “banconote”, non
di “Stato-note” o di biglietti di Stato, che dir si voglia. Dunque,
potremmo avere due monete a corso legale sullo stesso territorio
italiano: le banconote in euro (valevoli anche oltreconfine, negli altri
Paesi dell’eurozona) e le “Stato-note” valevoli solo in Italia.
A questo punto, resta la questione del nome. Potrebbe – questa nuova
moneta di Stato – essere chiamata “euro”? Probabilmente no, perché
l’esclusiva, anche sul nome oltre che sul “mezzo”, ce l’hanno UE e BCE.
Supponiamo allora di volerla chiamare “Nuova lira”. Giuridicamente, essa
potrebbe “a buon diritto” circolare sul Territorio italiano senza
violare i trattati e senza costringere lo Stato a bussare alle porte
altrui per generare liquidità.
Due ultime precisazioni. Prima precisazione: La nuova moneta
parallela all’euro sarebbe solo “domestica” (cioè usabile solo nel
territorio italiano), ma non sarebbe solo cartacea. Proprio come nel
caso della monetazione in euro, essa potrebbe, e dovrebbe, circolare
pure sotto forma di moneta elettronica. Prescindiamo, per ragioni di
sintesi, dal modo in cui potrebbe materialmente realizzarsi il relativo
circuito. Ricordiamo solo che “possono emettere moneta elettronica, nel
rispetto delle disposizioni ad essi applicabili, la Banca centrale
europea, le banche centrali comunitarie, lo Stato italiano e gli altri
Stati comunitari, le pubbliche amministrazioni statali, regionali e
locali, nonché Poste Italiane” (art. 114 bis Testo Unico bancario
licenziato con Decreto legislativo del primo settembre 1993, numero
385). E tanto basti, in punto di diritto.
Aggiungiamo che – ove si riproducesse la stessa proporzione oggi
esistente per l’euro – avremo solo un sette per cento di “Nuove Lire”
in biglietti di stato cartacei e un novantatré per cento di “Nuove Lire”
in moneta elettronica. Seconda precisazione: ci sarebbero problemi
pratici? La nuova lira si svaluterebbe nel rapporto di cambio con
l’euro? A entrambe le domande rispondiamo affermativamente. Ci sarebbero
diversi problemi pratici, come per qualsiasi soluzione innovativa, e ci
sarebbe un rapporto di cambio sicuramente sfavorevole alla Nuova Lira. E
tuttavia, non è questo il punto.
A noi, in questa sede, interessava dimostrare che l’introduzione di
una nuova moneta collaterale (a corso legale o meno) di matrice statuale
in territorio italiano è giuridicamente fattibile. Dopo di che, se
questo non dovesse “volersi” fare per le resistenza/renitenza del
Sistema, dei Mercati, della Finanza, dei Partner o (soprattutto) della
volontà dei nostri rappresentanti in Parlamento, è una faccenda che
esula dalla indagine di carattere giuridico di questo scritto.
Quel che conta è sgombrare il campo dall’alibi “legale” così
declinato: non si può fare perché ci sono i trattati. Non è vero. Si può
fare e sarebbe legale. Che poi “legale” non faccia per forza rima anche
con “opportuno” o “conveniente”, siamo i primi a riconoscerlo. E
tuttavia – ci sia consentito aggiungere – forse si approssima un’epoca
in cui conteranno il coraggio e la volontà ben più rispetto
all’opportunità e alla convenienza. In tempi eccezionali, sono le misure
eccezionali a salvarti la pelle. Non solo: con l’opportunità e la
convenienza – soprattutto quelle degli altri, più che non le nostre –
abbiamo già mandato praticamente a ramengo il paese più bello del mondo.
Avv. Francesco Carraro
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